Federico Fiumani: «Il rock è pieno di finti ribelli attenti a soldi e visibilità» | Rolling Stone Italia
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Federico Fiumani: «Il rock è pieno di finti ribelli attenti a soldi e visibilità»

Parla il cantante dei Diaframma: i colleghi che non ama, la sacralità della poesia, la depressione, la scelrosi multipla, l'angoscia esistenziale. E il suicidio: «Ci ho pensato. Vuol dire che la tua disperazione è autentica»

Federico Fiumani: «Il rock è pieno di finti ribelli attenti a soldi e visibilità»

Federico Fiumani

Foto: Monia Pavoni

Costanza logica o affettiva nel pensiero e nelle azioni. È la definizione di ‘coerenza’ che troviamo nel dizionario. Ma se vogliamo descriverlo con un orizzonte più profondo, possiamo affidarci a Camillo Langone: Josemaría Escrivá insegna che “cominciare è di tutti, perseverare è dei santi” e allora Federico Fiumani è come minimo beato perché coi suoi Diaframma persevera dal 1980. Difficile dargli torto, ancor meno dopo averlo incontrato nella sua Firenze, la città nella quale sono state poste le basi della new wave nostrana, il post punk ha dato maggiori frutti, ma soprattutto dove finalmente si è cominciato a cantare il rock in lingua italiana, visto che fino a quel momento «era considerato da cretini».

Ne è passata di acqua sotto il Ponte Vecchio, ma lui è sempre là, uguale a sé stesso, costantemente attanagliato da una angoscia esistenziale che non gli lascia tregua, ma nello stesso tempo gli infonde l’ispirazione che convoglia nella musica. E con sua grande sorpresa, a un passo dai 60 anni (il prossimo 7 maggio) ha finalmente scoperto che l’abisso – dal titolo dell’ultimo album – non è rappresentato dalla vecchiaia, quanto dall’accettare i compromessi.

L’appuntamento è in Piazza della Repubblica, alla Feltrinelli, ma quando gli faccio notare che passano a rotazione i pezzi di Piero Pelù propone di spostarci in un bar poco distante. Non è un mistero che l’amico di una vita sia oggi considerato il peggiore dei “traditori”. In ambito artistico, si intende. All’ex leader dei Litfiba non risparmierà aspre critiche, in particolare dopo l’ultimo Sanremo: «È un borghese che gioca alla rivoluzione».

Ci accomodiamo e dallo stereo dietro al bancone parte una canzone che solo in un secondo momento mi accorgerò diventare l’ideale colonna sonora di tutta l’intervista: My Way di Frank Sinatra. Nell’ora che passeremo insieme, infatti, Fiumani non nasconderà nulla dei propri lati grigi e di altri nerissimi: dalla depressione, per cui è in cura da più di trent’anni, fino al fascino del suicidio («ci ho pensato, anche recentemente»), ma confesserà di aver finalmente trovato nuove energie da un taglio netto con il passato, a livello professionale e familiare. E lentamente, ma inesorabilmente, si andrà a formare l’autoritratto di un poeta-rocker che sente costante la presenza della morte eppure attraverso la musica ne rifugge, tracciando un bilancio della propria esistenza senza poi tanti rimorsi, poiché ha sempre vissuto “a modo suo”.

Recentemente ho incontrato Morgan, che a un certo punto ha detto: “Che cos’è un dandy oggi, Oscar Wilde o Federico Fiumani?”. Ti ritrovi nella definizione?
Lo ringrazio dell’accostamento ardito, ma non mi sento per niente un dandy. Sono, molto più prosaicamente, un cantautore rock. Però la figura di Oscar Wilde la apprezzo. Non so da cosa nasca questo parallelismo, ma sai, Morgan forse mi stava pensando perché l’ho difeso attraverso Facebook per il casino che è successo a Sanremo.

Più che sulla diatriba Bugo-Morgan, il tuo discorso era incentrato sul rimettere al centro la figura dell’artista, giusto?
Sì, lo sostengo a spada tratta perché gli artisti veri sono sempre rari, in qualunque epoca. Come disse Moravia al funerale di Pasolini: “Un poeta dovrebbe essere sacro”. Ho quella concezione su Morgan, quindi andrebbe considerato su un altro piano rispetto agli altri. Un vero artista lo ascolti, anche nelle sue contraddizioni e gli vuoi bene proprio per queste. Alla fine, Morgan ha dimostrato che la sua arte è nettamente superiore alla media.

