Francesco Guccini: «Chi dice che destra e sinistra sono uguali di solito è di destra» | Rolling Stone Italia
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Francesco Guccini: «Chi dice che destra e sinistra sono uguali di solito è di destra»

Dialogo con il grande cantautore, che non fa più musica, ma continua a pubblicare libri. Tra il miagolio del gatto e un paese in declino alla finestra, confessa che la politica continua ad animarlo e che sulla guerra in Ucraina «se ancora le scrivessi, mi sarebbe uscita una canzone»

Francesco Guccini: «Chi dice che destra e sinistra sono uguali di solito è di destra»

Francesco Guccini

Foto: Isabella Perugini

Francesco Guccini non ha certo bisogno di presentazioni e, arrivato a festeggiare 82 anni il 14 giugno scorso, è ormai stanco di parlare di musica. Da tempo non scrive più canzoni, non ne ascolta di attuali («né alla radio né con altri mezzi») e quindi, quando stiamo per iniziare l’intervista – anche se la tentazione sarebbe forte – provo a proporgli un patto: nessuna domanda sulla musica, ma nessuna limitazione sul resto. Lui, dopo una grassa risata, accetta con un pizzico di diffidenza: «Vediamo un po’ cosa vuoi chiedermi». Alla fine risponderà a tutto, persino con qualche eccezione alla decisione di non parlare di musica.

In vista della sua partecipazione a Passaggi Festival (il 26 giugno), l’evento che in questi giorni sta portando a Fano 150 proposte culturali, lo abbiamo incontrato nella sua Pavana, il buen retiro a cavallo tra l’Emilia e la Toscana (e non il West come cantava), in provincia di Pistoia. Ma d’altronde non ha tutti i torti a non volersi esprimere sulla musica: i libri che ha pubblicato, da ultimo Tre cene (Giunti), hanno quasi doppiato i dischi. Siamo a 24 rispetto a 16 (tolte le raccolte e i live). Per cui si può dire a tutti gli effetti che Francesco Guccini è uno scrittore. Anzi, molto di più: Francesco Guccini è un poeta. E forse per la prima volta, quando glielo chiedo direttamente, non dice di no: «Certi testi confinano con la poesia, e se non sono poesie ci somigliano molto».

Da poco ha passato il Covid, e qualche colpo di tosse ne ricorda gli strascichi, ma tutto sommato questi due anni di pandemia li ha vissuti sereni, visto che «da tempo vivevo in lockdown». E se è abbastanza certo che «non ne siamo usciti migliori», percepisce però negli italiani un grande entusiasmo: «Come dopo la Seconda guerra mondiale, quando avevo scritto che “c’era una voglia di ballare che faceva luce”».

Così la chiacchierata si concentra soprattutto sulla sua attività di scrittore, tra saggi, racconti, romanzi e gialli, perché «a me diverte di più la prosa». Spiegherà chi sono i suoi riferimenti letterari, da dove nasce la sua creatività nell’inventare storie che da sempre lo anima («già da bambino a un amico pastore descrivevo film che non avevo mai visto») e confermerà che ancora si incazza davanti alla tv, in particolare sui temi politici. La politica, infatti, benché sia un argomento nel quale non vuole entrare direttamente, è qualcosa che immancabilmente lo smuove: «Di solito chi dice che sinistra e destra sono la stessa cosa, alla fine si rivela essere di destra». Così come la guerra in Ucraina, dove fa una eccezione al nostro patto: «Forse se scrivessi ancora canzoni qualcosa su quel conflitto mi sarebbe uscito». E tra un miagolio e l’altro del gatto sul tavolo, a cui parla come un vecchio amico («son buoni tutti di fare miao, ma non si capisce cosa vuoi»), ammetterà che di rivoluzioni, in vista, non ne vede traccia: «Al massimo delle evoluzioni».

