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Fatevi un trip con Jonathan Wilson

È sempre più difficile vivere di musica? Tanto vale fare dischi “fumati” e avventurosi come ‘Eat the Worm’. Siamo stati nella casa-studio del rocker a Topanga per farci raccontare l’album, il tour con Roger Waters, l’ego «che ti spinge a rimetterci dei soldi pur di suonare dal vivo»

Foto: Andrea Nakhla

Dalla Highway 1, la strada panoramica che abbraccia la costa del Pacifico, mi addentro nei canyon, verso il villaggio di Topanga. Vecchia enclave hippie con case in legno sparse tra il verde e una vivace comunità di artisti: anche se Los Angeles dista solo 40 chilometri, qui è facile lasciarsi il mondo convenzionale alle spalle. Il fuso orario è lo stesso della limitrofa Malibu: si va a letto presto e ci si alza col sole. Fatta eccezione per Jonathan Wilson: nascosto nel suo compound casa-studio in cima alle montagne, lavora di notte e si addormenta alle prime luci del mattino.

Colorito bianconeve e barba incolta, mi accoglie in giardino e da un albero stacca una manciata di mele verdi perfette e me le porge; ricambio porgendogli una bustina di erba spinella fresca. È tutto molto bucolico. Dallo studio di registrazione vedo uscire nientemeno che Josh Tillman, celebre come Father John Misty: i due sono amici da una vita e Wilson lo sta aiutando in veste di produttore. «Le prime idee di canzone sono nate al pianoforte con i microfoni ancora accesi dopo le sessioni diurne con Tillman», rivela del suo nuovo album, Eat the Worm (“Mangia il verme”).

Se il mezcal è il drink preferito da Jonathan Wilson, ci vuole un certo coraggio per ingurgitare la larva che giace in fondo alla bottiglia di liquore messicana. Alcuni sostengono che ingerirla causi allucinazioni, altri dicono che è una leggenda metropolitana (se bevi una bottiglia intera fino ad arrivare al verme imbevuto d’alcol, allora è normale vedere Gesù Bambino con tutti gli angeli in colonna). La provocazione implicita nel titolo resta chiara: Eat the Worm è un lavoro stravagante, avventuroso; fatto di una complessità che si risolve in melodie più travolgenti che autoindulgenti. È un vero trip sonoro. “Jim Pembroke mi ha ispirato […] a rischiare” dice nel testo del singolo Marzipan, riferendosi al cantante della band prog finnica Wigwan, scomparso appena due anni fa. «Quando ho scoperto la sua musica così folle e geniale, mi si è accesa una lampadina in testa. Ho pensato: voglio fare qualcosa del genere, musica genuinamente stramba».

Uno studio di registrazione fenomenale sempre a tua disposizione: in che modo tale lusso ha informato l’album?
Mi ha dato il tempo e la possibilità di sperimentare, provare e anche gettare materiale su cui avevo lavorato per ore, cosa che non tutti possono permettersi. Il processo in sé è facile: posso controllare tutto dallo smartphone, posso sedermi alla batteria e registrarmi da solo.

Per Eat the Worm hai appunto suonato ogni strumento, cosa ha mosso questa decisione?
Volevo tornare a fare le cose come un tempo, da solo, senza ingegneri del suono, senza un team, così da raggiungere il livello profondo di concentrazione di cui avevo bisogno. È un po’ come essere un pittore: sei solo a fissare il tuo dipinto, a pensare sul da farsi. Nella versione finale del disco ho suonato tutte le parti eccetto basso e pianoforte, dunque in verità c’è stato l’intervento di una band anche se non abbiamo suonato tutti allo stesso momento.

Lavorare in solitudine e senza limiti di tempo ha i suoi pro e contro nella creazione di una canzone. Come fai a sapere quando fermarti?
Innanzitutto devi fumare più erba (ridiamo) e poi devi affidarti del tutto al tuo istinto. Non mi interessa se un brano dura 13 minuti e se per qualcuno sono troppi, non mi interessa cosa pensano, non mi offende una canzone che dura 90 minuti. L’idea che l’album perfetto debba durare 37 minuti non mi interessa… non mi interessa il punk. Giorni fa ascoltavo un podcast con un paio di Red Hot Chili Peppers che parlavano della prima volta a cui sono stati esposti al punk. Dico loro giusto per fare un esempio, ma la gente parla di quando si è immersa nel punk o nella new wave, in band come Dead Kennedys e Black Flag, come se segnasse il primo momento in cui si sono sentiti davvero fighi. Ok, vabbè…

A proposito, in diversi testi di Eat the Worm te la prendi con questo e quell’altro artista, fai nomi, cognomi e allusioni. Come ascoltatrice lo trovo divertente. Ad esempio in B.F.F. canti: “Portatemi la testa di John Mayer”. Mi chiedo cosa ne ha pensato John Mayer.
Non saprei ma ci sono stati dei siti che hanno usato quelle parole per creare una faida tra me e lui, cosa piuttosto buffa. Ho anche ricevuto diversi «vaffanculo», «sei uno sbruffone», «sei un finto David Gilmour» e così via. Ma queste chiacchiere svaniscono presto e… the song remains the same.

In B.F.F. te la prendi anche con i “Jerry impostori”…
Me incluso! Quante volte mi sono messo a imitare Jerry Garcia nei miei concerti?! Per questo è divertente quando mi accusano di sfottere gli altri, sono il primo a prendermi in giro. È una canzone, è permesso divertirsi.

