I primi brani di Mentre Los Angeles brucia li sento nell’auto di Paola Zukar, la manager di Fabri Fibra (ma anche di Marracash, Madame e Tiziano Ferro). Ne ascolto solo alcuni, il disco è ancora top secret e la Sony ha paura di far girare l’ascolto anche ai più fidati. Scorrono i vari featuring, da Joan Thiele a Gaia, da Noyz Narcos a Massimo Pericolo, e mostrano il lato più giocoso e cazzone che conosciamo di Fibra. Come ultima traccia, però, Paola cambia registro e fa partire Tutto andrà bene, un pezzo densissimo che racconta di revenge porn, bullismo e suicidio attraverso due fatti di cronaca. «C’è qualcosa di molto personale in questo album, Fabri è carico», chiosa la manager.
Quando arrivo in Sony per l’ascolto completo dell’album (avrò una e una sola occasione per entrare nelle fitte 17 tracce di Mentre Los Angeles brucia) l’ufficio stampa mi ripete qualcosa di simile: «Sentirai, è un disco che dice delle cose che Fibra non ha mai detto». Come in un mantra comune, il team attorno al rapper sta provando a materializzare il pensiero magico che Fabri Fibra ha ancora qualcosa da dire.

Foto: Francis Delacroix. Outfit: Bomber Richmond, T-Shirt Dickies
Dopo 11 dischi solisti è difficile raccontare un artista. Soprattutto se questo artista ha passato gli ultimi vent’anni (almeno) a dir tutto di sé, dentro e fuori dalla sua musica, nel modo più esplicito possibile. L’adolescenza disastrosa, la situazione familiare, il poco amor proprio, il rapporto con l’altro sesso, tutto è già apparso con ferocia (anche autoironica) dai tempi di Mr. Simpatia nel 2004, un album che a proposito del privato dell’artista lasciava ben poco all’immaginazione. E poi con il successivo Tradimento, con il quale il grande pubblico italiano è entrato in contatto con il Fibra più violento, volgare, dissacrante. Per prendersi gioco dell’Italia e degli italiani ha prima dovuto percularsi da solo nel modo peggiore con il risultato che ora – dopo aver detto tutto con estrema violenza lessicale – ci si chiede se sia possibile che abbia altro da dire.
È una domanda che mi faccio seduto in un piccolo studio in Sony mentre ascolto il disco. Quando la tracklist arriva al lato B so la risposta. Arrivato alla soglia dei 50 anni (numero che quando ripete è sempre seguito dall’incredulità del sopravvissuto) Fabri Fibra ha deciso che era il momento di parlare anche di altro. Certo, Mentre Los Angeles brucia per gran parte è fedele alla filosofia del suo autore di alternare critica sociale e rap game, ma in alcuni punti tocca una violenza simile a quella di Mr. Simpatia, ma con moto opposto, non più verso il folle mondo esterno, ma dentro gli abissi emotivi dell’uomo. Per farlo Fabri Fibra non ha dovuto solo emanciparsi uccidendo un padre, cosa che avviene in Mio padre (“mio padre è morto, non l’ho mai visto sorridere / fanculo, come se della sua vita non avesse avuto tutto / eppur son qui che ancora ne parlo / come se fossi incastrato nel passato, un ostaggio / che potevo diventare padre anch’io c’hai mai pensato? / questa qui la dedico a mio padre, tempo sprecato”), ma anche la sua stessa possibilità di diventare padre in Figlio, lettera aperta al figlio mai avuto (“al figlio che mai avrò tieniti lontano dall’alcol / ti renderà più lento e stupido come me in questo momento”).
Lo odieranno, lo ameranno, lo criticheranno. A Fabrizio, comunque, come sempre, non importerà nulla, tanto lui sa già che per questo disco «c’è chi sarà gasato e chi romperà i coglioni, e più ci sarà gente gasata, più ci sarà chi romperà i coglioni» e che alla fine ’sta cosa del rap non è ancora stata capita da tutti. In fondo quando lui ha iniziato i padri del rapper lo avevano già abbandonato, lasciandolo (quasi) da solo a tirare la carretta del rap fuori dall’oscurità di inizio millennio. Al rap ha dato tutta la vita, “al lavoro che diventa un’ossessione, quasi una religione” come canta nel disco, diventandone padre e prendendosi cura dei figli arrivati grazie alle porte che ha aperto con Applausi per Fibra del 2006.
