Fast Animals and Slow Kids: «Dopo il Covid, la musica interesserà ancora a qualcuno?» | Rolling Stone Italia
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Fast Animals and Slow Kids: «Dopo il Covid, la musica interesserà ancora a qualcuno?»

Se lo chiede Aimone Romizi in una nuova canzone intitolata ‘Come conchiglie’. Dopo aver sentito la mancanza di cose molto tangibili, chissà se sapremo ancora emozionarci per qualcosa di astratto

Fast Animals and Slow Kids: «Dopo il Covid, la musica interesserà ancora a qualcuno?»

Fast Animals and Slow Kids

Quando ho saputo che avrei intervistato Aimone Romizi, frontman e cantante dei Fast Animals and Slow Kids, la prima cosa che mi sono chiesto è stata in che modo, una band fisica come la loro, avesse vissuto finora la quarantena. Distanziamento sociale, assembramenti negati e zero concerti sono un po’ la kryptonite dei FASK, da sempre abituati a condividere la sala prove, i viaggi in furgone, il processo creativo e i live sudatissimi, col pubblico che urla mentre suonano e lo stage diving.

Una sorta di risposta è arrivata dalla nuova Come conchiglie, una canzone che esce oggi e che – come mi spiega Aimone – è stata scritta e composto a distanza, ognuno da casa sua. È una ballata ruvida, homemade, con alla base delle considerazioni strettamente personali di Romizi, delle visioni che ha avuto in questi giorni. Su tutte, una domanda: quando tutto questo sarà finito, “ci sarà ancora qualcuno all’ascolto?”.

Che significa questa domanda?
Riguarda un dubbio che mi è venuto in quarantena: una volta fuori, la musica e l’arte in generale interesseranno ancora a qualcuno? Me lo chiedo perché, stando a casa, sento che abbiamo perso il contatto con le piccole cose tangibili: scendere al bar, prendere un caffè. E magari, per ritrovarle, ci dimentichiamo del resto. Insomma: ci sarà ancora qualcuno che si emozionerà per le parole di una canzone, per una melodia? Ma anche in senso più ampio: saremo ancora capaci di emozionarci per l’astratto, per un tramonto? Io vivo di idee, di slanci emozionali… la domanda mi è venuta spontanea: avrò senso, io come artista, alla fine di tutto questo?

E che risposta ti sei dato?
Sì, ma in senso di sopravvivenza. Mi spiego. È stato un periodo che ho vissuto in maniera pessima questa quarantena, ma per motivi personali, per cose che mi sono successe. Mi è esploso un po’ il mondo, ecco. Per cui, sì, per me ci sarà ancora qualcuno all’ascolto, perché quel qualcuno sarò io: la musica è terapia. Di fronte all’ennesima batosta esistenziale, mi sono reso conto che non c’è soluzione per chi suona: chi suona, suonerà. E io, suonando, ascolterò quello che ho dentro, cercherò di esternarlo. Perché la musica è uno psicoterapeuta gratuito: ti fa buttare fuori quello che hai dentro, i problemi che hai; e le dici i segreti più profondi, alla musica, non hai pudori, perché è un concetto astratto. Poi, certo, quando scrivi una canzone puoi anche utilizzare forme più criptiche, ma alla base lo sfogo rimane. Confrontandomi anche con altri artisti, comunque, credo sia così per tutti: se uno fosse in pace con sé stesso non farebbe il musicista, perché non avrebbe un cazzo da dire. Per me la musica ha sempre avuto questa funzione, e così è stato anche in quarantena.

Nel pezzo li definisci giorni vuoti questi del lockdown.
Alcuni dei miei giorni lo sono stati, perlomeno. Non è andata malissimo, eh. Tutt’ora vivo a Perugia in una casa colonica, dove c’è la famiglia. Io sono con la mia ragazza, ma accanto o ai piani inferiori ho i miei fratelli, i miei genitori. Quindi, anche solo per fare qualche urlaccio, o parlare ognuno dal proprio balcone, la compagnia c’era. Però, ti dicevo, ci sono stati giorni in cui – per via delle cose che mi sono successe – non riuscivo a fare altro che sedermi e respirare. Non sapevo come muovermi: era una paralisi della testa, delle emozioni. All’inizio seguivo molto la faccenda Covid: numeri, fase 1, fase 2. Poi sono andato in sovraccarico. E quei giorni vuoti sono i giorni che ho perso… passandoli soltanto a respirare.

