Francesco Bianconi: «Il fascismo è dentro di noi» | Rolling Stone Italia
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Francesco Bianconi: «Il fascismo è dentro di noi»

L'idea di togliere ogni maschera unisce il romanzo 'Atlante delle case maledette' e la riedizione "in technicolor" di 'Forever' dove s'immagina uomo di destra. «Siamo animali che vogliono sopraffare l'altro»

Francesco Bianconi: «Il fascismo è dentro di noi»

Francesco Bianconi

Foto press

Francesco Bianconi, per una serie di coincidenze, è in una specie di lockdown già da prima della pandemia. E lì ha lavorato, parecchio. Guardandosi dentro. Per esempio in “Forever” in technicolor – edizione deluxe che uscirà il 28 maggio di Forever, il suo primo disco da solista pubblicato lo scorso ottobre – c’è un pezzo, Il mondo nuovo, nato nel 2019 da una stanzetta «bianca e asettica», presa in affitto perché il suo studio di registrazione era inagibile. Affacciandosi dalla finestra vedeva solo il palazzo di fronte e una piccola porzione di stradina. «E non avendo nulla da osservare», racconta, «ho cercato all’interno di me. Un po’ come tutti durante l’isolamento che sarebbe venuto nei mesi successivi. L’essere umano tende per natura all’esplorazione. Il rischio è di imbattersi nei demoni».

E i demoni, appunto, popolano Atlante delle case maledette, il suo terzo libro, scritto soprattutto in lockdown e da poco uscito per Rizzoli Lizard, in cui il protagonista Dimitri – alterego di Bianconi – compila uno schedario delle case in cui è stato, rapportandosi quindi col tempo, le esperienze e le persone incontrate negli anni, la morte. Fra autobiografia, auto-esplorazione, romanzo e racconto di formazione. Per un’opera ibrida, perché mischia generi diversi e perché oltre alla prosa contiene delle illustrazioni di Paolo Bacilieri. «Volevo lasciare libera la fantasia, ma è stato lui a convincermi che i disegni dovessero essere pertinenti alla realtà», dice Bianconi. «Dove è stato possibile, ho recuperato foto di diversi appartamenti in cui ero stato persino grazie a street view di Google. E anche lo stesso Dimitri mi somiglia, attraverso i ritratti di Paolo».

Ci sono punti di contatto fra libro e disco?
In entrambe c’è una tendenza a togliere la maschera. Vanno di pari passo. Credo dipenda anche dal percorso di analisi che ho iniziato da un paio d’anni. Mi fa stare meglio, mi fa sentire più forte. In Forever c’è un pezzo, L’abisso, che è un manifesto programmatico di questo modo di scrivere e aprirmi. Oltre che un inno all’analisi. Ok, nel libro invece c’è Dimitri che è un mio alterego, ma il motore interiore è lo stesso. Ovvero il cercare minori orpelli possibili, preferire la sincerità. Basti pensare che sulla copertina, sempre di Bacilieri, ci sono io con un buco della serratura in fronte e una chiave infilata dentro. È stato il primo disegno che ha realizzato. E questa è la prima volta in cui mi “apro” davvero. In Forever, invece, le maschere vengono proprio distrutte un po’ alla volta.

Sì?
Considera che avrebbe dovuto chiamarsi Persona, che per gli anglofoni significa anche “maschera”, a livello psicanalitico. Poi è uscito il disco di Marracash e questa figata del titolo è stata subito abbandonata (ride).

Nel dubbio, ora c’è “Forever” in technicolor, un’edizione deluxe. Perché?
Il disco era masterizzato già da gennaio 2020, sarebbe dovuto uscire in primavera, poi è successo quel che è successo. Volevamo un album breve, snello; e i brani di questa deluxe erano pronti già all’epoca, sono stati esclusi per questo, non per demeriti o altro. Che dire: un re-pack nasconde anche esigenze commerciali, per far sì Forever, uscito in mezzo alla pandemia, possa rivitalizzarsi. Banalmente: non l’ho ancora suonato dal vivo, non mi sono “incarnato” come Francesco – questa parola mi fa schifo – cantautore. Odio le appendici, i prequel, i sequel. E mi dispiace per chi si è comprato l’album nella versione originale. Ma il pubblico mi scuserà. E cazzo, concedetemi almeno una piccola riedizione nella mia carriera. Devo pur campare anch’io (ride).

Un’operazione commerciale per un disco tutt’altro che commerciale, insomma.
Sono comunque canzoni, eh. Non è che abbia fatto un disco di chitarre elettriche raschiate con lo spazzolino da denti. Però volevo giocare un altro sport rispetto alla musica leggera, questo sì. Non è un album chiuso nel recinto italiano, anzi guarda all’internazionalità. E poi era scritto e pensato per un mondo pre-pandemia. Avevamo addirittura preso in ipotesi un tour all’estero. Ovviamente molte di queste strategie sono andate a puttane col virus. Ora proviamo a ripartire.

