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Father John Misty: «Mi sono messo nei panni di Gesù»

Ieri ha suonato sul palco del Coachella: con lui avevamo parlato del nuovo album, dell'era Trump e dell'umanità intera

Foto Guy Lowndes

Non so se faccia parte della sua strategia di marketing da intellettuale devoto alla tequila, ma Father John Misty ha rimandato svariate interviste perché in hangover dalla sera prima, non senza premurarsi di rispondere al telefono con la voce impastata per una performance da rockstar debosciata. Quindi questa parte ve la risparmio. La sera, tre giorni dopo, è fin troppo sobrio e professionale.

FJM: Prima di tutto scusami per l’altra volta…

Tranquillo, ma mi sono chiesta: come vivi la promozione? Ti annoia fare le interviste?
FJM: (Ride) Mettiamola così: sono fortunato che nei miei dischi parlo di cose che mi interessano realmente, quindi mi piace discuterne. Deve essere un incubo per chi scrive versi a caso e poi è costretto a scervellarsi per trovarci significati profondissimi.

In questo disco di cosa volevi parlare?
FJM: Intanto c’è stato un fraintendimento. Non ci tenevo ad anticipare un movimento anti-trumpista, anzi la retorica anti-trumpi sta è diventata un problema per l’America.

In che senso?
FJM: Nel senso che mi sono rotto le palle della satira anti-Trump. La satira serve a irridere il potere, ma si trasforma in uno strumento depotenziato quando è il potere stesso a essere satirico. Trump è il primo a finanziare giornali satirici che parlano di lui.

E quindi qual è la soluzione?
FJM: Fare un disco bellissimo di 78 minuti.

Con un certo distanziamento ironico…
FJM: In realtà è un disco pieno di idealismo: prendi Gesù…

Che c’entra Gesù?
FJM: Era un uomo odiato dall’establishment religiosa del tempo. La cosa divertente è che la più grande religione del mondo è stata fondata da un fervente antireligioso. Volevo interrogarmi su questo paradosso ironico.

Ti stai mettendo nei panni di Gesù?
FJM: Certo. E dovremmo farlo tutti, ma non di Gesù visto come un punkettone o un ragazzetto imbronciato. Dovremmo tornare ad avere fede nell’esperienza umana. Per questo non sopporto l’ideologia liberal americana: è troppo semplice odiare Trump, non ci vuole niente. È molto più radicale provare a riconoscerne l’umanità, esercitare la pietas e non un odio da borghesi.

Foto Guy Lowndes

La tua musica è innestata in una tradizione folk, senti di riuscire a parlare anche agli ipotetici elettori di Trump?
FJM: Senti, pure su questo c’è un fraintendimento. Non è che gli elettori di Trump siano tutti dei buzzurri, misogini e ignoranti. È gente disperata, che ha perso il lavoro, e Trump è andato nelle fabbriche a ridargli un senso di comunità mentre Clinton organizzava concerti per yuppies con Beyoncé.

Nella canzone Leaving LA ti interroghi su quale debba essere il ruolo di un songwriter, credi che oggi un musicista debba ridefinire se stesso per essere incisivo?
FJM: Se voglio fare un album sull’umanità…

Un’impresa modesta!
FJM: Ma è così, non mi interessa essere modesto. Io voglio chiedermi quali siano i bisogni di un essere umano, il che ti costringe a farti delle domande sul valore di ciò che stai facendo. Ho letto una discussione “raffinatissima” su Pitchfork, tra Dave Longstreth dei Dirty Projectors e Robin Pecknold dei Fleet Foxes, sul senso dell’indie-rock… L’ho trovata inutile, pretenziosa e iper-cerebrale, tra persone che hanno perso il contatto con la realtà. Io non voglio perderlo, non me frega un cazzo di restare dentro un frame teorico che specula sull’indie-rock, quindi sì, scrivo un pezzo che mette in crisi me stesso.

Hai mai pensato di lasciare gli States?
FJM: Non mi dispiacerebbe l’Italia.

Perché?
FJM: Perché mi ha annoiato il mito americano che ogni giorno deve essere una “nuova avventura”, l’esaltazione della spontaneità e della freschezza. Voi riuscite a trovare la felicità anche nella routine e nella tradizione.

Forse quella la trovano gli americani quando vengono in vacanza…
FJM: (Ride) Però avete più senso dell’ironia. E di sicuro donne e scarpe più belle.

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