Più o meno un anno fa, alla première di Road Diary al Toronto International Film Festival, Steven Van Zandt si è improvvisato moderatore del dibattito. Il chitarrista di Bruce Springsteen ha chiesto a Thom Zimny, regista del documentario, come si fosse sentito a lavorare con Springsteen in «14 film in 24 anni». Non è chiaro come Little Steven abbia fatto i conti, o cosa intendesse esattamente con film, ma di certo si sbagliava per difetto: i progetti springsteeniani del filmmaker – tra film concerto, documentari e videoclip – sono più del doppio.
Cineasta del New Jersey e fan di lunga data del Boss, Zimny è stato folgorato da Springsteen a 18 anni, durante uno dei concerti inaugurali alla Brendan Byrne Arena – conosciuta anche con altre denominazioni e chiusa definitivamente nel 2015 – all’inizio di luglio 1981, nella parte conclusiva del tour di The River. Dal montaggio di Live in New York City del 2001, diretto da Chris Hilson (per cui ha vinto uno dei suoi due Emmy, l’altro per la regia di Springsteen on Broadway nel 2019), è diventato de facto l’uomo che gestisce quasi tutta la produzione video di Springsteen. In poche parole: Thom Zimny è il regista del Boss.
Il suo ultimo incarico springsteeniano è la regia del live al Count Basie Center for the Arts incluso nel box set Nebraska ’82: Expanded Edition in uscita il 24 ottobre che vede Springsteen eseguire per la prima volta dal vivo, in sequenza, tutte le canzoni dell’album. Oltre alla collaborazione con il rocker di Freehold, Zimny ha esplorato altre leggende musicali con documentari distribuiti su diverse piattaforme, tra cui Elvis Presley: The Searcher, la miniserie Willie Nelson & Family (co-diretta insieme a Oren Moverman su Paramount+), The Gift: The Journey of Johnny Cash e The Beach Boys (realizzato con Frank Marshall per Disney+). Per Netflix ha diretto anche Sly, dedicato a Sylvester Stallone. Nel 2023 è uscito il cortometraggio So Many Dreams dedicato all’arte pittorica di Pierce Brosnan. Zimny e la moglie dell’attore Keely Shaye Smith stanno lavorando per trasformarlo in un documentario.
Lo abbiamo intervistato in occasione dell’undicesima edizione del MIA | Mercato Internazionale Audiovisivo, hub strategico dell’industria del settore, che si è tenuta a Roma dal 6 al 10 ottobre.
Com’è cominciata la tua collaborazione con Springsteen?
Ho iniziato a lavorare con lui nel 2001, per Live in New York City. È lì che è nata la collaborazione con Bruce e con Jon Landau, il manager di Springsteen. Abbiamo montato insieme le riprese di due serate al Madison Square Garden. Erano i primi tempi dell’alta definizione e tutti noi volevamo che il film avesse una certa “grana”, una texture precisa, evitando la nitidezza troppo spinta delle prime telecamere HD, perché Bruce sentiva che quella chiarezza toglieva profondità all’immagine e distraeva dalla musica. Poi sono arrivati altri lavori e, infine, il primo documentario, Wings for Wheels: The Making of Born to Run (per il quale ha vinto un Grammy nel 2007, nda).
Era nel cofanetto del trentennale di Born to Run. L’ho rivisto di recente per il cinquantenario del disco e rimane secondo me uno dei documentari più riusciti sulla musica di Springsteen. Colpisce la misura della tua regia: un linguaggio sobrio che privilegia l’ascolto alla messa in scena. Da dove nasce questa scelta stilistica?
Il mio lavoro con Bruce è stato molto importante per me. Ho sempre amato la sua musica e, crescendo nel New Jersey, è stata parte della mia vita fin da quando ero ragazzo. Ma amavo anche le storie che avevo letto sulla creazione dei suoi album, la storia dell’artista Bruce, della E Street Band e soprattutto della sua collaborazione con Jon Landau. Per me, come regista, è stato un sogno che si avverava: raccontare le storie dei suoi album passati e presenti, il modo in cui li ha creati, e far sì che fosse la sua stessa voce a guidare quel racconto. Ascoltarlo davvero è sempre ciò che guida le mie scelte di regia, di montaggio, di racconto.
Thom Zimny. Foto press
Da quanto tempo sei un fan del Boss?
In realtà, il primo concerto che ho visto è stato quello del River Tour. Sì, sono un po’ anziano.
Però che invidia…
Pensa: avevo 18 anni e fu un’esperienza straordinaria. Era al Meadowlands, e quell’album per me significava tantissimo. Lo ascoltavo in continuazione, anche live, nelle versioni bootleg che circolavano. E improvvisamente mi trovai lì, alla Brendan Byrne Arena, a vederlo dal vivo. Era la cosa più grande che potessi immaginare. La band era in forma smagliante in quel tour. Amavo i testi, erano il punto centrale del mio legame con la musica. Mi sembravano come piccoli film, specialmente canzoni come Stolen Car e The River. In qualche modo mi hanno influenzato nella decisione di diventare regista, perché ero profondamente legato alla scrittura di quelle canzoni.