So che non ami parlare di musica, anche perché ormai i tuoi libri hanno superato per numero i tuoi album. Allora ti propongo un patto: non ti chiedo niente di musica, ma su tutto il resto ho carta bianca.
(Grassa risata) Di musica non ne ascolto più, né alla radio né con altri mezzi. Dipende cosa vuoi chiedermi. Vediamo dai…

Parto da una domanda facile facile: ti consideri un poeta?
Mah, forse in certe canzoni sì. Anche se ho detto che “non si fa poesia con le canzoni”. Però alcuni testi confinano con la poesia, e se non sono poesie ci somigliano molto.

Eppure i tuoi testi vengono spesso assimilati ai componimenti poetici, tanto da costituire materia di insegnamento nelle scuole dove vieni portato a esempio di poeta contemporaneo.
Mi fa piacere, anche se mi diverto di più a scrivere in prosa.

I gialli, i saggi, la narrativa, il racconto breve, il romanzo, la ricerca sul linguaggio e sui dialetti. Hai scritto di tutto, ma c’è un genere che preferisci?
Tutto! Con approcci diversi, certo. I gialli non li scrivo da solo, ma con Loriano Macchiavelli. È un genere divertente. Abbiamo inventato diversi personaggi. Però mi piacciono sia i racconti brevi che lunghi, che poi possono diventare romanzi. Molto spesso sono falsamente autobiografici. Perché parto da spunti realmente vissuti sui quali ricavo, invento o costruisco delle storie. L’importante è inventarsi delle vite. Sai, lo scrittore ha questa grande possibilità di inventarsi vite altrui. Non solo, del personaggio lo scrittore sa tutto, dalla nascita al suo destino, quello che ha fatto e farà, se vive o se muore. Ci trovo grandissime possibilità nella penna, anche se la penna non si usa più…

Hai un po’ nostalgia della penna?
Ma no, la penna la usavo per le canzoni con un foglio di carta. Per la prosa uso il computer, che ogni tanto fa arrabbiare. Proprio stamattina ho provato ad aprire un file e non si è aperto, chissà cosa è successo…

Rispetto alle cose analogiche è difficile metterci le mani…
Ah impossibile… I giovani di oggi sono nati insieme ai computer, ma io no e faccio fatica.

Lo sai che con i tuoi versi i giovani oggi scrivono i post sui social?
Lo apprezzo molto, perché significa che ho fatto un mestiere che non è da buttare via del tutto.

Foto: Egizio Fabbrici/Mondadori via Getty Images

Il tuo ultimo libro si intitola Tre cene. Tre racconti con protagonisti alcuni amici, dai poveri anni ’30 alla disillusa fine del Novecento, passando per le speranze degli anni ’70. Come sono nati?
Il primo, scritto già qualche anno fa, è una storia paesana che mi hanno raccontato. Non ci giurerei che fosse vera, ma intanto ho cambiato qualcosa perché c’erano molti più personaggi. Li ho ridotti a quattro. Il secondo si basa su una cena con minestra di fagioli e cotiche… Aspetta un attimo…

(Si sente miagolare il gatto, che arriva a fargli visita sul tavolo e Guccini si rivolge direttamente a lui come a un vecchio amico: «Cosa vuoi dirmi?». Altro miagolio, al quale lui risponde: «Eh ma son buoni tutti di fare miao, ma non si capisce cosa vuoi…»).

Stavo dicendo. La cena è vera, ma al di là del momento sono varie storie assemblate. La terza è una storia realmente accaduta e arricchita con qualche invenzione, come una parziale eclissi di sole. Sono sempre stato un gran raccontatore di storie, un chiacchierone anche. Vuoi sapere un episodio?

Certamente!
Avevo un carissimo amico che è scomparso qualche anno fa. Da piccolo abitavo nel mulino dei miei nonni, con la casa isolata sul fiume. Lui, quando eravamo bambini, scendeva in paese con due capre e le portava a pascolare vicino ai salici. Le legava e parlavamo. Questo succedeva d’estate, perché d’inverno io andavo a Modena. E lui mi diceva sempre: «Tu che vai in città, chissà quanti film che vedi…». Io non gli dicevo che non avevo soldi per andare al cinema, per cui mi inventavo delle storie. Tutti i film che gli ho raccontato me li sono inventati. Se ne vedevo uno me ne inventavo altri cinque, sei. Per far capire che mi è sempre piaciuto inventare storie e raccontarle agli altri.

