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Frenetik&Orang3 hanno convinto i rapper che le chitarre non sono il male assoluto

Hanno plasmato il suono del rap in Italia producendo e suonando per Achille Lauro, Salmo, Gemitaiz, Coez. Partiti dall'underground hanno conquistato anche Sanremo. In occasione del loro nuovo show, 'Bootleg', di cui sono previste due date il 7 aprile a Roma e il 14 a Milano, li abbiamo intervistati

Foto: Alessandra Mangia

Quando li raggiungiamo via Zoom i due sono separati, come spesso accade nella loro vita. Frenetik è a Torino, nell’ennesimo hotel dove è arrivato alle 5 del mattino direttamente dopo un concerto con Salmo (di cui è parte della band, Le carie), pronto per salire nuovamente sul palco la sera stessa per l’ultima data del Flop Tour del rapper sardo. Orang3 invece è tornato da un lungo viaggio solitario in Bolivia e risponde dal balcone di casa sua a Roma, tra piante in fiore e un promettente sole.

Dopo questo girovagare singolo, Frenetik&Orang3 torneranno assieme, come sempre accade, per due date speciali, il 7 aprile al Largo Venue di Roma e il 14 aprile in Santeria Toscana 31, a Milano. Il titolo di questa doppia data è Bootleg, un modo con cui i due vogliono ribadire quanto per loro sia importante prendere in mano gli strumenti e mettersi a suonare. Per l’occasione rispolverano anche il loro disco, Zerosei, uscito lo scorso 2019, riaccendendo gli amplificatori e i synth per ridare fiato al loro suono, ciò che loro chiamano Space Hop.

Abbiamo colto l’occasione per farci una chiacchiera tra innamorati della musica, ripercorrendo una storia iniziata nel 2008 nell’underground romano e che ha portato i due fino al palco del Festival di Sanremo, dove oramai possono quasi definirsi dei resident. Nel mentre hanno fatto una piccola rivoluzione: hanno convinto i rapper che le chitarre non sono il male assoluto.

Raccontatemi un po’ di questo nuovo live, Bootleg. Da cosa nasce?
Frenetik: Avevamo la voglia e l’esigenza di suonare assieme dopo un po’ di tempo che siamo distanti, io con Salmo, Orang3 con Coez. L’idea è portare live la dimensione del nostro studio, con tutto acceso, tutto pluggato, loop che girano, mischiando elettronico con acustico. Abbiamo ripreso in mano pezzi che abbiamo prodotto per noi o per altri, o che semplicemente ci sono piaciuti in questi anni (un esempio su tutti: Liberato), e ci abbiamo messo mano, fatto dei rework. Da qui il concetto di bootleg.

L’idea di uno “studio aperto” prevede quindi spazio per l’improvvisazione?
Frenetik: Sì, assolutamente. Nel live io tengo un po’ le file del discorso, ma in mezzo improvvisiamo.
Orang3: E tra queste improvvisazioni ci sono degli appuntamenti in cui ci ritroviamo.

Mi piace il concetto di appuntamento.
Orang3: Oh, ci rivediamo là dopo il ritornello.
Frenetik: Sul do maggiore.
(ridono)

Questo vostro girovagare in altre band, altri palchi, altri tour, come influisce sul vostro progetto?
Frenetik: Quando andiamo in giro per altri progetti poi torniamo sempre con un bel bagaglietto di cose imparate da portare in studio.
Orang3: Quando ci ribecchiamo dopo i nostri viaggi la prima cosa che facciamo è suonare insieme. Il modo in cui è nato questo live è praticamente ludico, è qualcosa che facciamo per divertirci.

Un dilemma tipico dei dischi da producer è la difficoltà di portare dal vivo il proprio lavoro non avendo a disposizione tutti gli artisti e le voci coinvolte. Quanto è complicato trovare una soluzione a questa problematica?
Frenetik: Talmente difficile che il nostro disco, Zerosei, non lo abbiamo mai portato dal vivo. Questo per spiegarti quanto è complesso! Quando hai molti featuring in un disco è difficile poter raggruppare tutti. Ma magari in futuro una volta ci proveremo…
Orang3: Quando avremo tutti 50 anni! (ride)
Frenetik: Quel disco invecchia bene, te lo dico io! Comunque ora abbiamo deciso che live andiamo solo noi (e un “terzo incomodo”, Carmine Iuvone) e le voci dei featuring diventano dei sample su cui possiamo agire, lavorare, apportare modifiche.