Eri già stato ad altri concerti prima di quello?
Era il secondo concerto della mia vita, ma è stato un evento fondamentale, direi trasformativo. Era come se si instaurasse una conversazione fra me e Bruce. The River era il primo album che mi parlava davvero, che raccontava la mia realtà. Sono cresciuto in un’area molto simile a quella che descriveva nei testi. Mio padre era un operaio edile, e in quelle canzoni ritrovavo lui e le persone che conoscevo. Fu un momento davvero importante. Ricordo ancora con estrema vividezza l’emozione di vederlo lì, davanti a me, sul palco.
Tornando a oggi: in Nebraska ’82: Expanded Edition è incluso il concerto che hai girato lo scorso 22 aprile al Count Basie Center for the Arts, senza pubblico e nel massimo riserbo. Ci puoi raccontare qualcosa sulla sua realizzazione? Qualche fan vi ha scoperto?
No, siamo riusciti a restare in incognito (sorride). Volevo preservare l’idea di Bruce che esegue queste canzoni nel modo in cui le aveva concepite originariamente: in una stanza da solo. Il teatro era vuoto. Ha usato la chitarra originale con cui aveva registrato l’album, una Gibson J-200, e anche la sua Telecaster. A suonare con lui c’erano Charlie Giordano e Larry Campbell. È stata una giornata incredibile, vissuta lentamente per tentare di catturare in silenzio i personaggi e la bellezza dei testi.
C’è un aspetto tecnico a cui hai prestato particolare attenzione?
Ho dedicato moltissimo tempo all’illuminazione, curandone ogni dettaglio, ma anche a rileggere con attenzione i testi e a fare lo storyboard di ogni brano, per decidere dove posizionare la macchina da presa in corrispondenza di determinate frasi o immagini. Ogni canzone l’ho trattata come un piccolo film, con un linguaggio proprio, cercando per ciascuna un approccio stilistico diverso, per restituire al meglio la sua atmosfera e il tono specifico. Un altro aspetto tecnico importante del live è il mix curato da Rob Lebret.
La scelta del bianco e nero richiama volutamente l’estetica della copertina originale di Nebraska firmata da David Michael Kennedy?
In realtà l’idea del bianco e nero è partita da Bruce. Fin dall’inizio abbiamo parlato molto del tono e dell’atmosfera di Nebraska: entrambi amiamo la copertina e la sua essenziale oscurità. Ci è sembrato del tutto naturale girare il film in bianco e nero. Quelle canzoni, in fondo, sono in bianco e nero.
Springsteen ai tempi di ‘Nebraska’. Foto: David Michael Kennedy
Da un quarto di secolo sei il principale artefice della narrazione visiva del Boss. Qual è il segreto di un rapporto così duraturo?
È un grande onore, prima di tutto. In questi 25 anni, lavorando con Jon, Bruce e la band, ho sempre cercato di affrontare ogni progetto come se fosse il primo. Sono grato per tutto il percorso fatto insieme, ma ogni volta che Bruce mi chiama ho la sensazione di ripartire da zero. Non voglio perdere quella piccola ansia, quella paura che accompagna ogni nuovo inizio: è ciò che ti spinge a non ripeterti, a guardare la musica in modo nuovo, a restare presente. Nel tempo, con Bruce e con Jon, abbiamo sviluppato linguaggi cinematografici sempre diversi, che fosse Western Stars girato in un fienile o Road Diary. Ogni volta c’è una nuova sfida, un nuovo modo di raccontare la sua musica.
Come si conquista la fiducia di un perfezionista come Springsteen?
Non inseguo mai idee sensazionalistiche. Cerco di esplorare il percorso dell’artista e di offrire anche allo spettatore occasionale una storia interessante, che lo faccia entrare nel suo mondo, che si tratti di Born to Run, Darkness on the Edge of Town, The River o Letter to You. Voglio realizzare film in cui chi guarda possa riconoscersi e immedesimarsi. Per rispondere alla tua domanda: credo che il fatto che Bruce e Jon sappiano cosa mi interessa, ciò che considero importante e di valore, generi quello spazio di fiducia.
Ci sono mai stati momenti di attrito o divergenze di vedute?
Non c’è mai stato un vero conflitto tra noi, semmai una conversazione creativa. Ci chiediamo continuamente: «E se facessimo questo brano più corto?» oppure «E se non lo includessimo nel film?». Live in New York City è stato l’inizio di questo tipo di dialogo. Avevamo due serate da filmare, il 29 giugno e il 1° luglio 2000, gli ultimi dei dieci concerti al Madison Square Garden e la domanda delle cento pistole era: come si immortala uno show del genere?
Springsteen pone mai dei limiti rispetto a ciò che si deve raccontare di lui?