Ora, quasi 20 anni dopo, ci troviamo faccia a faccia seduti su un divano sul set dove è stata appena scattata la foto di questa copertina. «Ho preso tutto il tempo che serve per quest’intervista», racconta. È la prima e Fabrizio sa l’importanza di continuare a lavorare affinché quel pensiero magico diventi materia di racconto. Quella che state per leggere è il risultato di una conversazione lunga un’ora e mezza tra un padre e un figlio del rap italiano.
Come arrivi a questo disco? Tutto il team attorno a te continua a ripetere «è carico come ai tempi di Tradimento».
Credo molto in questo disco, è un disco sul pezzo, moderno in quanto a contenuti. È molto 2025. Sono appena uscito da una settimana di prove per il tour (che inizierà il 3 luglio a Trento per concludersi l’1 ottobre al Forum di Milano, ndr) e ora ho l’esigenza di fare interviste, raccontarlo.

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Immagino negli anni sia cambiato molto il modo in cui vivi l’uscita di un album, il drammatico momento della promo.
Ai tempi dell’autoproduzione quando facevo un disco mentre ne aspettavo l’uscita andavo avanti con la mia vita, a quei tempi lavoravo. Poi ho vissuto il periodo in cui questa cosa del rap non esisteva ancora; lì ho vissuto delle promo infelici dove nessuno sapeva di che cazzo stessi parlando. Questa invece è una parte della storia in cui sento che l’argomento è più compreso.
Sicuro che sia compreso?
Non è del tutto compreso, però è di sicuro più compreso. O perlomeno c’è voglia di capirlo e non è più dato per scontato che il rap sia una cosa momentanea. Son curioso di sapere cosa ne penserà la gente dell’album, anche se da un lato credo già di saperlo. E dall’altro non me ne frega niente.
E cosa pensi diranno?
C’è chi sarà gasato e chi romperà i coglioni, e più ci sarà gente gasata, più ci sarà chi romperà i coglioni (ride).
Visto che sai cosa la gente penserà del tuo lavoro, quando scrivi pensi a un possibile pubblico?
Non premedito, vedo ciò che esce. Io scrivo direttamente sulle basi. Su dieci pezzi che finisco, tra quelli che escludo e quelli che sono più deboli, di buoni me ne restano due o tre. E così riparto a scrivere fino a che non ho un disco. Poi se sono fortunato ci sono anche dei singoli in mezzo a quei brani, ma nel caso mancassero devo pensare a fare qualcosa che presenti quell’album, qualcosa che funga da apripista.
Qualcosa di più pensato?
Direi di più mirato.
Eppure sai che hai un pubblico che ti attende, questo inciderà.
Quello che scrivo è al 95% istinto. Poi certo devi strizzare l’occhio almeno in uno o due episodi al mercato, in questo caso mi riferisco ai due singoli usciti, quello con Tredici Pietro e quello con Nerissima Serpe e Papa V.
In Mentre Los Angeles brucia mi pare che ci siano richiami alle tue primissime cose. È stato quel tuo istinto a riportarti lì?
È vero, anche io ci sento un po’ di Sindrome di fine millennio, un po’ di Mr. Simpatia, ma anche un po’ di Turbe giovanili. Sento che certi episodi sono un’evoluzione di quel periodo.
Vuoi farmi degli esempi?
La poetica di Cometa mi ricorda un po’ di quella di Sindrome, mentre la title track, anche per il beat, sembra un pezzo di Turbe. Figlio, la canzone al figlio che mai avrò, mi rimanda a Momenti no di Mr. Simpatia per quella voglia di scrivere un pezzo fregandomene del mercato.
Fregartene del mercato è stato spesso il tuo approccio al mercato.
Siamo qua per cosa fare? Qual è il senso di tutto questo se devi star sempre dietro alle regole? Ho la strumentale, il microfono, la motivazione, il foglio e la penna: fammi andare cazzo, fammi vedere che cosa viene fuori.
Ti sento molto ispirato.
Sì, è vero. In questo album ci sono cose che non avevo mai detto o che pensavo che erano da dire. Non volevo far cose che avevo già fatto. Dopo Figlio sono tornato a casa e ho pensato: cazzo, ho scritto una roba figa senza guardare i fan, il mercato, il contratto. Perché dovrei pormi un limite? Non me ne frega niente se piacerà o no, perché so che stavolta ho fatto delle cose che mi hanno dato una vibra. Probabilmente con Caos volevo dimostrare a quelli della Sony che avevano fatto bene a firmarmi per due dischi, che avevo ancora cose da dire.
Fa quasi strano pensare che Fabri Fibra, dopo 20 anni in major, abbia ancora bisogno di dimostrare.