Foto: Andrea Nakhla

Nello stesso brano fai anche una confessione: dici che il tuo ego ti stava mangiando vivo. Cosa intendi?
Mi sono reso conto che stavo rimettendo soldi pur di suonare dal vivo. Ogni volta che salivo sul palco, erano 2000 dollari. Pagavo il pubblico perché mi ascoltasse e anche se nella forma non era così, il succo non cambia. Dopo il tour in apertura a Tom Petty, mi è arrivata una bolletta di 90 mila dollari: non all’etichetta, a me. E non solo per il tour ma per un insieme di spese in quel periodo. I manager ti convincono delle opportunità e ti spingono a prendere certe decisioni, ma affinché un tour porti profitto bisogna essere un artista di una certa grandezza. Ci sono artisti che percepiamo come di gran successo, ma in realtà o non ce la fanno, o riescono appena ad andare in pari. E ora le cose stanno peggiorando per tutti. Di questo parlo nella canzone. In queste condizioni è solo l’ego che ti spinge a fare certe cose, anche se non l’ho capito subito, al tempo pensavo di investire nel futuro.

Fai l’album, lo promuovi e parti in tour: è una formula che non si mette neppure in discussione…
Ho visto anche qualche frutto: ogni volta che suonavo a Londra è stato in un posto migliore. C’è stata una crescita, ma non so se può succedere ancora. Penso che la classe media della musica sia finita, è una formula non più sostenibile.

In questo senso, Eat the Worm diventa un atto creativo di pura liberazione…
Esatto, per concepirlo dovevo far morire il modo in cui percepivo la mia carriera. Fino a Rare Birds (2018) ho fatto tutto nel modo convenzionale, solo per tornare a casa con le carte di credito da pagare; tutti avevano ricevuto uno stipendio eccetto me. L’ultimo album Dixie Blur è uscito nel momento esatto in cui è scoppiata la pandemia, con il tour annullato e tutto il resto. Così ho pensato: cosa sto facendo? Davvero ho bisogno di salire sul palco? Perché dovrei scrivere un altro album? Perché ho qualcosa da dire. E ciò non ha nulla a che vedere con le aspettative dei fan, degli amici o del music business o con il pensare di come presentare certe canzoni dal vivo.

A breve invece partirai di nuovo in tour con Roger Waters, Londra e Sud America. Sei diventato una parte importante dei suoi concerti.
Lo ero soprattutto nel primo tour perché aprivo lo show, e oltre suonare la chitarra, cantavo parecchio. Anche questa volta canterò ma non altrettanto, la scaletta è cambiata. Ormai sono sette anni che collaboriamo, tutto è iniziato quando Waters è venuto a fare il suo disco nel mio studio.

Ricordo che quando lo intervistai mi mise parecchia soggezione, ha un certo modo di fare e di parlare piuttosto imponente…
È anche una persona estremamente divertente. Puoi imparare parecchio da lui anche soltanto osservando il modo in cui fa le cose, in cui prende un’idea e la perfeziona. Io non so quale fosse l’atmosfera tra i Pink Floyd quando registrarono i loro album, ma considerata la personalità di Waters e il modo in cui controlla tutto, mi verrebbe da pensare che è stato lui il principale produttore.

Con chi stai lavorando ora come produttore, oltre Father John Misty?
Ho appena finito un album di un’artista australiana straordinaria, Grace Cummins: è pazzesca, devi ascoltarla. Poi ho lavorato con due sorelle chiamate Allie & AJ, hanno il vibe della California del Laurel Canyon. Fino a ieri, invece, qui c’era una delle coriste di Roger Waters impegnata in un album solista; questa settimana si è lavorato sei giorni pieni.

Parliamo dei video animati per Eat the Worm: formano un connubio speciale con le nuove canzoni e sono firmati da tua moglie, l’artista Andrea Nakhla…
L’idea è nata quando circa un anno fa siamo andati per caso a vedere uno show di animazione realizzato con l’intelligenza artificiale e ci è piaciuto parecchio. Così Andrea ha capito come utilizzare la tecnologia per animare i suoi disegni, attingendo anche dalla vasta conoscenza che ha in materia di pittori. Se non avesse usato l’AI ci sarebbero voluti mesi e migliaia di dollari per completare i video con i vecchi metodi. Ma la cosa pazzesca è che l’AI sta avanzando così velocemente che i programmi di cui si serve oggi, paragonati a quelli di mesi fa, sono completamente diversi; ora le illustrazioni non ci piacciono più, hanno l’estetica dei videogiochi. Per questo i primi video per i singoli Marzipan e Ol’ Father Time hanno un look completamente diverso dall’ultimo The Village Is Dead. Ma abbiamo voluto utilizzarlo lo stesso perché funziona bene con il significato della canzone.

Possiamo dire che oggi Jonathan Wilson è felice e creativamente del tutto liberato?
Assolutamente. Pensa che alle 4 di questa mattina mi stavo divertendo creando beat da canzoni house.

Sei serio?
Ecco cosa posso fare durante il tempo libero in tour con Roger: disco music alla Arthur Russell. Hai presente? Downtown Manhattan, inizio anni ’80, vibrazioni gay disco.

Sei sicuro di volere terminare l’intervista con questa nota?
Certo. È importante esplorare ogni spazio creativo (ride).

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