Dalle ultime esternazioni sui social, non mi pare tu abbia la stessa considerazione di Piero Pelù, almeno rispetto al passato.
Verso Piero sono sempre stato critico, nonostante l’amicizia che risale agli anni ’80 quando Diaframma e Litfiba hanno diviso tantissime esperienze insieme. Ma un po’ un suo modo di fare che non è stato molto carino negli ultimi anni e un po’ la sua ultima partecipazione a Sanremo, dove si è proposto come un buffone, me lo fanno considerare un vero paraculo. Lo è sempre stato, ma ultimamente ha toccato il fondo, per cui mi risulta insopportabile.

Che cosa ti ha tanto irritato?
Sia il testo della canzone che il suo atteggiamento. Era impregnato di falsità, di retorica buonista, di un voler stare sempre dalla parte dei più deboli e salvare il mondo, ma alla fine di cercare solo il proprio tornaconto e di salvare sé stesso. Questi buonisti retorici non li sopporto più. Se le cose vanno così male è a causa di gente come questa, che parla parla ma poi non fa niente di concreto.

Hai scritto che il rock sensibilizza i già sensibilizzati.
Sì, è diventato istituzionale. Ce la cantiamo tra di noi. Facciamo i finti trasgressivi o ribelli, ma stando attenti ai soldi e alla visibilità. Con quella frase volevo mettere in guardia le persone, perché per me il rock è un’altra cosa.

Infatti, in un altro post hai aggiunto: “I cantanti trasgressivi e ribelli sfottono e attaccano da sempre la religione cattolica, l’unica religione al mondo che tende la mano e perdona tutti. Perché invece non fanno un pezzo contro l’Isis che stupra, uccide, e opprime interi popoli?”.
Certo, troppo facile prendersela con la religione cattolica, perché tanto alla fine ti perdona. Come Piero Pelù, che è un borghese che gioca alla rivoluzione. Invece verso le grosse minacce del mondo il rock tace. Anche perché abbiamo visto con Charlie Hebdo quello che è successo. Mi hanno risposto alcuni che l’Isis non è una religione, però è un sofisma perché è a tutti gli effetti un braccio armato che si esprime attraverso un credo religioso. Eppure, non mi sembra siano stati organizzati mega raduni rock contro di loro. Perché hanno paura, visto che dove ci sarebbe davvero da combattere, prendere posizioni ferme, parlare apertamente di certe cose che ci minacciano, si preferisce stare zitti perché si bada più al proprio tornaconto personale.

A maggio compirai 60 anni. Forse prendendo spunto dal vostro ultimo album, hai detto di entrare in una fase che consideri “l’abisso della vecchiaia”.
Da quando l’ho dichiarato, un anno e mezzo fa, mi sono accorto che ci sono stati cambiamenti nella mia vita che hanno modificato questa definizione. Per esempio, ho abbandonato del tutto il rapporto con i miei familiari. Mio padre l’ho perso a 5 anni e sono stato allevato da una madre e una sorella maggiore con le quali non sono mai andato d’accordo. A volte, il rapporto con i familiari per paura di perderli ti fa accumulare delle nevrosi pazzesche. Questo stato mi aveva fatto prefigurare la fine come una cosa non particolarmente dolorosa. Invece da quando ho chiuso questi rapporti non importa più quanto vivrò, l’importante è che sia lontano da loro che mi hanno fatto del male.

Quindi lo consideri un nuovo inizio.
Proprio così: non voglio più né vedere né sentire nessuno che mi crei stress. Questa regola mi ha dato una spinta nuova e comincio a essere più ottimista e a sentirmi più libero. Come con i genitori, uscire dall’ipocrisia di sperare che muoiano, così poi potrai fare le cose a modo tuo. Il distacco mi ha dato la speranza che questo abisso non sia così brutto, a patto che tu abbia il coraggio di liberarti di legami importanti. Ho provato finalmente un senso di ribellione verso rapporti che ho tenuto in piedi per paura di rimanere solo o di perdere dei riferimenti. A un certo punto mi sono detto: buttiamo via tutto ciò che è tossico e ricominciamo da zero. Mi ha dato l’idea di una maggiore voglia di vivere, di accettarmi per quello che sono e cominciare a dire la verità costi quel che costi.