Sony mi ha firmato per due dischi dopo un best of e Stavo pensando a te, un brano spartiacque nella mia carriera. Entrare in Sony dopo dieci anni di Universal è stato giusto perché avevo bisogno di cambiamento, ma pensavo che molti da me lì si aspettassero solo le hit.
Non penso che il pubblico immagini questi retroscena, di te che devi farti certi pensieri sui contratti e che, comunque, anche i contratti di Fibra scadono e magari possono non essere rinnovati. Tu nella tua musica però ne parli spesso, l’album in fondo inizia così, con “un brindisi al mio ultimo disco in major”.
È importante che noti questa cosa: io parlo tanto di contratti nei pezzi perché ogni volta che ne ho firmato uno ho tirato un sospiro di sollievo. Ora è più scontato, ma non è comunque sicuro. Do peso ai contratti perché vengo da un periodo in cui quando andavi alle jam e se c’era uno che aveva firmato era una mosca bianca. Era quello che ce l’aveva fatta, il calciatore entrato nella grande squadra. Ora il termometro sono i social, bastano dei numeri e un’etichetta ti firma. Ai tempi per avere un contratto dovevi sperare che un discografico si presentasse durante un tuo concerto con del pubblico entusiasta, come fossimo nel film sui Doors.

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Immagino fosse anche difficile, quando hai iniziato, immaginare il rap avrebbe potuto invecchiare. La generazione prima di voi ha mollato e voi pochi sopravvissuti al crollo post golden age siete dei sopravvissuti, i pionieri di cosa accadrà. Qualche tempo fa ci si chiedeva: si può rappare ancora e essere credibili a 50 anni? Il rap potrà mai essere adulto? In America non c’è mai stata quest’ansia, ma qui non eravamo così sicuri potesse accadere.
L’Italia è un paese fondato sulla musica leggera. Il rap italiano non è rispettato come gli altri generi perché non fa parte della tradizione italiana. Però in questo momento tutti stanno facendo i soldi con il rap italiano. E quando dico tutti intendo proprio tutti, chi lo ama e chi lo odia. Tutti usano il rap per riempire un contenuto o dire qualcosa in un’intervista: da Cristiana Capotondi che parla male della trap a Manuel Agnelli che dice che il rap fa schifo. Tutti usano il rap a loro vantaggio. Quando Snoop Dogg ha superato i 50 e ha continuato a fare rap l’hanno considerata un’evoluzione naturale perché il rap è un movimento in cui ci sono sempre giovani cresciuti con le generazioni precedenti. Kanye West ha quasi 50 anni, ma non ho mai sentito nessuno chiedergli: «Ehi Kanye, ma a 50 anni ancora rappi?». Lì c’è tutto un movimento, un lascito, la curiosità di sapere cosa accadrà dopo.
E cosa ne pensi del rap italiano come movimento?
Il rap italiano è l’unico movimento musicale ad aver creato un filo conduttore nel nostro Paese. Il rock italiano non l’ha fatto: in giro non trovi figli dei Litfiba, di Vasco, di Ligabue, dei Verdena. Il rap invece ce l’ha fatta; io son figlio di Neffa e dei Sangue Misto così come Salmo, che sta ispirando le generazioni successive, è figlio mio come ha raccontato in qualche intervista. Guè è figlio degli Articolo 31 e lui e i Club Dogo hanno ispirato gente come Emis Killa. E così via. I rapper fanno parte di un movimento e questo movimento cresce, invecchia, matura insieme a te con la curiosità di vedere cosa c’è dopo e di vedere quello che hai lasciato. È la cosa più contemporanea e ribelle capitata all’Italia. Ed è strano che porti ’sta ribellione con me ancora a 50 anni quando l’Italia è un Paese che dopo i 40 anni ti castra, ti chiude in un ufficio, in una famiglia, in uno schema. Ecco: il rap ha rotto gli schemi.
Un paese che fino ai 35 ti reputa giovane e ai 40 ti reputa vecchio. Continuando sulla questione movimento, in questo disco ci sono parecchie frecciate ai giovani del rap sin dal brano d’apertura. Tu e Noyz li colpite con uno Sbang, Marracash ci aveva pensato con un Power Slap. La vostra generazione sta dando parecchi schiaffetti correttivi a quelle successive.
Senza competizione non ci sarebbe gara e quindi pubblico. E il pubblico vuole questo: vuole vedere se ci tieni, se lotti per il tuo spazio.