Evitate così il rischio di veder appiattita la palette sonora del vostro lavoro – e mi viene in mente un vecchio tour di Mura Masa a tal proposito – chiamando un vocalist a re-interpretare tutte le differenti collaborazioni.
Frenetik: Su questa idea viene in mente il tour di Mace; era fatto molto bene. Aveva 3-4 artisti fissi e colmava le assenza degli ospiti con una band della madonna.
Orang3: E poi lì c’era un lato visuale che veniva in aiuto.

Nonostante il vostro abituale ruolo di turnisti, aveva preferito fare dei live focalizzandovi su voi due, su Frenetik&Orang3. Quanto è importante per voi poter essere finalmente al comando della vostra vostra musica?
Orang3: Fondamentale. Noi facciamo questi live perché vogliamo suonare, vogliamo fare qualcosa per noi. Come produttori, come turnisti di altre band, noi lavoriamo sempre per altre persone. E per lavorare bene per altre persone devi mettere da parte una bella dose di ego. Per noi questo progetto è uno sfogo.
Frenetik: Bisogna sempre mediare quando si è in una band altrui.
Orang3: La bravura sta proprio qua.

Come cambia il vostro approccio alla musica e alla composizione quando collaborate a lavori altrui piuttosto che sui vostri brani?
Frenetik: Cerchiamo di rimanere noi stessi. Certo, l’obiettivo è sempre quello di cucire l’abito perfetto e far brillare chi si mette nelle nostre mani, ma le stoffe son sempre le nostre, non andiamo a comprarle altrove.
Orang3: Cambiano forse i tempi. Per i nostri lavori abbiamo molto più tempo a disposizione, quando lavori per altri hai delle deadline, spesso molto strette.
Frenetik: Se pensi che il primo singolo di Zerosei è uscito due anni prima del disco capisci di cosa parliamo.

La percezione di Frenetik&Orang3 è quella di un progetto molto reale. Spiego meglio: sarà il vostro suono, sarà che suonate davvero, sarà che vi circondate di persone che sono spesso vostre amiche o con cui riuscite a creare subito un rapporto, ma in voi si percepisce una certa umanità, l’umanità di due persone che amano far musica e che la fanno – prima di tutto – perché ci credono, al di là dei risultati. È un feeling molto raro di questi tempi.
Frenetik: Negli anni siamo una specie di ufficio di collocamento per musicisti. Ci è capitato spesso di piazzare in giro nostri amici molto bravi. E così dopo un po’ ci siamo ritrovati a suonare con quegli stessi amici che nel frattempo avevano spaccato. Quello che noi cerchiamo, nei limiti dei possibili, è di far musica con chi abbiamo un rapporto umano.
Orang3: Quando dobbiamo prendere un lavoro invitiamo la persona in studio, a pranzo, ospite nostro. Se le cose cliccano, ci lavoriamo. Se non c’è una buona vibra, non andiamo avanti. È una selezione umana, vero, ma bisogna ricordarsi che questo è un lavoro molto umano: condividere con una persona uno spazio piccolo come uno studio, per molto tempo, è un’esperienza intensa.
Frenetik: E se non gira, amici come prima.

Orang3 intona Amici come prima di Paola & Chiara, e tutti scoppiamo a ridere.

Da questo punto di vista Zerosei nasceva proprio da quella esigenza di fare una cosa tra persone che si vogliono bene e si rispettano. È un racconto umano, d’amicizie, vero, ma anche locale, legato ad un territorio. Quanto è importante per voi il legame con Roma?
Frenetik: Roma ci ha plasmato come fa con tutti i suoi figli. Ma a parte Roma in generale, per noi era importante fotografare quel momento artistico di Roma.

Voi siete stati tra i primi a riportare l’approccio suonato nel mondo del rap italiano in un periodo in cui il beatmaking era diventato un gioco di preset freddi e Fruity Loops.
Frenetik: Mi ricordo bene quando ci guardavano male perché avevamo le chitarre.
Orang3: Noi arrivavamo dall’elettronica, dove tempi e mode cambiano velocemente. Quando invece ci siamo approcciati alle canzoni, abbiamo iniziato a notare come una chitarra può essere sempre bella mentre un determinato synth magari è figo adesso, ma tra qualche tempo diventa vecchio. Abbiamo quindi preferito cercare di fare una musica con un suono che potesse durare nel tempo.
Frenetik: Noi comunque arriviamo da quella cosa, noi siamo gente che suona davvero.
Orang3: E ci piace quella cosa lì. Preferiamo gli strumenti alla programmazione di un beat col mouse.