Firenze però non l’hai ancora abbandonata.
No, la apprezzo moltissimo. Sono arrivato qui per scelte familiari da Osimo, in provincia di Ancona e la città è stupenda. Negli anni ’80, poi, era estremamente vitale. In più è molto comoda per un musicista, perché sei al centro d’Italia, quindi è ideale per le tournée, anche se ormai le date sono quasi tutte al centro nord. Di Firenze mi piace tutto, ma forse i miei luoghi preferiti sono Piazza della Signoria e via dei Neri perché c’è Contempo, un negozio di dischi a cui sono molto legato.

Foto: Ilaria Fioravanti

Non sei solo un cantautore, ma anche un ottimo talent scout. Ricordo che già a inizio 2016 consigliavi i Thegiornalisti, quando in pochi ci avrebbero scommesso.
Dopo i primi due album non li conosceva nessuno. Avevano queste chitarre tipo gli Strokes, che però non si sposavano bene sui testi di Tommaso Paradiso. Pensa che il terzo album avrei dovuto produrglielo io.

E come mai non è accaduto?
Tommaso mi dette i provini, se non sbaglio doveva chiamarsi Fuoricampo. Non me la sono sentita, anche perché non sapevano dove sbattere la testa per chiedere a me la produzione. Tommaso Paradiso è un fighetto con la passione di Lucio Dalla e Antonello Venditti, ha cercato di emergere nell’ambito indie ma quando ha visto che non funzionava ha tirato fuori quello che gli era più congeniale. E ha avuto la fortuna di incontrare i gusti del pubblico.

Come lo vedi oggi da solista?
Lo trovo una persona colta, intelligente, vitale e mi fa sempre venire in mente la trasformazione di Monica Vitti: attrice partita come la musa di Antonioni, molto seria, una volta finita la storia con il regista ha deciso di tirar fuori il suo lato brillante con grandissimi risultati. Sono contento per Tommaso e riconosco che è uno bravo. E poi il successo a quei livelli deve essere anche divertente.

Ma l’indie esiste ancora?
Ai miei tempi era proprio un altro periodo storico, molto diverso. La musica negli anni ’80 aveva dei generi musicali che non erano interconnessi, ma nettamente separati. I metallari per noi erano i nemici, la new wave un genere chiuso e ragionavamo per compartimenti stagni, autoreferenziali. A noi al massimo piaceva il post punk. Ma siccome si vendevano i dischi e si facevano molte serate, questo ti permetteva di avere le tue soddisfazioni e di viverci. Ora al tempo della globalizzazione, l’indie che aveva caratteristiche definite si è ormai mischiato con tutti gli altri generi. In pratica è la fine dell’indie. Infatti, non esiste più la percezione del tradimento di una band che firma con una major. Non ti sputtani perché l’etichetta non vuole cambiarti, visto che ormai quando arrivi da lei sei già bene o male commerciale.

Una caratteristica che ti ha sempre distinto è l’angoscia esistenziale contenuta nei tuoi testi. Ma da cosa ti deriva?
Per me di essere cresciuto senza un padre, una condizione che mi ha rovinato la vita. Mi ha fatto sentire diverso dagli altri, depresso, insicuro, facilmente attaccabile. Ancor di più con una madre che non ha mai avuto amore o fiducia nei miei confronti, mi ha sempre osteggiato e avrebbe voluto per me una vita grigia da impiegato. Ho dovuto combattere contro di lei e una sorella che non mi ha aiutato. Mi sono sempre sentito solo e quindi depresso. E poi pieno di sensi di colpa per la morte di mio padre. Per un breve periodo fui contento che fosse morto, un complesso di edipo che si realizza. Però mi ha devastato, rovinandomi la vita e facendo di me una persona infelice.

Insomma, si può dire che la musica ti ha salvato la vita?
Assolutamente sì. Mi ha dato modo di comunicare con il mondo, avendo un po’ di gratificazione. È stata dura, molto dura. Mi ha salvato la vita, nel mio caso specifico, perché non avrei trovato nessun altro appiglio. In più mi ha dato da vivere, per cui mi sento realizzato e le sono molto grato.