Mi sembra che ci sia anche qualcos’altro rispetto alla competizione. C’è una critica al contenuto.
Mi stupirei se le nuove generazioni mettessero nel rap una certa profondità perché la profondità oggi non esiste. Non sarebbero credibili. Sono superficiali, certo, ma sono credibili perché là fuori è tutto capitalismo sfrenato, dalla moda ai social. Tutte quelle stronzate a cui la società moderna ti costringe per essere accettato dal gruppo; tutto questo finisce nelle loro canzoni. Io non posso dire che figata: io criticando i rapper moderni critico la società, non i rapper moderni di per sé. I rapper sono la società.
Quando il rap è arrivato anche qua da noi nei ’90 c’è stata una grande difficoltà da parte dei pionieri a creare un ponte, una connessione con le generazioni successive. Era come se volessero tenere il genere per sé, mettendo dei limiti decisi e degli argini. Ora da parte vostra verso chi arriva ci sono critiche, vero, ma mi pare anche ci sia la voglia di provare un dialogo. Senti il dovere tramandare qualcosa in particolare?
Non è che deve esserci la volontà di tramandare qualcosa, già il fatto di aver fatto un disco significa aver lasciato qualcosa, aver segnato una strada. Molti artisti non difendono nemmeno i loro dischi più vecchi però quei dischi ci sono, hanno già creato e lasciato qualcosa. È la musica che fa il suo corso, la cosa non dipende neanche più da te. Dopo quella prima ondata nei ’90 in realtà c’è stato subito un collasso generale, nel ’95/96. I CD non venivano più comprati, la musica veniva scaricata illegalmente; non esisteva il futuro. E c’è stato un vuoto totale dopo la golden age, diciamo un vuoto durato dieci anni dal ’96 al 2006. Poi nel mercato è stato trovato il modo per rivendere musica e siamo ripartiti. Comunque, di cosa stiamo parlando? Oggi la musica è gratis.
È piuttosto ironico che la soluzione trovata dal mercato per ripartire sia stata dire che la musica non doveva essere pagata.
Se guardiamo il mercato di oggi, la musica è gratis. Nessuno la propone, non c’è più un vero racconto della musica. Il mercato musicale italiano oggi è Instagram. Tutto deve andare su Instagram: chiudesse Instagram si andrebbe incontro a un altro collasso.
Altra ironia: Instagram non è una piattaforma pensata, nelle sue funzioni, per la musica e l’audio.
Instagram è la vetrina di un negozio di dischi mondiale.
Dove non si vendono i dischi.
(Ride) È un negozio di dischi dove entri e ti regalano i dischi. Nasci, suoni, muori. Far musica oggi significa rimanere al passo con la tecnologia, con l’esposizione richiesta dalle piattaforme. Devi farti vedere ovunque, con le grafiche differenziate, e così tutti impazziscono a fare mille foto diverse per delle piattaforme dove la tua musica è…
Gratis.
Esatto. È come una barca che si riempie sempre più di acqua e per quanto provi a togliere rimani sempre lì con l’acqua alla gola, capito?
Un’immagine piuttosto rassicurante.
Però sai perché la golden age è importante e rimarrà nella storia?
Vai.
Perché è stato l’ultimo momento dove la musica si pagava e chi riusciva a venderla era visto come una divinità. Convincere qualcuno a prendere l’auto e andare a comprare il disco è il motivo per cui molti artisti sono conosciuti ancora adesso. Oggi che la musica è gratis tutti possono farla, ma è molto più facile sparire.
Arrivo da una provincia in cui nei negozi di dischi dell’epoca non c’erano i vostri album. Quindi con gli amici attendevamo di aver abbastanza soldi per far colletta per dividerci le spese di spedizione e ordinare i dischi da Vibrarecords. Ti svelo il mio primo ordine perché lo ricordo a memoria: Background e Rapper italiano di Bassi Maestro e il tuo Turbe giovanili.
Ma pensa te! Di che anni parliamo 2002/2003?
Sì, più o meno siamo lì, i miei tempi delle superiori. Ogni volta dovevi aspettare di avere 50 o 60 carte, ordinare, attendere…
Però te lo ricordi perché avevi fatto quello sbattimento, c’era un’esperienza. E immagino che quei dischi tu li sappia a memoria.

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Certo, avevo solo quelli e li ascoltavo a ripetizione. Da Turbe però sono usciti altri dieci tuoi dischi solisti, e gli anni di carriera sono quasi una trentina. C’è ancora in te quella paura che tutto possa finire? Tu che sei arrivato partendo dal lato più buio della storia del rap in Italia convivi ancora con quel fantasma?