Però hai trovato comunque l’ispirazione per scrivere.
La canzone nasce in quel contesto, sì, ed è molto personale. Tant’è che abbiamo valutato a lungo, con i Fask, se pubblicarla o meno. Anche se non è la sola che abbiamo scritto in quarantena. Per il resto, è stata registrata in modo insolito: ognuno da casa propria, di notte, mezzo urlando e mezzo piangendo (ride, nda). Quando l’abbiamo mixata ci siamo resi conto che era talmente intensa, talmente specchio dei nostri sentimenti in quarantena, che andava pubblicata subito, perché magari fra un po’ non avremmo avuto neanche la forza di farla uscire. Così, invece, è stato come se ci fossimo liberati di quanto ci è accaduto. Ovviamente, come ogni altra canzone anche lei è figlia del suo tempo: è una terapia, e racconta una sensazione brutta che ho sentito in quarantena, che spero possa finire presto per lasciare spazio a un certo ottimismo di vivere. Insomma: non è la canzone della quarantena, ma un racconto di ciò che ho sentito in questi giorni.

E le conchiglie che c’entrano?
Lo spunto mi è venuto mentre rimettevo in ordine casa: ho trovato un barattolo di conchiglie che mi avevano portato le mie nipotine dalla Grecia e ho pensato che persino un oggetto così, apparentemente inutile, con una storia di affetto alle spalle diventa una cosa da conservare volentieri. Da lì ho iniziato a ragionarci su e ho capito che la cosa figa delle conchiglie è che sono un guscio protettivo: sono durissime, tutta integrità. Sono intime, ma si difendono a lungo, combattono la corrente prima di crollare. Come dovremmo essere tutti: crearci il nostro guscio. Il mio è la musica, credo.

Andiamo sul pratico: com’è stato, per un gruppo come il vostro, lavorare a distanza?
Una figata (ride, nda).

Avrei detto il contrario…
Sì, prima di farlo anche io pensavo il contrario. Invece è stato stimolante, perché pensavamo: chissà quando ci ricapiterà. Del resto, quando fai musica ogni novità è buona. Noi di solito condividiamo tutto – componiamo insieme, scriviamo insieme – mentre qui è stato tutto nuovo, perché ognuno ha dovuto risolvere le proprie difficoltà da sé. Per dirti: ero io, da solo, a casa mia a cantare davanti a un microfono e a una scheda audio, non c’erano gli altri a darmi una mano. Poi certo, ci tenevamo costantemente aggiornati per telefono, facevamo riunioni, ma è un altro conto. Abbiamo fatto tutto per conto nostro, il mix è di Jacopo (Gigliotti, bassista della band, nda) che è un fonico. Solo alla fine abbiamo passato il materiale a Matteo Cantaluppi, che aveva prodotto il nostro ultimo album, Animali notturni. Lui ha dato un’aggiustata al mix, ma il risultato è rimasto fatto in casa e ne siamo felici, perché racconta l’urgenza che c’è dietro a un pezzo così. Alcune parti di voce, per dirti, sono registrate male, gracchiano; ma era giusto rimanessero tali. Quando le canzoni nascono istintivamente, l’errore tecnico diventa la vera magia.

Ti sei immaginato come sarà la musica post pandemia?
Penso dipenderà da come ciascun artista ha vissuto la quarantena. Da una parte, è vero, eravamo tutti uniti, tutti in casa, in una situazione storicamente mai così assurda. Dall’altra, ognuno l’ha passata a modo suo: chi era da solo, chi con la fidanzata, chi con i figli. Ognuno, a livello artistico, racconterà la sua versione. Nel mio caso, ti dicevo, è stato un chiudermi a riccio di fronte a problemi personali. Però, per esempio, ho già sentito canzoni di altri artisti che invece sono molto descrittive: “non posso uscire”, “non possiamo incontrarci”, “non posso bermi un caffè al bar”, tutti elementi che nei miei testi, per ora, non ho preso in considerazione. Però il mio, ripeto, è stato un lockdown atipico. Comunque credo che la musica continuerà ad avere il solito ruolo: spingere alla riflessione, fare terapia. Le canzoni stimolano, ti attivano il cervello, e lo fanno in maniera differente rispetto al resto. Sono una sorta di auto-processo: basta una frase, una soltanto, ed entri immediatamente in contatto con una parte di te stesso.