Ma come vive un uomo come te, molto legato alle tradizioni e alle proprie radici, questa epoca che sta perdendo tutte le tradizioni e ogni radicamento con il territorio?
Qualche giorno fa ho compiuto 82 anni, cominciano a essere tanti. Per cui certe cose non mi interessano più. Vado avanti tranquillo, non facendo quasi niente, per cui è piuttosto piacevole. Scrivo, leggo poco, perché ho una disfunzione agli occhi e questo mi deprime moltissimo, mi uccide quasi. Non riuscire a leggere è una mancanza gravissima per me. Poi guardo un po’ la tv, vado a cena con amici. Per il resto quel che succede nel mondo esterno, dico esterno perché Pavana ormai è un paese morto come ho raccontato nel libro precedente Tralummescuro, non mi interessa più. Anche se io Pavana la ricordo ancora viva, piena di gente, personaggi, fatti. E anche di tradizioni popolari.

Oggi dopo la pandemia le persone stanno riscoprendo i piccoli centri e tornando in provincia. Chissà che non succeda anche a Pavana.
Può darsi, ma qui a Pavana oggi non viene più nessuno. Fino agli anni ‘50 c’era villeggiatura, soprattutto della piccola borghesia. Prendevano una casa, che costava relativamente poco. Alcuni quasi “aborigeni” che tornavano, altri che affittavano degli alloggi per tre mesi. E noi giovani eravamo curiosi di vedere quali ragazze arrivavano. C’era la pista da ballo, un po’ di vivacità. Adesso non c’è più niente. Mi dicono che qualche ragazzino c’è, ma io per le strade del paese incontro solo qualche coetaneo che cammina stancamente. Qui vicino in tanti venivano a Porretta Terme. Certo, oggi se un amico ti chiede dove sei stato quest’estate e gli rispondi «a Porretta» non come dire «sono stato alle Maldive», c’è una certa differenza…

Ormai a Pavana il turismo è quello che cerca di incontrare te.
(Risata) Eh sì, però è il turismo di una giornata, di passaggio. Peccato non ci sia più chi rimaneva mesi come una volta.

Fra le tante cose sei anche etimologo, glottologo e lessicografo, cioè porti avanti la ricerca sulla parola in ogni sua forma. Quali sono le parole su cui oggi ti stai più interrogando?
Più che parole, avvenimenti e situazioni. E le parole che risuonano adesso sono Ucraina, guerra, gas e grano. Sono quelle di cui si parla di più. E non sono parole che abbiano un particolare fascino, se non un fascino triste della realtà.

Ti saresti aspettato una guerra così vicina all’Europa?
Aspettarmela no, visto che ci eravamo abituati molto bene dal 1945 in poi. Quindi credo che nessuno avrebbe potuto immaginarla.

Come mai oggi gli artisti su certi avvenimenti, anche tragici come una guerra, hanno meno peso sull’opinione pubblica rispetto al passato?
Nella Seconda guerra mondiale i libri sono stati scritti dopo, quando c’è la guerra non c’è il tempo. Magari qualche diario o appunto puoi scriverlo, ma i libri sulla Resistenza, tipo Calvino o Fenoglio, sono stati pubblicati dopo la guerra. Forse quando finirà questa può darsi che salti fuori qualcosa di importante.

