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Francesca Michielin: «Durante il lockdown mi sono sentita inutile»

La crisi, la ripartenza emotiva a Sanremo, lo spoiler di Fedez, il confessore Fabri Fibra. Fra la riedizione di 'Feat' e il podcast 'Maschiacci', la musicista racconta cosa significa essere un'artista in DAD

Foto: Roberto Graziano Moro

All’Ariston è stata, in coppia con Fedez, quella dalla lacrima facile, la voce di una Chiamami per nome favorita alla vigilia e che aveva iniziato il Festival in anticipo, quando cioè il suo compagno d’avventura ne aveva spoilerato per sbaglio qualche secondo su Instagram. Codacons fu allora; Codacons sarebbe stato ancora dopo il secondo posto finale, in rimonta col televoto. A proposito: in rete sta andando benissimo.

Ma pruriti a parte, il Sanremo di Francesca Michielin è stato soprattutto quello dei fiori donati a Fedez (in famiglia, dice, è abituata così), anteprima tv della riedizione di Feat (Stato di natura), il suo disco di duetti uscito in pieno lockdown lo scorso anno, adesso ripubblicato col titolo Feat (Fuori dagli spazi) con altri inediti e collaborazioni anche con Vasco Brondi e Colapesce. Infine, un podcast, questo Maschiacci – Per cosa lottano le donne oggi? in cui intervista personaggi femminili (nella prima puntata, Matilda De Angelis) sugli stereotipi di genere.

E quindi, più in generale, un ritorno alla carica dopo un anno difficile, che le ha scombinato i piani discografici e qualche certezza del mestiere. Per il resto, rispetto al marzo scorso «adesso è solo frustrazione», mi dice. «Non che ce l’abbia con nessuno nello specifico, ma della serie: dai rega, vaccinatevi, che qui dobbiamo tornare a suonare».

Però facciamo un passo indietro proprio al marzo scorso: esce la prima versione di Feat; com’è stato pubblicare un disco in pieno lockdown?
Ogni album è figlio del proprio tempo. Odio i discorsi tipo «ma perché non ci rifai un disco come 2640?», «perché a Sanremo non hai portato Battito di ciglia?». Con Feat avevamo iniziato un racconto a capitoli, con anteprime e live; sul più bello è arrivata la pandemia, ma non potevamo non farlo uscire. A maggior ragione visto che si tratta di un lavoro basato sull’incontro. Mi è mancata la possibilità di raccontarlo, però. Per esempio negli incontri col pubblico. Tra l’altro era il mio disco sperimentale, mi sarebbe piaciuto poterne parlare. Invece è finita che sono stati gli altri, a parlarne.

Ecco: per una musicista come te, cos’è stato il lockdown?
Un’artista che ha fuori un singolo, spinto sul digitale, forse ha avuto meno problemi. Elodie e Ghali, per dire, hanno lavorato benissimo. Ma per chi come me aveva un disco basato sul live, sulla diversità stessa dei live (ne avevamo preparato quattro differenti), non è stato semplice.

Come ti sentivi?
Inizialmente, confusa: lavori mesi su un progetto, esce e boh… che fai? Anche le nuove modalità di promozione – le dirette Instagram – le ho sperimentate per la prima volta col Covid. Certo, da un lato mi sono presa i miei tempi, mettendomi a studiare o a leggere. Ma le conseguenze psicologiche sono tante, per noi musicisti. Non è un caso che a Heroes ed eventi simili eravamo emozionatissimi. Non dico ci fossimo dimenticati il nostro lavoro, però certo eravamo disarmati. Il pubblico conta: l’altro giorno ho registrato un live a porte chiuse per Radio Italia e ho realizzato il peso dell’assenza degli spettatori, perché ti dimentichi le parole, non guardi nessuno negli occhi… In generale, conoscere chi ti ascolta è fondamentale, vale anche per i firmacopie. In molti mi hanno raccontato di pezzi miei che per loro hanno simboleggiato qualcosa di preciso. Nessun grado di separazione, per dire, divenne quasi un manifesto LGBT, connettendomi a quella comunità che prima conoscevo poco. È quasi un momento di autoanalisi.