Credo di essere quello che ha rischiato e rischia ancora più di tutti. Come argomenti, video, strategia, approccio con la stampa. Quindi il discorso di farcela o non farcela passa quasi in secondo piano. Sono sempre stato un cazzo di ribelle. La mia roba va perché è interessante, perché sono sempre al limite. Non ho mai fatto particolari scelte per vendere. Ho sempre voluto veder dove potevo arrivare, non ho mai fatto in modo che la mia musica arrivasse sempre più in là, è il mercato che è andato sempre più in là. Io cerco solo di adattarmi a quello che succede, ma sono pronto a qualunque scenario perché ci sono già passato e per me sarebbe semplicemente un ritornare a far qualcosa che ho già fatto in passato, non mi dispiacerebbe. Non mi dispiace da dove vengo.
Cosa ti ha portato a rischiare così tanto?
La mia scintilla nasce dal non volermi conformare alle regole. Sarà una mentalità da provincia, sarà che quando sono arrivato nessuno voleva ’sta cosa e per questo sapevo di dover essere davvero di rottura. Sono stato il primo a riaprire il mercato e per farlo ho dovuto dire “mangiavo lucertole aperte da ragazzino” in Applausi per Fibra o annunciare la mia morte nel video di Mal di stomaco. Ho rischiato tantissimo, la gente poteva tranquillamente dire «questo è pazzo io non lo seguo», eppure questa cosa ha incuriosito. Ma quando son arrivato non la volevano, non la capivano, non ci credevano.
E poi?
E poi ho portato il rap al primo posto in classifica e da lì i numeri hanno riacceso l’interesse. Non era un interesse per i testi, non è stato il testo su Erika e Omar per dirti, ma è stato per il fatto che il testo su Erika e Omar era primo in classifica. E da quel momento tutti con la penna in mano per far firmare contratti a chi arrivava dopo di me. Questi hanno trovato la porta aperta, mentre io ho dovuto rischiare tantissimo.
Quando ho incontrato Paola Zukar per ascoltare i primi brani dell’album ci siamo fermati a parlare e abbiamo provato a dare delle definizioni ai grandi del rap italiano. Marracash è il rapper che dice cose di un certo peso, che piace anche al pubblico intellettuale. Guè invece è l’America in Italia. «E Fibra?», le ho chiesto. Abbiamo concordato che tu sei il rapper per antonomasia per gli italiani. Eppure è strano pensarlo se guardiamo a quello che dicevi, ovvero che non sei uno che ha fatto le cose in modo canonico, un esempio da seguire per chi veniva dopo: tu hai spinto tanto, tantissimo, soprattutto sui testi, le provocazioni, anche con scelte piuttosto folli, volendo anche violente. Qui ti sei fatto spazio a calci e sputi.
Io ho trovato il successo facendo un tipo di musica che rispecchiava la realtà. Sono stato il primo, e per questo ha funzionato. C’era la cronaca nera in tv, e io l’ho riportata in Tradimento. Quei pezzi smuovevano qualcosa. Quando Frankie ha fatto Fight da faida parlava delle stragi di Stato, della mafia e la gente si è riconosciuta. Quando sono usciti i Sangue Misto raccontavano di un periodo fatto di occupazioni, autogestioni, centro sociali e la gente ci si è rivista. Poi c’è stato un vuoto, quel collasso di cui parlavamo. E sono arrivato io portando tutte queste nuove tematiche, sporcandomi le mani sempre di più. E questo ha risvegliato le discografiche. Tutti i rapper dopo, nonostante avessero la strada spianata sul lato dei contratti, hanno dovuto comunque relazionarsi con me e trovare qualcosa di diverso, il loro posto, la propria espressione più credibile. Io sono stato il primo a farlo.
Mangiando una buona dose di merda, direi.
Non sai quanti titoli di giornale sono stati pubblicati contro la mia roba, mi hanno escluso dal Primo Maggio, mi odiavano tutti cazzo. Non mi volevano. Dava fastidio che la mia roba andasse al numero uno parlando dell’ossessione dei tg per i delitti, cosa che in fondo accade ancora oggi con Garlasco.
Pensi che ora ci sia un trattamento differente da parte dei media verso i rapper?