A te la guerra in Ucraina non ha ispirato qualcosa?
Forse se scrivessi ancora canzoni qualcosa sarebbe uscito. Solo che ormai le canzoni non le scrivo più…

Torniamo alla scrittura, chi sono gli autori che ti hanno formato?
Ho letto di tutto, però qualcuno è stato più importante di altri. Per lo stile dei miei romanzi, dove uso un linguaggio che non è di lingua corrente, ma un italiano dialettale con parole di invenzione e una particolare sintassi, i maestri non possono che essere Gadda del Pasticciaccio, o Luigi Meneghello di Libera nos a Malo. Poi tanti altri mi hanno colpito e informato, come Salgari, che letto da ragazzino è importante, oppure il Pinocchio di Collodi, che è il primo libro che ho letto quando avevo 5 anni. Sono tutti parte di un bagaglio di parole che uno ingurgita e fa proprie. Quindi, Salgari e Collodi diventano fondamentali come Borges e Flaubert.

Quando guardi la tv ti fanno ancora arrabbiare i dibattiti politici?
(Risata) Eh, mi succede ancora. Mi arrabbio per reazioni forse un po’ stupide, istintive.

Cosa ti fa più arrabbiare?
Soprattutto le visioni politiche che non coincidono con le mie.

Parafrasando Nanni Moretti, non c’è più nessuno che dice qualcosa di sinistra?
Ma no, qualcuno c’è che dice qualcosa di sinistra. Non molti, solo che non vengono ascoltati, questo è un altro discorso. Sicuramente vengono ascoltati meno di un tempo.

A proposito di parole, lo scrittore Piergiorgio Bellocchio, che ho intervistato qualche anno fa, mi disse: «Sinistra ormai è una parola vuota».
No no, per me la parola sinistra ha ancora un significato. Non parlo di Bellocchio, ma spesso quando qualcuno dice «destra e sinistra sono uguali», oppure «sono concetti vecchi», di solito alla fine si rivela essere uno di destra. Forse un po’ mascherato, camuffato…

Oggi un altro problema è il lavoro sottopagato e precario, ma hai raccontato che come giornalista guadagnavi solo 20 mila lire al mese e per 12 ore di lavoro al giorno. Insomma, è sempre successo?
Oh, quando ero giovane io non c’erano tante possibilità. Poi mi è andata bene, sono stato fortunato con le canzoni. Nei primi anni ‘60 non c’erano così tante possibilità, nonostante il “miracolo economico”. Bisogna vedere che tipo di lavoro uno poteva scegliere. Se non avessi fatto le canzoni cosa avrei potuto fare? Il giornalista o l’insegnante… Alla fine è stato meglio fare il cantautore.

Foto: Sergione Infuso/Corbis via Getty Images

Hai da poco passato il Covid e fortunatamente ti trovo in forma. Ma secondo te cosa ci lascerà questa pandemia come società?
Di positivo ci lascerà molto poco. All’inizio si diceva «ne usciremo migliori», ma io non ci credo. Il lockdown l’ho patito poco, perché io sto sempre segregato in casa. Ho un ampio cortile, per cui al massimo uscivo lì. Poi qui vicino c’è molto spazio libero, potevo fare delle passeggiate senza vedere nessuno. Ma in fondo non credo ci abbia cambiato in meglio. Sai cosa vedo?

Cosa?
Una gran voglia di sfogarsi. Come nel 1945 dopo la Seconda guerra mondiale. Io di quel periodo avevo scritto che “c’era una voglia di ballare che faceva luce”. Anche adesso la gente si vuole sfogare, andare in giro, senza mascherine e limitazioni. Questo è il risultato della pandemia. Adesso leggo che sta un po’ riprendendo il contagio, speriamo di no.

Una curiosità. È dal 1970 che porti la barba. Come mai?
Allora, la questione è nata in una situazione particolare, mi ero fatto crescere anche i capelli. È dipeso tutto da una questione sentimentale. Ma sarebbe troppo lunga da spiegare…

Vorrei salutarti chiedendoti una previsione. Nella canzone Stagioni dedicata a Che Guevara cantavi: “Ma voi reazionari tremate, non sono finite le rivoluzioni”. Te la immagini una futura rivoluzione?
Ah, chissà… Non credo per ora. Mi sembra più facile che ci saranno delle evoluzioni che forse non sappiamo ancora immaginare. Ma rivoluzioni, per il momento, non ne vedo in arrivo.

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