Fontaines D.C.: «Raccontiamo come si vive nelle fogne» | Rolling Stone Italia
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Fontaines D.C.: «Raccontiamo come si vive nelle fogne»

No, niente realismo, né politica. Nel nuovo 'A Hero's Death' gli irlandesi creano un luogo immaginario, mentre il cantante Grian Chatten cerca il suo "bambino interiore" e cita Robert L. Stevenson e il poeta Patrick Kavanagh

Fontaines D.C.: «Raccontiamo come si vive nelle fogne»

Fontaines D.C.

Foto: Richard Dumas

«Non appartengo a nessuno, non voglio appartenere a nessuno». Si apre con questa dichiarazione d’intenti, fulcro del singolo I Don’t Belong, il secondo disco degli irlandesi Fontaines D.C. Dopo l’ottimo riscontro ottenuto con Dogrel, debutto del 2019 candidato al Mercury Prize, la band capitanata da Grian Chatten è pronta per tornare, il 31 luglio, con A Hero’s Death, titolo carico di suggestioni, ispirato da un verso della pièce teatrale The Hostage di Brendan Behan, che stando alle recenti dichiarazioni del quintetto rimanda all’urgenza di proteggere la propria libertà artistica.

«Non voglio una band sempre uguale a sé stessa», dice Chatten dalla sua casa a Dublino, città che aveva fatto da sfondo alle tracce del precedente Dogrel. Qui cambia tutto: dopo un periodo di concerti a ritmo serrato in cui – ammette il cantante e songwriter – l’adrenalina della folla sotto al palco si è mescolata a una buona dose di stress, i Fontaines D.C. di A Hero’s Death, opera che vede nuovamente alla produzione Dan Carey (Black Midi, Bat for Lashes, Kate Tempest), ci dicono che hanno ancora voglia di chitarre, sì, ma che non vogliono restare impantanati in un determinato tipo di suono e di poetica. Così ecco che la Dublino che aveva informato i testi di Dogrel scompare per lasciare spazio a un non-luogo in cui guardarsi dentro e imbastire un discorso più introspettivo e a tratti anche introverso, indubbiamente più personale. Ed ecco che tra le influenze post punk dell’esordio si fanno strada echi di Beach Boys, Sonic Youth, Pixies, The Brian Jonestown Massacre, il ritmo tende a rallentare, il sound si fa più atmosferico, gli arrangiamenti appaiono più maturi, si avverte un lavoro sulle armonie, la ripetizione di parole si traduce in mantra ipnotici che non ti si staccano più dalla testa.

Avete cominciato a scrivere A Hero’s Death in tour, così avete raccontato. A pensarci oggi, con una pandemia in corso, la vita on the road appare quasi come un miraggio.
È strano, è come se d’un tratto tutto mi sembrasse un sogno, come se non avessimo mai avuto dei fan. È difficile da spiegare, ma è questo che provo: ti parlo mentre sono seduto sul divano di casa e non mi pare vero che i Fontaines D.C. abbiano suonato più volte davanti a 5 mila persone.

Eppure è successo, con Dogrel l’hype attorno alla band è cresciuto rapidamente.
Il riconoscimento ottenuto con Dogrel ci ha mandati un po’ in confusione. Vivere di musica è ciò che abbiamo sempre voluto, così come ottenere un riscontro, ma il tour ha messo alla prova l’amicizia che ci lega, ci sono stati momenti in cui a furia di stare insieme non riuscivamo più a parlare. Sai, anche se giri il mondo, passare da un concerto all’altro può metterti in difficoltà, devi continuamente inventarti qualcosa per trovare l’ispirazione giusta per i concerti. E non è che sei in viaggio tipo turista, sei in tour e delle città dove hai le date vedi la venue che ti ospita e poco altro: arrivi, vai al locale, suoni e riparti. E nel mentre magari hai parlato con decine di persone che probabilmente non incontrerai mai più nella vita. Può essere faticoso, abbiamo tenuto ritmi implacabili, a volte per sentirmi connesso con quello che cantavo mi sono ficcato dentro stati d’animo che mi hanno scombussolato, penso di dimostrare dieci anni in più rispetto ai primi concerti. Però adesso non vedo l’ora di tornare su un palco…

Comprensibile, per la musica che proponete la dimensione live è essenziale.
Già, in effetti le tracce di A Hero’s Death sono state scritte con in mente le immagini della gente che balla, che si muove. Il secondo singolo Televised Mind, su come tanti tradiscono se stessi e simulano convinzioni che gli arrivano dal contesto che li circonda pur di ottenere approvazione, avremmo voluto presentarlo nel pub gestito dal nostro manager a Dublino (The Workman’s, nda), ma la pandemia ha fatto saltare tutto. Ora i prossimi concerti li abbiamo fissati per il 2021, ma non è che mi senta così ottimista, non sono sicuro che allora sarà tutto finito, nessuno lo sa.

I Fontaines D.C. saranno ai Magazzini Generali di Milano il 13 marzo 2021. Foto: Richard Dumas

Nel nuovo album Dublino non è più al centro della narrazione.
È stata una scelta consapevole quella di non scrivere testi su Dublino e sull’Irlanda come avevamo fatto per il primo album. Una scelta legata anche alla realtà delle nostre vite: siamo stati così tanto lontani dalla nostra città e dal nostro Paese che sentivo di non avere più il diritto di parlarne; credo sia importante scrivere a partire dalle proprie esperienze, da ciò che si conosce o si tocca con mano. All’inizio questo mi ha un po’ spaventato, perché non conosco bene altri luoghi, così ciò che mi sono riproposto è di raccontare la verità che risiede in ognuno di noi mentre percorriamo le strade di questa o quell’altra città.