Non mi ha mai dato alcun tipo di restrizione. Quando ho lavorato sui documentari di Darkness on the Edge of Town o Born to Run ci siamo occupati senza problemi dei momenti della carriera in cui non riusciva a registrare o a esibirsi (per motivi legali, nda). Non è uno che ti dice: «Di questo non puoi parlare, quest’altro meglio di no».
Fra tutti i videoclip che hai girato, a quali sei più affezionato?
Adoro Dream Baby Dream, dove si vedono gli sguardi dei fan ai concerti, così connessi tra loro, nonostante vengano da diversi Paesi del mondo. Mi sono immerso nel girato di Chris Hilson (altro filmmaker fidato in casa Springsteen, nda) e ho composto il video partendo da quello. La cover dei Suicide rifatta da Bruce è uno splendore: è un video che parla di condivisione profonda. Un altro video che mi piace molto è A Night with the Jersey Devil, che richiama La morte corre sul fiume di Charles Laughton. Anche Hunter of Invisible Game, che ho co-diretto con Bruce, è un piccolo corto un po’ astratto, ma lo sento tuttora molto vicino a me. Infine, voglio citare The Wrestler.
Per le varie riedizioni dei dischi di Springsteen – penso a The Promise o The Ties That Bind – ti sei occupato di costruire, a partire dagli archivi, documentari e concerti del passato. Quale dei tour del Boss avresti voluto raccontare oggi nello stile di Road Diary?
Mi sarebbe piaciuto da morire riprendere il Devils & Dust Tour, perché penso sia stato incredibile. Sarebbe stato affascinante seguirlo nel backstage e sul palco con un approccio documentaristico, per capire come reinterpretava la propria carriera in quel momento. L’altra tournée da sogno è senza dubbio quella di Born to Run: sarebbe stato straordinario seguirli mentre portavano quel disco in giro per il mondo, quando cominciavano a esibirsi in sale più grandi, a inseguire sogni più ambiziosi – una giovane band che si proiettava verso un pubblico sempre più vasto.
L’ultimo tour è stato segnato dai discorsi di Springsteen contro Trump e la sua amministrazione. Come si integrano questi aspetti politici nel tuo racconto visivo?
Non ho filmato nulla in quel periodo, ma nel video Land of Hope and Dreams filmato a Manchester si ritrova pienamente quel Bruce. Per me non è stato sorprendente: è lo stesso artista che ho conosciuto ai tempi del River Tour. Se si ascoltano i testi di The Promised Land, Badlands o The River, quella consapevolezza politica è sempre stata parte del suo linguaggio.
Road Diary è stato un progetto unico, anche per il momento storico in cui è nato: la reunion dopo la pandemia, la riflessione sul tempo che passa. Il tour, però, ha suscitato anche qualche polemica, soprattutto per il dynamic pricing, molto discusso negli Stati Uniti. Queste tensioni hanno influenzato in qualche modo il tuo approccio visivo o l’atmosfera del tour?
Non ho mai pensato che valesse la pena raccontare quella vicenda. Bruce, con Letter to You, stava già offrendo qualcosa di molto più profondo: una riflessione sul lutto, sul tempo, sul senso della vita dopo la pandemia. In quel momento c’erano temi più grandi da esplorare del prezzo dei biglietti, una questione già ampiamente trattata dai media. Per me non aveva alcun legame con l’arte. Mi interessavano i temi universali di canzoni come Letter to You o Last Man Standing: il passare del tempo, la memoria, la consapevolezza di sé. Sono riflessioni che restano anche dieci anni dopo. Il mio compito era riflettere ciò che Bruce esprimeva nello show.
A proposito di concerti, l’ultima data dell’ultimo tour si è tenuta a San Siro. Abbiamo notato che c’erano più telecamere del solito. C’è per caso qualcosa che bolle in pentola?
Sarebbe bello, ma non c’è l’idea di farne un film. Posso solo dirti che quelle telecamere extra sono state utilizzate per materiali d’archivio. Forse fra una ventina d’anni…
Il Comune di Milano ha di recente approvato la costruzione di un nuovo stadio accanto al vecchio, che sarà demolito…
Speriamo riescano a salvare qualche mattone del vecchio stadio. Tienine uno da parte per me.
Se potessi scegliere un altro artista – anche del passato, e non necessariamente un musicista – chi ti sarebbe piaciuto seguire e raccontare come hai fatto con Springsteen?
Mi sarebbe piaciuto poter filmare Jimi Hendrix. Quello sarebbe stato davvero un sogno. Penso che sarebbe stato affascinante osservarlo e filmarlo in ogni fase della sua evoluzione artistica: ogni anno della sua carriera è stato molto interessante. Negli anni mi sono spesso ritrovato a rivedere i suoi filmati, desiderando che esistessero più momenti in studio che mostrassero il suo processo creativo. È uno di quegli artisti che avrei tanto voluto documentare.
E magari vederlo incendiare qualche chitarra, no?
Eh, non sarebbe stato male…