No, sta risuccedendo la stessa cosa ai rapper di seconda generazione che stanno avendo successo perché raccontano nei testi le difficoltà dei ragazzi di seconda generazione che non riescono a ottenere la cittadinanza, i cui genitori non riescono a inserirsi o ad aver stipendi dignitosi, e che vivono in case popolari trascurate in quartieri trascurati. Stanno avendo successo perché raccontano lo spaccato dell’Italia che in questo momento è nei telegiornali. Eppure gli puntano il dito contro e dicono: ecco, c’è la violenza nelle strade perché voi fate rap. No, c’è violenza nel rap perché il rap racconta le strade. È sempre stato così.
C’è ancora una certa resistenza.
Lo vedo nei commenti ai vostri post di Rolling Stone dove gli accaniti vorrebbero solo notizie su Kurt Cobain, Sex Pistols, Guns N’ Roses. Vivono in quel passato e questa roba non la accettano. Ma oggi c’è il rap italiano: il rap italiano è il nuovo rock, è la nuova serie A.
Già assaporo i commenti sotto questa intervista…
Il rap è la cosa più ribelle, tutti ne sono ipnotizzati perché dentro ci rivedi il telegiornale, le discoteche, la moda, la politica, l’attualità. Ci rivedi tutto.

Foto: Francis Delacroix. Outfit: Felpa Alpha Industries
È un periodo in cui sto riascoltando La grande truffa del rap dei Gente Guasta, album del 2000 che apre con la title track in cui tu partecipi come featuring. Nel brano Esa chiede ripetutamente “Chi è il miglior MC?”. Nel Dinamite Mixtape della tua crew Teste Mobili, altra chicchetta ordinata in cassetta da Vibra uscita poco dopo, il gioco continuava, con Esa a dichiarare “Forse è Fabri Fibra”, prima di una delle tue strofe più iconiche di quei tempi. Tu ti sei mai sentito il migliore?
Sinceramente non mi interessa. C’è chi lo pensa, sicuramente, e chi non lo pensa. Ma non mi è mai interessato essere il più bravo. Sai perché? Perché quella cosa non esiste. Ti dico cosa è importante per me: il rap italiano mi ha aiutato a emanciparmi, a reagire al bullismo, a vivere a Milano, ad aver amici, a vivere di fianco alla persona che amo. Il rap italiano mi ha dato una nuova identità, mi ha fatto conoscere persone interessanti come Roberto Saviano, mi ha fatto collaborare con Gino Paoli e Francesco Guccini. Il rap italiano ha fatto sì che il mio nome sia in un film di Greta Scarano. Mi ha dato tutto quello che non avrei mai avuto se non avessi conosciuto questa musica. Davanti a tutto questo non mi frega nulla di chi è il più bravo, penso di essere più avanti a quel concetto.
Mi sembra una bella dichiarazione d’amore al genere.
J-Ax dice una cosa fighissima: se fai tutto questo pensando solo al successo e ai numeri andrai in depressione perché primo o poi buchi. E quindi non penso al successo perché se lo facessi ho un fortissimo lato oscuro, un grossissimo vuoto dentro di me che mi ingoierebbe in un attimo. Ci sono passato con le droghe, con gli alcolici, ci finirei probabilmente con il cibo, con le frequentazioni. Questa cosa del rap mi aiuta a rimanere vivo. Però…
Dimmi.
In questi due anni sono stato tanto in studio e ci sono stati certi pomeriggi in cui ero in assoluto il più bravo. Marz mi ha detto che non aveva mai visto qualcuno scrivere certa roba in così poco tempo. Quando mandavo i provini a Pietrino (Chef P dei 2nd Roof, ndr) mi diceva che ero veramente ispirato. Poi logicamente quella roba ti passa perché se no non riusciresti a riconoscere quando non lo sei. Quella cosa arriva, torna, se ne va. In certi momenti credo di essere stato irraggiungibile (ride)… poi scendi e lo è qualcun altro. Ma il mio obiettivo è far pezzi che arrivino a chi ha bisogno. Come il pezzo sul bullismo (Tutto andrà bene, ndr), spero che arrivi nel buio della realtà di provincia e possa far compagnia a chi sta vivendo quel tipo di esperienza.
Da Mr. Simpatia in poi hai sempre provocato e spinto molto coi testi. In questo album però c’è una spinta altrettanto forte rivolta verso l’interno, forse come mai prima d’ora. Penso a due pezzi in particolare, Mio padre e Figlio, ma anche al già citato Tutto andrà bene. Brani che hanno una profondità violenta, viscerale. Nel primo mandi a fanculo tuo padre per essere stato una figura orrenda nella tua vita, nel secondo dedichi una lettera a un figlio mai avuto in cui sei molto duro con te stesso e le tue scelte passate e nel terzo, come dicevi, parli di revenge porn, bullismo, suicidio, attingendo da fatti di cronaca. Come è venuta l’idea di scrivere queste canzoni?