Che cosa hai scoperto di te stesso durante queste peregrinazioni?
Innanzitutto che il mio “bambino interiore” esiste ancora. Mi sono reso conto di quanto sia forte il mio interesse per tutto ciò che ha a che vedere con l’immaginazione e con le storie di fiction che permettono di evadere dalla realtà. Del resto, già da bambino, come molti, ero un appassionato di libri fantasy; penso a Il signore degli anelli, per esempio, leggerlo mi calmava.

Si capisce come mai per il video della title track avete voluto Aidan Gillen, attore già visto in Il trono di spade, The Wire e Peaky Blinders. So che è stato generoso e che in cambio vi ha chiesto solo una pinta di birra. Forse non tutti sanno che la vostra primissima pubblicazione è stata una raccolta di poesie, Vroom, cui ne è seguita un’altra, Winding.
Io e gli altri della band siamo diventati amici proprio scambiandoci poesie. In Irlanda la poesia è tradizionalmente un linguaggio per le classi più benestanti e istruite. Volevamo riprendercela, riportarla alla gente, ai non privilegiati. Ciò detto, se vado ancora più indietro con la memoria ritrovo mio padre: è stato lui a farmi avvicinare alla poesia, avrò avuto 10 anni.

Racconta.
Come tanti bambini di quell’età sognavo di diventare un calciatore, per cui mi divertivo con gli album di figurine. Un giorno mio papà mi promise che mi avrebbe comprato dei pacchetti di figurine se avessi imparato a memoria qualche poesia. La prima fu From a Railway Carriage di Robert Louis Stevenson (“Dalla carrozza di un treno” in italiano, ndr): “Faster than fairies, faster than witches, bridges and houses, hedges and ditches…”. Racconta di un viaggio in treno con questo ritmo che fa pensare proprio a un treno in movimento, cosa che mi ha affascinato sin dal primo istante. Quando la recitai a memoria, fu la mia prima interpretazione ad alta voce. Da quel momento so che la poesia non è un linguaggio per le élite: è per tutti.

Tornando a A Hero’s Death, anche il sound si è evoluto.
Abbiamo introdotto nuovi effetti. Se Dogrel rappresentava il suono delle strade, A Hero’s Death suona come quello che si trova sotto l’asfalto. Che cosa si nasconde e vive nelle fogne? È una sorta di sovversione, è un po’ come andare sott’acqua. Volevamo creare una fantasia, un luogo immaginario dove evadere dalla realtà.

Assieme a band quali Idles, Shame e Protomartyr o parlando della vostra Irlanda, Girl Band e Murder Capital siete tra i principali esponenti di una rinascita del post punk che affonda chiaramente le radici anche nella rabbia sociale che provano in molti, di questi tempi.
Credo sia una questioni di cicli, ma è vero che se si parla dei contenuti delle canzoni mai come negli ultimi anni mi pare si sia diffuso un sentimento di sfiducia nei confronti dei governi e del mondo dell’informazione. Molte persone si sentono perse, c’è tanta disperazione in giro. Dopodiché come Fontaines D.C. non ci va di rinchiuderci in un’etichetta.

Foto: Pooneh Ghana

Il cambio di rotta di A Hero’s Death ne è la prova. Tra l’altro, la prima volta che ho ascoltato I Don’t Belong ci ho sentito subito qualcosa di Damon Albarn…
Lo prendo come un complimento.

Lo è. Mentre per ovvi motivi il titolo dell’album mi ha fatto pensare a tutte le volte in cui nei mesi scorsi abbiamo sentito definire “eroi” i medici e gli infermieri in prima linea contro il Covid-19: non so in Irlanda, ma in Italia c’è stato un momento in cui quel termine ha rimbombato nelle nostre teste tutti i giorni. Per te che cos’è un eroe?
È qualcuno che vive la sua vita con intenzione, coltivando la propria personalità senza scendere a compromessi. Sì, un eroe è semplicemente qualcuno che rimane sé stesso fino alla fine. Hai presente Il campo, film del ’90 di Jim Sheridan tratto dal dramma teatrale di John B. Keane? Il protagonista è un uomo che ha lavorato un pezzo di terra a lungo, peccato che la proprietaria del terreno decida di metterlo all’asta, e lui che fa? Combatte per conservarlo, perché quel pezzo di terra è tutta la sua vita. Alla fine lo perde, capisce che non c’è spazio per i suoi principi nel nuovo mondo, ma si rifiuta di rinunciare, a quei principi. Un po’ quel che accade in Cyrano de Bergerac.

Tu ce l’hai, un eroe personale?
Direi Shane MacGowan dei Pogues; purtroppo ha avuto problemi per abuso di alcol e sostanze stupefacenti, ma lo stimo per il modo in cui è sempre stato assolutamente vero, mi ha ispirato moltissimo.

E un poeta che consiglieresti?
Patrick Kavanagh. La sua On Raglan Road, poesia che ha anche trasformato in una ballata assieme a Luke Kelly dei Dubliners; se cerchi online la trovi. Ha dei versi stupendi, sono probabilmente le parole più belle che siano mai state scritte.

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