Un pezzo che mi ha colpito, fra gli inediti di “Forever” in technicolor, è Romanzo di formazione. Nel senso: anche il libro è a suo modo un romanzo di formazione. Però mi ha spiazzato come nel brano definisca la crescita umana “normale andamento”. Siamo così prevedibili?
La canzone è un po’ amara, nasce dalla consapevolezza che tutto cambia per non cambiare mai. E da una constatazione: che Matteo Salvini ha la mia stessa età. Mi sono immaginato questa sorta di parallelismo fra il mio romanzo di formazione e il suo, in base ai dati a disposizione. La canzone è un entra-esci da me dalla biografia di questo immaginario leader politico di destra, che arriva a essere di destra dopo che in gioventù non lo era affatto. Proprio come Salvini, ma nel pezzo non mi riferisco in maniera specifica a lui, non mi interessano i nomi. Credo riguardi tutto il nostro Paese, se non tutti in generale. Come si diceva: parti da giovane a votare estrema sinistra per poi morire democristiano. Volevo mettere in canzone questo tragicomico andamento dell’essere umano, che se non autoregolato tende a passare – con l’invecchiamento, con la conquista del potere – alla perdita dell’idealismo. Nel senso: il fascismo si annida dentro ognuno di noi.

Cioè?
Io penso che gli esseri umani siano fascisti, tutti. Il fascismo è dentro di noi per nascita, in un certo senso. Bisogna arginarlo, tenerlo a freno. Io stesso l’ho fatto. Ma tranquillo che se ti lasci andare lo diventi.

Per te è un istinto “bestiale”, quindi.
Come tutti gli altri animali, tendiamo a sopraffare l’altro, a rubare il cibo per fame. Altro che “siamo tutti uguali”. Ma gli animali non sono fascisti: solo gli uomini possono esserlo, perché oltre alla violenza possono perpetrare discorsi fascisti, fare una retorica fascista. Lo diceva anche Umberto Eco. Il punto è che si nasce tutti animali; ed è proprio questo aspetto di noi, che dobbiamo arginare.

Dicevamo di come è nata Il mondo nuovo.
Non avrei immaginato che qualche mese dopo averla scritta, in quella condizione, mi sarei trovato di nuovo chiuso dentro in un posto, costretto a guardarmi dentro perché lo spazio intorno l’ho già ampiamente esplorato. E la cosa in sé è positiva, eh. Però può fare anche paura. Come esseri umani dell’Occidente ci siamo disabituati a questo tipo di esercizio. Piuttosto, siamo abituati all’esterno, alle proiezioni del nostro ego. Siamo a un livello di superficie mai raggiunto, per quanto riguarda il pensiero occidentale. Ecco, per me questa riscoperta della dimensione interiore è il solo aspetto positivo della pandemia. Per quanto il mondo interiore stesso resta composto, oltre che di bei panorami lussureggianti, anche di tenebre. E trovarle può mandare fuori di testa.

Foto: Laura Villa Baroncelli

Atlante delle case maledette, invece, è stato scritto quasi interamente in lockdown. Anche lì guardandoti dentro, immagino. Tra l’altro, la storia comincia col protagonista chiuso in casa da un generico virus.
Non ci crederà nessuno, ma quel soggetto è nato anche prima della pandemia. Ed era così: un uomo, mio alterego protagonista, chiuso in casa perché fuori sta succedendo qualcosa di indefinito, di metafisico, la Terza guerra mondiale come un’invasione di radiazioni, come nel racconto di Buzzati “Qualcosa era successo”. E lui che, in isolamento, costretto ad auto-esplorarsi, fa un catalogo delle dimore in cui ha messo piede. Poi la pandemia è scoppiata, ho trasformato quella generica sciagura in un Virus, indefinito e con la “v” maiuscola, e soprattutto mi sono trovato a scrivere delle case in cui sono stato mentre fuori c’era il Covid.

In pratica hai vissuto la stessa storia che avevi pensato per Dimitri.
Ed è stata un’esperienza allucinante e allucinatoria. Sentivo di scrivere una storia che stava avverandosi. Come ne Ai confini della realtà, in pratica (ride). Poi è brutto da dire, ma è finita che ho scritto di case prima che fosse “di moda”.

Appunto: l’idea della casa come motore narrativo come ti è venuta?
Al supermercato, per caso. Mi è venuta una domanda: in quante case sono stato in vita mia? Da lì ho iniziato a pensarci, a scegliere le più importanti. Nel frattempo, è cambiato anche il concetto di casa, per tutti, a causa della pandemia. Io sono abbastanza casalingo, mi piacere stare pigramente in casa. Ma è un errore: sono luoghi comodi in cui ti abitui trasformandole in droga, in impedimento alla conoscenza. Come nel pezzo di Gaber che cito nel libro (C’è solo la strada, nda): “Perché il giudizio universale non passa per le case, le case dove noi ci nascondiamo. Bisogna ritornare nella strada, nella strada per conoscere chi siamo”. Già prima della pandemia, la casa era una prigione in cui ci nascondevamo, non un luogo fisico per proteggerci dal freddo e dalla pioggia. Ma la casa è bella perché puoi uscirne, spero che il lockdown ci aiuti a rendercene conto. La conoscenza si fa con l’esplorazione.

