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Federico Poggipollini: «Davanti al muro di gente di San Siro la testa fa brutti scherzi»

Vita da chitarrista: il buco nero in cui sei risucchiato quando stecchi sul palco, le cover di 'Canzoni rubate', la disciplina dei Litfiba, la rivalità Liga-Vasco, il sesso in una chiesa sconsacrata, i Clash

Foto: Daniela Tudisca

«I buoni artisti copiano, i grandi rubano», pare abbia detto Pablo Picasso, ma anche questa frase sembra essere un plagio. È comunque ideale per definire il nuovo disco di Federico Poggipollini, tutto composto di cover, veri e propri furti attraverso i quali è riuscito a ridare nuova vita a brani importanti del passato che erano stati colpevolmente dimenticati. Cinque singoli dell’album sono già usciti, come recentemente Varietà, scritto da Mario Lavezzi e Mogol e contenuto nell’omonimo disco di Gianni Morandi del 1989, o come i precedenti Il chiodo, Monna Lisa (con Cimini), Trappole (con Eugenio Finardi) e Città in fiamme, tutte anticipazioni dell’emblematico Canzoni rubate previsto per il 26 marzo.

L’occasione è quindi ideale per fare quattro chiacchiere con Capitan Fede, un guitar hero, un cantautore e uno degli artisti più genuinamente appassionati al suo mestiere che ci siano in circolazione. È così che, fra aneddoti su come è nato quest’ultimo lavoro, lo abbiamo sollecitato su molto altro. Persino sul presunto dualismo tra Luciano Ligabue e Vasco Rossi o sul perché in passato, per le sue conquiste in fatto di donne, venisse soprannominato “il killer”.

Come si vive da musicisti questo periodo di pandemia?
Eh, si prova a resistere. Anche se per i musicisti è un disastro e il problema più grosso è che non si vede una luce in fondo al tunnel, siamo davvero in alto mare. Sento costantemente altri colleghi, chi lavora nelle agenzie e per ora è tutto bloccato. Speriamo che si risolva il prima possibile.

Intanto, hai deciso di uscire con un disco di cover in cui hai svestito e rivestito i brani, che ora sembrano proprio tuoi.
Il disco doveva uscire a maggio 2020, ma la pausa alla fine è servita a riflettere, a ottimizzare, a mettere a posto il tutto. Dell’ultimo singolo Varietà di Gianni Morandi ero appassionato fin da ragazzino. Feci un tour promozionale di quasi un anno per Morandi sulla canzone Bella signora. Un giorno nel camerino entrò Mario Lavezzi e cantò davanti a Gianni questo brano, me ne innamorai subito.

In pratica sono tutte canzoni che hanno segnato in qualche modo la tua vita?
Sì, perché quando ho deciso di fare un disco di cover ho voluto ripescare brani un po’ nascosti o dimenticati, che però ritenevo ancora attuali. Le ho stravolte totalmente, come quella degli Skiantos, o in Varietà mi sono permesso addirittura di tagliare delle parti di testo di Mogol e ci vuole coraggio, ma era lunga e volevo renderla più immediata e con venature new wave.

Come ha reagito Gianni Morandi a questa versione?
L’ho chiamato avvisandolo del brano e mi ha chiesto di mandarglielo. Gliel’ho spedito su WhatsApp e dopo tre minuti mi ha chiamato: «Vengo a cantarla». Pensavo mi avrebbe chieste chissà quali royalties, in realtà l’ha fatto perché gli è piaciuta. E pensa che si è adattato lui alla nuova versione. Questo è lo spessore dei grandi artisti. Poi è passato un po’ di tempo e dovevo girare il videoclip e mai avrei pensato che sarebbe venuto anche per quello. Invece, nonostante il Covid e le paranoie che avrebbe potuto avere, si è presentato in perfetto orario già pronto, vestito e truccato “alla Gianni Morandi”, ha fatto le sue scene ed è andato. Super professionale.

Andrebbe portato come esempio a molti giovani che oggi se la tirano per qualsiasi cosa…
È vero, nonostante l’età ha un entusiasmo pazzesco e fa tutto con grande rilassatezza. Niente menate. Come lui anche Eugenio Finardi. Gli ho mandato la canzone, è andato in studio e il giorno dopo mi ha spedito la sua traccia.