A proposito di contatti. A un certo punto del pezzo dici: “Chi l’ha detto che fa male stare ore al cellulare?”.
Lì, in generale, mi riferisco al trascorrere intere giornate al cellulare. Che è una cosa che è successa anche a me questi giorni: un po’ giocavo ai giochini, un po’ osservavo quello che facevano gli altri, un po’ ascoltavo musica. A un certo punto ho pensato: perché mi devo sentire in colpa a stare tutto il giorno al cellulare? Tanto la vita reale, durante il lockdown, è tutta lì. Il telefono ci ha aiutati a tenerci in contatto, a non sentirci dispersi.

Quindi non ti riferivi alle dirette su Instagram.
Per fare un concerto, aspetteremo che ci si possa riabbracciare. Chiaro: non sappiamo le conseguenze che tutto questo può comportare nell’animo di un musicista appassionato di concerti come lo sono io. Nel senso: magari ci ritroviamo prima di quanto immagino a fare un concerto su Instagram, perché abbiamo troppa voglia di suonare. Può anche essere persino una forma figa, non lo escludo. Ma sarebbe comunque un palliativo: quello che aspettiamo tutti è di connetterci di nuovo con gli altri, suonare con qualcuno che urla un pezzo accanto a te. Per me l’ambiente che si crea a un concerto è impagabile, e mi manca tantissimo. D’altronde io sono uno che va tantissimo ai concerti anche come spettatore.

Rischiamo un anno senza live.
Eh, sarebbe una bella botta. E, appunto, non lo dico solo per i FASK, ma proprio come fruitore di musica dal vivo. Io vado ai concerti per stare con la gente, per fare assembramenti con persone che hanno le mie stesse passioni. Per questo ti dico che, in termini assoluti, noi aspettiamo di suonare dal vivo come-dal-vivo-si-suona. Un concerto in drive-in magari lo potrei anche fare, se fosse l’unico modo per accontentare la mia voglia di suonare. Ma – perdona la sincerità – penserei comunque che sia uno schifo.

La quarantena ha interrotto qualcosa?
Eravamo nel mezzo del tour di Animali notturni: Alcatraz di Milano sold out, Atlantico di Roma quasi – numeri grossi, quindi. A noi l’attività dal vivo porta sempre via un sacco di tempo, perché trascorriamo tutto il giorno in sala prove. Poi avevamo messo in piedi anche dei concerti più lunghi e strutturati del solito: figurati, siamo partiti anni fa che prima di ogni data mi facevo prestare la chitarra perché non ne avevo una, mentre adesso abbiamo una produzione di dodici persone dietro e un repertorio da cui pescare. E poi mi mancano tanto anche i FASK: suoniamo insieme da quasi vent’anni, anche da prima che nascesse la band, e passiamo tanto tempo insieme, condividiamo tutto. Per me Jacopo, Alessandro e Alessio sono persone con cui, di fatto, vivo. Tutto questo per dire che, sì, stiamo vivendo un bel blocco.

Sarebbe bello avere delle risposte su come ripartire.
È quello che chiediamo. Il problema è la disparità di trattamento che il nostro settore sta subendo e che lo intristisce: non è questione di aiuti, o comunque non solo; è che siamo in un gap legislativo, ma dobbiamo capire cosa fare. Al di là di tutto, il nostro è un lavoro: con la musica noi viviamo, facciamo la spesa ecc. Poi figurati: i FASK sono ancora dei grandi operai del rock’n’roll, mica degli imprenditori (ride, nda). La sostenibilità è importante, ecco. Per fortuna noi musicisti abbiamo almeno un palliativo che gli altri lavoratori non hanno, ovvero che possiamo comunque rifugiarci nel nostro stesso lavoro. È una situazione ibrida: adesso, per esempio, non possiamo svolgere appieno il nostro mestiere, ma la parte che possiamo svolgere – anche da soli – è comunque potentissima.

Scrivere canzoni.
Esatto. E per questo dico che è giusto, in un momento come questo, continuare a scriverne e pubblicarle, come abbiamo fatto anche noi. Serve a far capire che si può lavorare lo stesso. Non importa come, ci si adatta, anche a distanza. L’importante è rimanere concentrati: sulla musica, sui suoni, sulla comunicazione.

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