Però per Dimitri la casa fa sempre da sfondo a un’esperienza nuova, a una crescita, a un incontro con un’altra persona. Altro che isolamento.
Quello è un altro discorso: ci si incontra da sempre nelle case, è normale che gran parte delle nostre esperienze possano avvenire dentro strutture architettoniche. A me è la degenerazione del concetto di casa come luogo comodo e di sicurezza che preoccupa. Come diceva Gaber: ce ne costruiamo una, magari insieme, e non ne usciamo più. Dentro ci mettiamo l’hi-fi, la Playstation. Così ti illudi di essere comodo, al sicuro. In realtà sei solo chiuso alla conoscenza.

La copertina di ‘Forever in technicolor’

Prima mi dicevi delle tenebre interiori. Forever e Atlante delle case maledette, come percorsi di auto-esplorazione, ti hanno aiutato anche a far pace coi tuoi demoni, immagino.
Per paura ho sempre cercato di nasconderli, ma è il metodo peggiore per risolvere problemi. Solo che lo facciamo tutti. Pensa ai film horror o alla letteratura gotica: c’è sempre il mito della casa infestata dagli spettri, chiusi da qualche parte; se non esistesse il terrore nei confronti dei demoni, non esisterebbero quei racconti. Invece dovremmo affrontarli, conviverci, farci colazione.

E poi c’è il tema del tempo: in Atlante delle case maledette fai spesso un raffronto fra l’oggi e il momento in cui sei stato nella casa che di volta in volta racconti; cosa rimane, cosa no, perché. Un po’ come in Fantasma (il disco dei Baustelle del 2013, nda), dove cantavi di spettri, dimore infestate, morte.
Lo diceva Guccini in una delle sue prima canzoni, Il tema, che appunto il “tema” è il tempo. Il suo trascorrere è un grande motore narrativo, perché legato alla morte. E la morte fa paura. Se questa paura fosse sconfitta credo ci sarebbero canzoni diverse. Io sono sempre stato un ipocondriaco, ho sempre avuto paura di morire; ma grazie all’analisi mi sento più forte. Sono curioso di sapere che canzoni scriverebbero delle persone nella cui cultura la morte è meno tabù, come gli orientali. Che pezzi scriverebbe un monaco tibetano? Credo roba simile a quella di Battiato del periodo senza maschere, cioè al tempo di Fisiognomica, il suo album del 1988, quando se ne va da Milano e torna in Sicilia. Ecco, nella migliore delle ipotesi credo nascerebbe una L’oceano di silenzio. Comunque riascoltando Forever ho notato che anche lì la paura di morire viene meno. E la cosa mi piace.

Un pezzo come Zuma Beach va in quella direzione, in effetti.
Sì, quello racconta un’illuminazione, un momento di felicita che ho avuto su quella spiaggia. Una mattina ero lì, a farmi il bagno su quella spiaggia deserta, e osservavo la mia compagna a riva; ho rischiato di morire, un ranger mi è venuto a tirare fuori lì dicendomi che è un mare per esperti, ma per tre secondi sono stato davvero felice, senza paura di morire. L’esistenza di dio probabilmente può manifestarsi anche così: nell’istante in cui credi di aver capito tutto, nel credere in dio senza avere fede. Sono tre secondi in tutto. Poi passa. Sta a noi ritrovarla, mantenerla.

Perché, secondo te, nella cultura occidentale c’è così tanta paura di morire rispetto ad altre culture?
Siamo attaccati a una mala-coltivazione del materialismo. Sta di fatto che, per terrore della morte, abbiamo creato una società di persone che vogliono vivere per sempre, sentirsi invincibili. Che moltiplicano la propria immagine sui social. Levigata, filtrata; in modo che a 50 anni ne mostri 30, e così via. Pensa a Instagram: sempre più persone somigliano a come li ritrarrebbe un cartone della Pixar. E questo sentimento, quest’urgenza di immortalità, arriva fino alle borgate, fino a quello che una volta era chiamato sotto-proletariato. C’è una frase bellissima, ne La città dei vivi di Nicola Lagioia, in cui si dice che della periferia di Roma non resta che il corpo. Insomma: ovunque, non abbiamo nessun valore che non sia la cura del corpo. Che non è altro che disperata paura di morire, ovviamente. E anch’io continuo ad avercene, eh. Ma sento che sto migliorando. E forse Forever e Atlante delle case maledette lo dimostrano.

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