Tu sei bolognese e vivi ancora a Bologna, una volta era considerata la culla del cantautorato. Com’è la situazione oggi?
Io lavoro moltissimo anche a Milano, ma a Bologna c’è questo spirito che prosegue dagli anni ’60 quando i musicisti si aggregavano nelle osterie. Ancora oggi è così. Ci si ritrova e si forma un senso di appartenenza, come in uno spogliatoio di calcio. Io se vado allo stadio vedo Morandi o Cremonini. Oppure all’Osteria dello Scorpione trovi Mauro Malavasi fino alle 8 del mattino. I posti più frequentati sono la Trattoria da Vito, il Jukebox, la Cantina Bentivoglio, il Bravo Caffè, il Cortile Café. E ci puoi trovare Calcutta, Giorgio Poi o Luca Carboni.

Se ti guardi indietro ti senti un guitar hero? Non a caso eri stato il testimonial del videogame della PlayStation.
Intanto avevo accettato quel progetto per due motivi. Il primo è che a rappresentare il videogame in America c’era Dave Navarro, uno dei miei idoli. E il secondo è che era un gioco, ma con le canzoni originali, per cui ha fatto conoscere ai più giovani moltissimi brani fondamentali del passato.

Ma ti impressiona che i giovani imparino a suonare la chitarra anche con i tuoi riff?
Un po’ di impressione me la fa, però conosco quell’atteggiamento perché prima di diventare musicista sono stato anch’io un appassionato come loro. Ero un fan sfegatato dei Clash, guardavo tutti i video, le foto, leggevo i libri che ne parlavano. Avere un idolo per la mia generazione era importante, una sorta di spirito guida. Dentro la musica dei Clash c’erano il reggae, lo ska, il rhythm and blues e tutto in una band punk. Da lì sono andato indietro e ho scoperto Bo Diddley o John Lee Hooker. Come i Rolling Stones, che erano moderni, ma si rifacevano ai classici. Spero che chi mi prende come esempio colga le mie ispirazioni e poi torni indietro per conoscere altri riferimenti.

Diciamo che la tua gavetta non è durata tanto prima di conoscere grandi palchi, a soli 22 nel 1990 sei entrato nei Litfiba nel loro momento d’oro con l’uscita di El Diablo. L’hai definita una grande scuola, come mai?
Sì, El Diablo, Sogno ribelle e Terremoto. Ero il chitarrista ritmico di supporto a Ghigo e dovevo cercare di avvicinarmi il più possibile al suo suono e alla sua attitudine. Lui è uno meticoloso di quelli esagerati, che è una dote, però è davvero maniacale. Non ho mai più incontrato uno preciso come lui, anche in cose che andavano al di là dell’idea musicale, c’era proprio un concetto di fondo che voleva sempre raggiungere. Ero molto giovane, avevo voglia di entrare in questo mondo, mi sono adattato e infatti mi ha insegnato tantissimo quell’esperienza.

Quali momenti spericolati ricordi con i Litfiba?
Per me fu una cosa incredibile far parte di quella band. Si facevano delle tournée lunghissime, solo in Italia 120 date e poi in Europa non ricordo quante. Una volta eravamo in Sardegna sul palco con un vento bestiale, le casse si muovevano e sembrava potessero crollare da un momento all’altro, una situazione pericolosissima. Mi volto verso Daniele Trambusti, il batterista, per fare il gesto rock di guardarci per colpire insieme il piatto e proprio in quel momento lui cade all’indietro rischiando di spaccarsi l’osso del collo. Diciamo che su certi palchi si poteva morire in qualsiasi momento. Ho ancora impressi i suoi occhi mentre andava all’indietro. Però si è rialzato e nonostante un male cane ha continuato a suonare. C’era questa energia particolare che pervadeva tutto.

Forse chi non è musicista non lo immagina, ma sul palco si rischia spesso. Per esempio, Massimo Varini  ha spiegato la pericolosità dell’elettricità per i chitarristi, tanto che lui si tiene sempre agganciato un rilevatore.
Mi è successo mille volte di prendere la scossa, alcune da svenire. Soprattutto succede tantissimo se stai con la chitarra in mano e canti al microfono. Dopo qualche volta devi mettere una spugnetta da qualche parte. Varini che è molto meticoloso si sarà comprato uno stabilizzatore, però è vero che il palco se non è a norma è pericolosissimo.