Perché non farle? Perché non provare a essere qualcosa di più? Oggi questa cosa della libertà di parola ha ucciso la libertà di parola, nel senso che tutti hanno paura di dir qualcosa perché tutti possono dirti qualcosa. E quindi pensi che non vuoi scrivere un pezzo su tuo padre perché chissà cosa poi pensano gli altri. Ma io mi chiedo: qual è il limite? Cosa non si può scrivere? Se non ti piace qualcosa non l’ascolti. Non c’è un limite nella scrittura, non è la vita reale. Nella vita reale ci sono limiti, nella scrittura no. E io voglio andare oltre per sapere cosa succede, cosa fa sentire, creare reazioni.
Ti sei chiesto perché arrivano in questo momento della tua vita e della tua carriera?
Secondo me questo è un momento storico in cui si va dall’estremo di una fortissima censura a questa totale libertà di parola, e quindi puoi osare un po’ di più per intavolare discussioni che là fuori mi pare la gente sia pronta ad affrontare. Sono cresciuto ascoltando gente che parlava di tossicodipendenza, di problemi familiari. Ho sempre ascoltato dischi di chi raccontava i cazzi propri e quando li ascoltavo ero grato a queste persone che si aprivano e mi raccontavano la loro vita, come se meritassi di partecipare a quella verità. E in qualche modo questa cosa mi consolava – per i cazzi miei, i miei problemi – e mi rendeva la situazione meno grave perché capivo quel disagio era condiviso.
E pensi ci sia ancora questa reale condivisione emotiva nella musica di oggi?
No, penso sia un po’ andata a perdersi perché gli artisti vogliono dire solo le cose che gli fanno fare bella figura. Anche quando provano a passare per quelli che soffrono, soffrono, certo, ma in maniera figa. Capito che intendo? Io invece voglio raccontare la sofferenza per quello che è. E nel momento in cui lo fai, anche solo il gesto è figo.

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L’album apre con il sample de L’avvelenata di Guccini. E se ci pensi quel brano nasce da quella storica recensione di Bertoncelli che, in estrema sintesi, diceva al cantautore qualcosa di opposto a quanto ci stiamo raccontando: a noi dei tuoi problemi e della tua intimità non frega nulla. Alla musica di quel periodo storico si chiedeva altro, prima di tutto impegno politico.
Sì, e gli dice anche di smettere che oramai non ha più nulla da dire.
Anche a te lo dicono da sempre. Ma come ci è finito Guccini nel tuo disco? Mi hanno anche fatto sentire un audio vocale in cui dà il suo benestare per il brano.
In quella mischia dove tutti parlavano di rap, Guccini disse in un’intervista che i rapper gli sembravano tutti uguali ma che io gli piacevo perché raccontavo cose diverse. Questo in estrema sintesi. E il senso de L’avvelenata è: se io avessi saputo che per un paio di persone che ti faranno i complimenti e per quei pochi soldi devi affrontare sto mare di merda ma col cazzo che l’avrei fatto! E quando l’ho sentita ho pensato: cazzo, è la mia storia (ride)!
E come corto circuito chiudi l’album con una nuova versione di uno dei tuoi brani più amati, Verso altri lidi, tratto da Sindrome di fine millennio. Ora capisco quando dicevi che una metà del tuo pubblico dirà che è una figata e l’altra che cazzo l’hai rifatta a fare. E quindi li anticipo e te lo chiedo io: perché l’hai rifatta?
Perché mi andava e perché alla fine il pezzo è mio e lo rifaccio come cazzo voglio (ride). L’ho riregistrata in studio esattamente con le stesse sporche dell’originale. Volevo far vedere che avevo ancora quello stesso entusiasmo. Verso altri lidi arriva dal ’99 e rifatta oggi nel 2025 è ancora attuale. Prendete voi un brano del ’99 e rifatelo: vediamo se è ancora attuale!
Visto che di Verso altri lidi è stato rifatto il beat, parliamo di produzione. Tu sei stato uno dei pochissimi, se non il solo, a parlare dell’enorme problema del rap italiano coi beatmaker…
Minchia sono un dramma, un cazzo di dramma…
Spiegaci meglio.