Però sono famosi anche i tuoi “no”. Oltre a quello a Sanremo, ho scoperto che hai rifiutato persino di dare una tua canzone ad Adriano Celentano. Altri avrebbero fatto carte false.
Un altro “no” è stato alla BlackOut negli anni ’90 perché per il disco Il ritorno dei desideri non mi avevano garantito quando sarebbe uscito. Ma ho sempre detto dei “no”, come per andare a suonare in certi posti se non mi andava. È importante dire “no” nella vita, poi dipende come sei di carattere. Alcuni ci sguazzano nei compromessi, come Piero Pelù che prima ha contestato Matteo Renzi e poi ha fatto affari con il suo braccio destro a Firenze per l’acquisto di appartamenti di lusso.

Restiamo a Sanremo, come mai hai rifiutato?
Non sono contrario, per esempio hanno fatto bene i Subsonica o i Marlene Kuntz. Solo che io ero un solista, sarei stato buttato allo sbaraglio in mezzo a gente orribile. Ho pensato che mi sarei fatto del male perdendo il piccolo pubblico underground, per cui ho preferito coltivare il mio orticello.

Però dire di “no” a Celentano non è da tutti.
Sono stato contattato da Claudia Mori, visto che è lei che comanda intorno ad Adriano, perché le era piaciuta Beato me. Mi chiese se volevo dargliela. “Magari, molto volentieri” risposi subito. Però poi non mi diedero garanzia di quando sarebbe uscita o se sarebbe mai stata pubblicata. Siccome la canzone mi piaceva, perché indebolire il mio album per una ipotesi? E così rifiutai.

Uno dei riferimenti dei Diaframma sono sempre stati i Joy Division. La storia tragica del cantante Ian Curtis è nota, ma per caso hai mai pensato o rischiato di fare una brutta fine come è accaduto a tanti nella storia del rock?
Al suicidio? Sì sì, ci ho pensato. Anche di recente. Mi seduce molto come scelta. Una volta ho visto un concerto dei Nirvana nel ’94 e sapere che Kurt Cobain due mesi dopo si sarebbe ucciso è affascinante. È come mettere un marchio a quello che dici e canti, cioè che la tua disperazione è autentica, non un atteggiamento alla Manuel Agnelli.

Non apprezzi gli Afterhours?
Per niente. Non mi convince lui, perché non mi piace la musica e il suo atteggiamento.

Chi apprezzi, invece?
Attualmente Francesco Bianconi dei Baustelle e Morgan. Oppure i grandi Fabrizio De André, De Gregori e Paolo Conte.

Tra i giovani c’è qualcuno che ti senti di sostenere?
Un gruppo che si chiama La Notte, che ho ascoltato qualche tempo fa a Ferrara. Sono molto bravi, loro mi sento di consigliarli.

Prima dell’ultimo disco, L’abisso, erano passati cinque anni di silenzio. Cos’è stata, mancanza di ispirazione o ci sono altri motivi?
In passato ho avuto il timore di chiudere la carriera, perché non avevo più ispirazione. Dopo la rottura con la Ricordi andai in depressione visto che il disco non aveva funzionato. Pensavo che non avrei più ritrovato la creatività. Io sono in analisi da 34 anni, per cui un giorno lo psicologo mi ha detto: “Datti una mossa e scrivi lo stesso”. Così mi misi 8 ore al giorno a lavorarci e saltò fuori Anni luce, realizzato senza ispirazione ma che funzionò molto bene. Diciamo questo: scrivo sempre sotto ispirazione, però se dovessi trovarmi con le spalle al muro, con i creditori alla porta e senza soldi, penso che sarei capace di scrivere dieci canzoni anche senza. E ho notato che la gente non se ne accorge poi tanto.

Qual è stato il periodo peggiore per la tua cronica depressione?
In generale è tremendo il fatto di non uscirne mai, se non per brevi periodi. I momenti peggiori, però, negli anni ’80 e poi nel 2011 quando mi hanno diagnosticato la sclerosi multipla. Ero in crisi anche con la fidanzata dell’epoca e sommata alla scoperta della malattia, mi fece passare un momentaccio. Però alla fine ho trovato la forza per tirarmi su.

L’hai definito un nuovo inizio.
Anche se nel caso non facessi più musica, mi sento comunque rinato.