Il fatto che vi guardassero male mi fa sorridere, alla fine avete avuto ragione voi.
Frenetik: Un amico mi mandava sempre uno screen di un celebre post di Kanye West: «No acoustic guitar in the studio» (ride) Poi è cambiato tutto. Sai da quando? Da Bene (singolo di Gemitaiz del 2015, nda) in poi. Gemitaiz è stato bravissimo: si è fidato, li è piaciuto il sound, il flavour, e ha educato tanto l’ambiente attorno. Per noi è stato uno spartiacque.

Vero, Gemitaiz in quel momento è stato bravo ad intercettare qualcosa che c’era nell’aria, unendo il rap che stava arrivando (la trap) a quel suono più suonato dell’it-pop. In fondo quegli sono gli anni di Calcutta e Sfera Ebbasta quelli.
Frenetik: Vero, però non direi comprendere perché erano quelle cose facevano già parte del bagaglio nostro e di Gemitaiz.
Orang3: Sì, sono cose che sia noi che lui avevamo dentro. C’è stata sola la voglia e l’occasione di metterle in gioco.

Mi sposto su un’altra vostra collaborazione importante per voi: quella con Achille Lauro. Lì siete riusciti a costruire un suono unico capace di accompagnare l’evoluzione di un rapper conosciuto nell’underground a idolo nazionalpopolare.
Frenetik: Ci sono stati tre ingredienti fondamentali: la conoscenza con Lauro da quando avevamo 11 anni, l’apertura mentale di Lauro, la nostra capacità di capire che poteva dire qualcosa al di fuori di quello che stava facendo in quel momento.

Quel successo, quello di Rolls Royce, è stato trasversale e transgenerazionale. Come ci siete arrivati?
Frenetik: Siamo stati due mesi chiusi in una casa, una bella casa almeno, per far quel disco. Lì ci siam sbloccati a livello autoriale, iniziando anche a contribuire ai testi.
Orang3: Lauro è stato il primo a darci spazio, anche nella collaborazione della scrittura.
Frenetik: È qui che – per me – Lauro vince.
Orang3: È super aperto.
Frenetik: È uno che se per un testo gli proponi una parola migliore di quella che ha scritto lui, ti dice “bravo” e usa la tua. Non capita spesso. Sai, penso ci siano i rapper a cui piace il rap e i rapper a cui piace la musica. È una differenzzazione importante.

E così siete passati da essere i musicisti snobbati perché le chitarre a conquistare il Festival di Sanremo. Come l’avete vissuta questa cosa voi che arrivate da un mondo completamente distante da quello del Festival?
Frenetik: Il primo Sanremo è stato assurdo.
Orang3: La più grande soddisfazione è essere arrivati lì con la propria identità, con qualcosa che ci apparteneva. Rolls Royce non nasce per andare a Sanremo, ma è stata scritta perché volevamo scrivere un brano del genere. Così quando è stato preso ed è stato ben accettato è stato bello. Una soddisfazione, ma una soddisfazione di sano.
Frenetik: Quest’anno è stato il mio quinto a Sanremo, e già questo di per sé lo trovo allucinante. Penso di aver capito un paio di cose dopo cinque edizioni: se il festival serve più a te che a Sanremo, ci vai, se servi più tu al festival, non ci vai. E se ci vai, non devi andare con una canzone “per Sanremo”, ma con un brano che vada bene anche per Sanremo. Se rispetti queste regole, è una vetrina che si può cavalcare alla grande.
Orang3: E che devi cavalcare, è pur sempre un ripetitore enorme. C’è bisogno che ci sia anche della musica differente in quel contesto.

Da quello che ho capito è che girate, collaborate, andate in tour anche separatamente con altri progetti ma – alla base di tutto – ci sono sempre Frenetik&Orang3.
Frenetik: Trovarci è stata una magia. Abbiamo detto tanti no, ma anche tanti sì a cose pazze per il gusto di farle. E spesso queste cose pazze sono diventate il nostro business.

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