L’anno scorso Aimone Romizi, dei Fast Animals and Slow Kids, appena usciti dal lockdown si chiedeva se gli artisti fossero serviti ancora.
Me lo sono chiesta anch’io, nel momento più duro del lockdown. E arrivare a pormi quella domanda è stato aberrante. Mi sono sentita inutile, non necessaria. Perché il nostro mondo non ha avuto risposte, né aiuti. E continua a non averne, specie per le maestranze. In tanti, tipo la mia vicina, all’inizio della quarantena mi avevano detto che finalmente potevo prendermi del tempo per me…

E invece?
E invece mi chiedevo soltanto: ma io a cosa servo? I FASK li conosco da ascoltatrice, sono animali da palco. E li capisco. Anch’io vivo per fare concerti, arrangiare i pezzi dal vivo, incontrare artisti per collaborarci. Mi è mancato tutto, anche se non ho pensato di staccare con la musica.

Questo Paese mortifica gli artisti?
È come se la musica non contasse più nulla, non si studia neanche a scuola. Non so dirti da quando è così, ma è da un po’. Mi ha sempre fatto pensare che, a scuola, chi si assentava per una gara di atletica veniva giustificato; io per un concerto, mai. Sono piccole cose, meccanismi famigliari, ma scatenano pensieri grandi. Tipo: per una persona “normale”, tenere aperto un ristorante non è come tenere aperto un cinema; per me, è la stessa cosa. Lo dicevo a Colapesce: la sera, dopo aver finito di lavorare, di solito andavo allo spettacolo delle 23; staccavo il cellulare, mi vedevo un film. Mi manca tutto ciò. Vorrei spiegarlo a un politico: per me andare al cinema è molto più importante che prendermi uno spritz con una mia amica.

Foto: Roberto Graziano Moro

Partecipare a Sanremo ha avuto un valore simbolico?
Non è stato un caso che ci siano stati artisti diversi fra loro. Nel senso: ok, Renga e Orietta Berti, ma anche i Coma_Cose, Fulminacci. Non è stato il Festival della canzone italiana, ma della musica italiana nella sua interezza. Un momento in cui tutti hanno detto: ok, noi ci siamo, per suonare per e con voi spettatori. È un po’ come quando tuo zio, che non va mai in chiesa, ci viene lo stesso per la tua comunione (ride). Era una missione. Per me è stata una sorta di ripartenza emotiva, anche se l’ho vissuta lo stesso con ansia. La pandemia ha influito ed è stato stressante essere lì, dentro quei meccanismi, col rischio del Covid. Ma è stato anche bello, perché sapevamo che presto saremmo tornati in DAD.

Una curiosità: mi racconti come ti sei sentita quando Fedez ha pubblicato lo “spoiler” della vostra canzone?
Era un montaggio video di circa 50 secondi e 6 di questi avevano l’audio. Lui era convinto di averlo tolto, e li ha pubblicati mentre era in ascensore verso il garage di casa, dove il telefono non prende. Quel video è rimasto online un minuto solo. E, fosse successo a un altro artista, non so in quanti lo avrebbero divulgato – anche solo per cattiveria. All’idea che potevamo essere squalificati ero dispiaciuta per il mio team. Stavamo lavorando per Sanremo, su tutti i fronti, da mesi. Ma continuo a difendere la partecipazione di Federico. Non è strettamente un musicista in senso tecnico, come magari posso esserlo io. Ma col suo approccio fanciullesco, puro, mi ha fatto innamorare di nuovo del mestiere. Ti ripeto: la vivevo con ansia, il suo atteggiamento mi ha aiutato. Non sono Mina, non ho una vocalità impeccabile, algida; sono emotiva e questo mi gioca brutti scherzi. Ecco, lui mi ha insegnato che l’emozione va trasformata in energia. Quando ho cantato Chiamami per nome all’Ariston, non volevo farla come su disco: volevo “raccontare” il pezzo, è diverso.

A cui forse la gente si affeziona anche di più.
La gente non sta lì a valutare quanto sei intonata, ma a lasciarsi trasportare. A maggior ragione in un’edizione del genere, in cui c’era bisogno di evadere.