Federico Fiumani negli anni ’80

Una cosa che non sembra averti mai riguardato è la droga, mentre in tanti della tua generazione ne facevano largamente uso.
Non mi sono mai drogato per paura. È nata da questo anche la fine dell’amicizia con i Litfiba. Mi invitavano a farmi gli acidi al mare con loro e in quei momenti capisci di non essere più in sintonia. Quando non ti droghi non capisci chi invece le assume, perché non condividi una cosa così importante per una vita di gruppo, in particolare di giovani. E poi non mi sono mai drogato perché ero già senza padre e con le pezze al culo, ci mancava solo che mi fossi drogato e non ne sarei più uscito. Ho notato dal principio che i drogati sono sempre infelici, ma io lo ero già per conto mio.

Le donne, di contro, sembra abbiano rappresentato un elemento importante nella tua vita.
Uno spazio fondamentale. Le ho idealizzate moltissimo. Le ho sempre immaginate come creature che mi avrebbero potuto salvare. Ora sono in fase disillusione. Diciamo che si sta bene anche senza. Prima mi sembrava impossibile. Da giovane non ho mai avuto tante donne, solamente dai 30 anni in poi e per un periodo con parecchie ed è stato bello e divertente. Spero di averne sempre di più di storie occasionali. Ora penso che il sesso sia meglio dell’amore, è più autentico.

Un figlio non ti manca?
Prima credevo di non essere adatto, ora penso che sarei stato un buon genitore. Non aver avuto un padre ha influito, visto che sono cresciuto senza modelli. Ci ho pensato tante volte, ma forse non ho trovato la compagna adatta.

Una disillusione che provi anche nei confronti della politica?
Negli anni ’70 la politica era molto sentita dalla gente, c’era una grande passione e un senso di appartenenza. Eravamo certi che avrebbe cambiato la nostra vita. Adesso comandano i poteri economici e la politica va dietro a quelli. Destra e sinistra contano molto poco. Adoro Giovanni Lindo Ferretti che oggi è su posizioni di destra, quindi contano più le persone rispetto alle idee.

Se potessi reincarnarti in un personaggio del passato, chi sceglieresti?
Salvo d’Acquisto, il vicebrigadiere dell’Arma dei Carabinieri insignito della Medaglia d’oro al valor militare alla memoria per essersi sacrificato per salvare un gruppo di civili durante un rastrellamento delle truppe naziste. Un eroe. Per dare un senso alla vita, io che ho faticato a dare un senso alla mia. Avrei voluto vivere in un periodo, anche di guerra, in cui potevi dimostrare il tuo coraggio morale, il tuo valore. Ora è tutto tranquillo e sicuro, ma si muore per niente.

Camillo Langone ha scritto di te: Josemaría Escrivá insegna che “cominciare è di tutti, perseverare è dei santi” e allora Federico Fiumani è come minimo beato perché coi suoi Diaframma persevera dal 1980. Ti senti un po’ beato?
Ma sì, per averci sempre creduto. Tra l’altro mi fa piacere che tu abbia citato Langone, perché lo apprezzo come scrittore.

Quali sono altri tuoi riferimenti letterari?
In questi anni sono molto preso dai reazionari. Sto leggendo tanto Michel Houellebecq. Del passato, Alberto Moravia, Elsa Morante, Goffredo Parise. Oppure la poesia. Da giovane andavo matto per Roberto Roversi o per i “maledetti francesi”.

Tu stesso hai pubblicato vari libri di poesie, senza contare che i tuoi testi sono da sempre ispirazione per tantissimi artisti venuti dopo. Ma ti senti più rocker o più poeta?
Un poeta che sta zitto! Spero che l’ispirazione torni, ma la poesia deve anche saper tacere quando non c’è nulla da dire. E poi mi piace suonare, essere un rocker, penso di saperlo fare abbastanza bene.

Hai un pubblico fedelissimo che ti segue dagli anni ’80, però aumentano anche i giovani. Come te lo spieghi?
Che ci siano dei giovani è sorprendente, mi stupisco a ogni concerto. Non li ho mai cercati, per cui mi fa ancora più piacere. Spero di aver donato dei bei momenti alla gente.

Se potessi rivolgerti al Federico Fiumani di 20 anni, che consigli gli daresti?
Ero un illuso, non conoscevo per niente ciò a cui sarei andato incontro. Gli direi: “Preparati a soffrire molto, perché la vita è dura. Ma fregatene di più e fatti i cazzi tuoi”.

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