Io tutti quelli con cui sono partito li ho persi per strada; nessuno ha retto la botta. Non ho mai avuto il mio Don Joe. Ho sempre avuto gente che per esigenze o crisi scendeva dal treno. E ogni volta mi sono dovuto reinventare. Sono andato a New York a conoscere Amadeus, a Parigi per Medeline, ogni volta una cazzo di attraversata alla ricerca di un partner che potesse costruire il mio sound. E non l’ho mai trovato fino in fondo. Inizialmente mi trovavo bene con Fish, ma poi ognuno ha ripreso la sua strada. E da quel momento in poi ho sempre cercato e mai trovato.
E secondo te perché?
Forse perché sono arrivato a Milano che ero – passami il termine – già famoso e questo ha distorto le aspettative di chi si avvicinava. Avendo io fatto i numeri, loro volevano subito certi cachet o certi risultati, non arrivavano mai completamente onesti. Invece con Marz, Zef e Pietrino riesco a uscirci a cena assieme, a far serata, è da lì che nasce la musica. Con tutti gli altri ho fatto una cazzo di fatica. Qui però si sente che c’è un bel feeling tra di noi. Trovare un beat che ti faccia aver voglia di dire qualcosa, che abbia la capacità di avere un riscontro commerciale, andando d’accordo con chi quel beat lo produce è difficile; per quello la musica è speciale, perché questo non succede facilmente.

Foto: Francis Delacroix. Outfit: Cap New Era,
T-shirt GCDS
Qual è stata la scintilla che ha dato il via a questo album?
Ero in vacanza a Los Angeles. Avevo un hotel a Santa Monica. Pietrino era lì e gli ho scritto. Lui mi fa: «Posso portare il computer e ci sentiamo dei beat?». Sai come è finita? Che non siamo più usciti dall’hotel.
Anche Mentre Los Angeles brucia, come i precedenti, ha 17 pezzi in scaletta.
Sì, ma usciranno ancora cinque tracce bonus, tanto la musica è gratis!
Raccontami la storia dietro il titolo.
Avevo una quindicina di pezzi buoni, ma non avevo ancora il titolo. Ero in mezzo a una serie di traslochi perché avevo comprato casa e non l’avevano ancora finita di costruire. Abitavo in una di quelle classiche case milanesi dove la cucina e il soggiorno sono uniti. Io tornavo a casa dallo studio e di notte mi ascoltavo in soggiorno i provini in cuffia sul computer. E quelle notti sulla tv accesa giravano le immagini degli incendi di Los Angeles. Ascoltavo i pezzi e vedevo le scritte “Los Angeles in fiamme”. Da lì questa cosa è diventata quasi una routine: tornavo a casa, ascoltavo i provini e vedevo le immagini dell’incendio. Un giorno sul giornale leggo della morte di David Lynch. E l’articolo iniziava con “Mentre Los Angeles brucia…”: ecco il titolo! Mentre il mondo va a fuoco ognuno continua con la propria vita: io mixo il disco, tu porti tua figlia a cena. Oramai è talmente apocalittica la situazione che non c’è più nulla che supera quella soglia di attenzione che ti fa fermare a riflettere. È già tutto così oltre il limite che poi uno dice “vabbè, fammi andare a comprare la macchina nuova”. Siamo diventati completamente indifferenti.
È un titolo piuttosto poetico rispetto ai tuoi precedenti.
Sì, è un titolo da film, molto aperto. Ma avendo iniziato il disco a Los Angeles quando ho saputo degli incendi ho sentito che mi apparteneva. E poi Pietrino mi ha chiamato e mi ha detto che l’hotel dove avevamo sentito i beat stava andando a fuoco.
Ah, merda.
Tra l’altro pochi giorni fa ho avuto un déjà-vu.
Cioè?
Ero a casa, stavo ascoltando i mix definitivi e in tv cosa succede? Los Angeles brucia per gli scontri in piazza. E ho pensato che se non avessi fatto quel trasloco non avrei mai fatto questo disco così perché nella casa vecchia non guardavo mai la tv.
Magari devi rimanere in quella casa.
No, no, devo andarmene da questa casa, è infestata (ride).
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Photographer: Francis Delacroix
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Art Director: Alex Calcatelli per Leftloft
Fashion Editor: Francesca Piovano
Talent Personal Stylist: Nick Cerioni
Hair Stylist: Cristian Gambuti
Make Up Artist: Raffaele Schioppo per Making Beauty Management
Director/DOP: Ramon Branda per 24k Film
Camera Operator: Lorenzo Antonicelli
Photographer Assistant: Giovanni Viganò
Styling team: Marco Spagnuolo, Ilaria Taccini, Noemi Manago, Niko Prete, Nicolò Ruggeri