Foto: Daniela Tudisca

Dopo i Litfiba è arrivato Luciano Ligabue. Con lui però sei stato libero di esprimerti.
Mi sembrava di essere tornato con le band precedenti. Nei Litfiba c’era una disciplina ferrea a livello musicale per la precisione di Ghigo che passava le nottate ad ascoltare le cassette per vedere se c’erano errori. Luciano invece voleva tutto il contrario. Cercava musicisti che potessero interagire con le sue canzoni in maniera molto libera, suonando in sala prove a volumi alti come si faceva da ragazzini. Lui mi ha ridato la voglia di creare, mi ha stimolato a metterci qualcosa di mio. Arrivava con la chitarra acustica e la sua voce e si partiva da lì. Buon compleanno Elvis è nato tutto così. O come Su e giù da un palco: l’avevamo registrato dal live all’Olimpico senza tastiera, senza basi, completamente liberi, due chitarre, un basso, una batteria per tre ore di concerto. Super rock and roll! Dal 1994 sono l’unico che è rimasto con Luciano nella band.

Un motivo ci sarà…
Chi lo sa, fatto sta che ho vissuto tutte le evoluzioni di un musicista, dagli inizia a quando cambia e sale fino all’apice. Una escalation pazzesca. Era capitato più o meno con i Litfiba con Pirata che andò bene, ma El Diablo fu una botta vera. E così la svolta di Luciano, perché anche Buon compleanno Elvis ha venduto 1 milione e 200 mila copie, ma lui arrivava da un disco come Sopravvissuti e sopravviventi che era in calo. Pensa all’entusiasmo di passare dal suonare in un club a San Siro…

Ho letto che per quanto ti riguarda, non è Certe notti che preferisci, ma Ho perso le parole.
Certe notti è bellissima, la canzone evergreen di Ligabue, ma in Ho perso le parole, anche se è meno famosa, quando riascolto la parte di chitarra che mi è venuta di getto penso sempre: è proprio funzionale alla canzone. Ha un perché, le dà un’idea di ciclicità e di qualcosa che vuoi riascoltare, con un tocco di atmosfera molto caratterizzante. Non succede sempre di essere soddisfatto del risultato finale, a volte alcune cose poi non mi piacciono. Certe notti l’ho riascoltata di recente dal cofanetto 77 singoli + 7, così suonata nuda e cruda è fortissima. Ha un sapore di verità, si sentono tutti i rumorini, l’interazione fra noi, è un qualcosa che respira.

Parlavamo prima dello spirito di fratellanza fra i musicisti romagnoli, ma secondo te, che conosci entrambi, perché è così difficile vedere Ligabue e Vasco insieme su un palco?
Io credo che non ci sia niente di strano tra loro. È un po’ tutta una montatura quando parlano di rivalità. E poi, né Luciano né Vasco li ho mai visti duettare con altri. Da Zucchero me lo aspetto, infatti ha suonato con Luciano, arriva da quel tipo di scuola. Luciano e Vasco scrivono canzoni in modo cantautorale in chiave rock, ma portando avanti il loro modo. Vasco, che ho conosciuto, non mi dà l’idea che se per caso si trova sotto al palco e sente altri che fanno gli AC/DC sale su e duetta. A qualcun altro invece viene naturale. Ci sono artisti che sono propensi a cimentarsi con le cover, come Afterhours o Bluvertigo. Io stesso mi ritrovo spesso con band milanesi, come è accaduto per l’evento Lennon 80 e c’erano tantissimi musicisti che si sono prestati alle cover. Bisogna avere una certa attitudine a trovarsi sul palco con altri per fare dei classici che forse loro non hanno.

Però non dirmi che non ti piacerebbe un giorno suonare con loro due insieme?
Cazzo, se sarebbe bello…

Invece lo stadio migliore in cui suonare è sempre San Siro?
Esatto, perché è tutto molto “davanti”. È un’arena gigantesca, con il palco vicino alla tribuna centrale e quindi hai di fronte un muro di persone che non finisce mai. In più c’è una copertura che ti fa sentire inghiottito da quella gente. Quando esci e devi partire con un riff davanti a quella scena lì è un momento particolarmente delicato, la testa può farti brutti scherzi.