Invece, per quanto riguarda i fiori che hai dato a Fedez, hai detto che per te non era niente di insolito, in famiglia sei abituata così. Ci sta. Non penso neanche sia l’unica. Ma all’Ariston nessuno l’aveva fatto prima.
Al ritorno da ogni esperienza, ma anche quando ho dubbi esistenziali o sul mio lavoro, chiamo un amico: Fabri Fibra. È il mio confessore, ci vogliamo bene. Anche dopo Sanremo gli ho telefonato per dirgli la mia. E cioè che, su quel palco, eravamo reagenti inconsapevoli di una reazione chimica che ha rivoluzionato il Festival. Sanremo è Sanremo, eh. Un contenitore con una sua storicità. Ma grazie alla sensibilità di Amadeus, che è aperto e lavora in nome della musica, abbiamo La Rappresentante di Lista, di cui sono superfan ma che mia nonna non sa neanche chi fosse. E con la cantante, Veronica, che si è presentata in scena con un’ascella pelosa, dipinta di fucsia. Per non parlare dei quadri di Achille Lauro, o di Madame che porta un testo dedicato a una ragazza. Parentesi: siamo entrambe della provincia di Vicenza, ti dico che meriterebbe un Oscar anche solo per aver pensato un brano del genere, perché in certi ambienti di paese, qui, c’è una forte repressione sessuale, soprattutto per le donne. In ogni caso, cinque anni fa al Festival non avremmo visto niente di tutto ciò. E al di là dei monologhi o del resto, è stata un’edizione storica.

Questa seconda parte di Feat l’hai pensata per il Festival?
In realtà c’erano altri capitoli di Feat in programma dopo marzo. Ma a giugno scorso ho preferito fermarmi, perché dopo il lockdown ero cambiata. Mi sono messa a scrivere di nuovo, i pezzi che erano pronti da prima non mi rappresentavano più. Quindi, ho invitato Vasco Brondi da me, per farci qualche giorno di passeggiate nella natura. Da lì è nata Cattive stelle, che non a caso parla del “tramonto di un’era”. Poi Colapesce mi ha presentato la bozza di Pole position, quindi mi sono messa al lavoro con Federico a cui mi ero riavvicinata proprio durante il lockdown, coi concerti sui balconi.

Insomma, è stato un modo per riappacificarti con quanto successo lockdown.
Le nuove canzoni dovevano raccontare un momento diverso, questo della pandemia. Tra l’altro Vasco stava inguaiato con le registrazioni del disco solista, ma è venuto comunque. Mi ha detto: «Cattive stelle facciamola uscire a gennaio, diamo un messaggio di speranza».

Quindi un podcast, Maschiacci, con sottotitolo Per cosa lottano le donne oggi?. Tu per cosa lotti?
Come artista, insieme alle mie colleghe per dare dignità alla nostra musica. Pensa a Sanremo: un continuo di «ah, la scollatura di quella», «eh, il momento sexy di quell’altra». Se fai un video in costume, sei un puttanone. Se lo fa un uomo, è una rockstar.

È difficile essere donne nella musica italiana?
Sì, anche se qualcosa, a livello di sensibilità comune, sta cambiando.

Il problema è generale.
Nel podcast gioco con le frasi allo specchio: perché non dici mai «che donna con le ovaie», ma «che donna con le palle»? Perché «Giulio l’ha dato a qualcuno per arrivare lì» no, ma «Chiara l’ha data a qualcuno per arrivare lì» sì? Il patriarcato è una malattia. Ne siamo portatori sani, ce l’abbiamo nella genetica. Spesso sento mia madre dire parole a cui neanche crede, dovute solo al contesto in cui è cresciuta. È un retaggio di migliaia di anni. Ma bisogna pur sradicarlo.

Come?
Ho una visibilità, la spendo dando voce ad attivisti che ne sanno. E poi con l’educazione. Che non è l’educazione sessuale che si fa a scuola – perché ti vengono i peli, come nascono i bambini, ecc – ma educazione al piacere e al rispetto. Educazione, per dire, al problema del revenge porn. La Postale ci aveva fatto una lezione in merito: «Ragazze, non fate mai video perché potrebbero finire in rete». Ti rendi conto? La colpa sarebbe delle ragazze. Mi sembra di sentire mia zia che mi diceva di non truccarmi troppo, perché avrei rischiato. Solo che lei era del 1908. Però è un cortocircuito: da una parte, il sesso è tabù; dall’altra, Lady Gaga fa una canzone e subito giù ad articoli per capire se, nel video, ha le zinne di fuori.

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