Ti è mai capitato di steccare?
Altro che, però come spesso accade non se ne è accorto nessuno a parte gli addetti ai lavori. Ma voglio dirlo, perché può succedere a tutti. Quando suoni in certi luoghi, ci sono sempre dietro molte prove e tutto è perfetto, per cui se sbagli chi se la vive male alla fine sei solo tu. Dopo il concerto, anche se il resto è andato bene, pensi solo a quella steccata e non è facile scrollarsela di dosso. Persino sul palco è rischioso, perché potresti entrare in loop. Solo l’esperienza ti dà la possibilità di godere anche dell’errore. In gergo si chiama “buco nero”, per una frazione di secondo ti chiedi: «Perché sto facendo questo?». Basta una luce, gli urli, un qualcosa che ti fa perdere la concentrazione e quando ti distrai arriva l’errore. Però va superato.

Ho notato che sui tuoi social non pubblichi mai contenuti troppo privati, men che meno delle tue figlie. È una forma di protezione nei loro confronti?
Non le metto perché aspetto che siano loro a volerlo. La mia compagna a volte vorrebbe, ma lo impedisco anche a lei. I social li uso per lavoro, poi è ovvio che se devo comunicare di avere la compagna o i figli lo dico, ma non mi interessa far crescere i miei social mettendo in mostra i miei fatti personali. Molti lo fanno, però a me non interessa. Le mie figlie hanno 10 e una 12 e quando saranno maggiorenni decideranno loro.

In passato si è parlato molto del tuo rapporto con le donne. Proprio perché è il passato, è vero che gli amici per le tue conquiste ti avevano soprannominato “il killer”?
In realtà è colpa del manager di Ligabue, Claudio Maioli. Un giorno durante una torunée eravamo accompagnati da una troupe televisiva che avrebbe tracciato il profilo di ognuno della band. In quel periodo ero libero, pronto e disponibile a qualsiasi situazione e cercavo di ottenere qualcosa appena potevo. Lo facevo in maniera abbastanza costante e riuscendo a portare a casa il risultato. Così, quando a Maioli chiesero: «Ma Fede che tipo è?», lui gli rispose: «È un killer, la vede, la mira e se la fa sua». Disse solo quello, ma porca miseria è rimasto… Nel frattempo uscivo con una tipa e quando quella cosa andò sui giornali ci mollammo immediatamente. Diciamo che ero sicuramente avvantaggiato dal frequentare il palco e sono sempre stato uno piuttosto mondano. Nel lavoro sono molto professionale, ma se c’era da far festa ero sempre il primo.

Si dice addirittura che hai fatto l’amore in una chiesa sconsacrata…
Ma chi te l’ha raccontata questa? Così mi imbarazzo… Sai cosa c’è? Che qui in zona ce ne sono molte di chiese sconsacrate. Alcune piccolissime, perché in diversi poderi avevano la chiesetta accanto alla casa. Dentro sono stupende. E così, una volta è nata l’idea di farlo là dentro che non è male. Chissà com’è successo, sai quando sei preso dall’amore e da qualche fumo alcolico…

Dimmi la verità, dopo la carriera che hai avuto c’è ancora un sogno nel cassetto?
Qualcosa forse c’è. Non posso negare che mi piacerebbe fare un Sanremo con una bella canzone. Non per forza da solo, anche con un gruppo. Ho partecipato varie volte, come ai dopo festival, ma in gara con qualcosa di spessore mi manca. Un obiettivo del genere mi piacerebbe per rimettermi in gioco. Ah, però a pensarci bene il mio sogno nel cassetto me lo sono già realizzato.

Quale?
Qualche anno fa Phil Manzanera aveva preso in mano l’organizzazione della Notte della Taranta e un giorno venne nei camerini per parlare con Ligabue. Gli chiese di suonare con Tony Allen, ma soprattutto con Paul Simonon dei Clash. Io che ero un suo fan sfegatato fin da ragazzino andai da Luciano e gli dissi: «Ma come, non me lo dici?», e lui mi rispose: «Ma no Fede, non si farà mai». Poi passò qualche mese e Luciano venne da me: «Sai quella cosa… è andata a buon fine». E io: «Ma cosa, Luciano?!». Temevo fosse il concerto con Paul Simonon e infatti era quello. Allora mi sono impuntato: «Devo venire anch’io, non ne voglio sapere, suono gratis, ma non posso mancare». È stato quello il mio sogno realizzato. Da bambino non volevo conoscere i Clash, ma suonare insieme a loro, cioè a chi mi ha appassionato alla musica e alla fine ce l’ho fatta.

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