Eugenio Finardi: «Mi ferisce essere un outsider a 72 anni» | Rolling Stone Italia
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Eugenio Finardi: «Mi ferisce essere un outsider a 72 anni»

Il rimpianto di non essere diventato più ricco e popolare, l’ultimo (forse in tutti i sensi) album ‘Tutto’, la disciplina dei Beatles, la paura dei commenti sui social (già). Intervista a «uno che ha fatto tutto» e osserva perplesso «quest’epoca di stupidismo»

Eugenio Finardi: «Mi ferisce essere un outsider a 72 anni»

Eugenio Finardi

Foto: Fabrizio Fenucci

«Sai che ho comprato il primo numero di Rolling Stone? La versione statunitense. Acquistavo i giornali all’edicola americana, in Largo Cairoli. Prendevo pure Melody Maker e, prima, anche Billboard, ma poi non si è più comprato: non era rilevante per la musica alternativa».

Comincia così la chiacchierata con Eugenio Finardi, che ha pubblicato Tutto a 50 anni dal debutto Non gettate alcun oggetto dai finestrini. Staresti a parlargli per ore. Finardi è simpatico, accogliente e ci tiene a sottolineare come questo lavoro parli dell’oggi. Il 16 maggio, in concomitanza con l’uscita fisica del disco, parte pure il tour Tutto ’75-’25, in cui si ripercorrono le tappe della sua storia.

Partiamo da Tutto. Nel comunicato stampa c’è scritto che è il tuo nuovo disco, ma probabilmente anche l’ultimo. Perché?
Magari per scaramanzia (ride). Il penultimo è di 11 anni fa. Quindi, se vado con lo stesso ritmo, per il prossimo avrò 84 anni… Quindi se viene, dirò di aver mentito. Anzi, sarò molto contento di aver mentito.

Ma infatti ci sono tanti tuoi colleghi che a 90 anni fanno ancora concerti, quindi…
No, ma i concerti sono una cosa diversa, infatti non ho detto che è l’ultimo disco in assoluto. Potrei fare album dal vivo, colonne sonore, qualunque cosa, la Divina commedia dodecafonica. Però scrivere un intero album è veramente un parto.

Motivo?
Ormai non si fa più, anzi… i giovani raramente compongono.

In che senso?
Fanno una serie di singoli e li mettono in un disco. Ma concepire un album è una cosa che costa una fatica notevole. Io ho perso dieci chili per fare questo disco.

Addirittura.
È stato quasi maniacale. Cominciavo a lavorare alle 11, finivo alle 7 di sera e cenavo. Facevo prima colazione e cena, non mi veniva in mente di mangiare durante il resto della giornata: sia io che Giovanni “Giuvazza” Maggiore, il producer e compositore, eravamo totalmente presi dal disco. Ci siamo dati una disciplina come nel documentario sui Beatles Get Back. Mi ha ispirato alla loro etica lavorativa: andavano come si va in ufficio, senza scuse. A un certo punto arriva John Lennon a mezzogiorno, in acido, perso, con al seguito Yoko Ono. E Paul McCartney picchiettando l’orologio gli fa: «Si era detto alle 11». E allora ho cominciato a pensare che l’unico modo per tirare fuori un disco di inediti sensato, che non sia semplicemente un rimasticamento di vecchie cose, è ritrovando una disciplina. Se hai 20 anni la creatività sgorga come una fontana, a 50 anni è esperienza.

E a 70 anni?
Devi andare proprio a scavare sulla tua verità interiore. Molto spesso è nascosta in pezzi di passato. Infatti questo disco usa molti suoni di miei lavori precedenti. Io ho 19 album da cui attingere e di almeno 18 ho le tracce originali. Ho campionamenti di tutti i momenti della mia vita che posso usare. 

Quindi hai scavato molto dentro te stesso…
Sai, a 70 anni non trovi cose nuove, interpreti il passato, capisci il passato, gli errori, le intuizioni, i suoni. In un’era di campionamenti, di budget relativamente limitati, c’è la possibilità di attingere a questa immensa libreria sonora che si è aperta dal 2000 e poi. Cioè, tutti dicono che praticamente la musica è morta dal 2000. 

Ed è vero?
Un certo tipo di musica, la musica suonata, no? La batteria, per esempio, io non la reggo più, ma per questioni acustiche.

Cioè?
Sono diventato sordo. E la batteria fa troppo rumore. Non sento più bene per colpa della batteria: ce l’ho avuta alle spalle per 50 anni. Allora ho usato una batteria campionata. Tra le due batterie presenti nel disco, quella di tanto tempo fa si nota tantissimo, è quella di Trappole che è una canzone 1981, sono più di 40 anni…

Hai scavato nel tuo passato per questo disco: che cosa hai capito guardandoti indietro?
Cos’è, la famosa domanda: se tornassi indietro rifaresti tutto o cambiaresti qualcosa? 

No, vorrei  capire se c’è qualcosa di te che hai compreso meglio…
Be’, ho capito che è stato un lungo diario, una lunga confessione.

Di cosa?
Delle mie fragilità, delle utopie che ho vissuto, dei sogni, degli innamoramenti, anche musicali. Tieni conto che io prima metto la musica e poi le parole. E qui c’è da fare proprio un discorso anche sull’adesso, su com’è registrato il disco.

Prego.
Viviamo in un’epoca in cui la possibilità di creare certi suoni esiste per la prima volta. Le basse che si possono usare ora, e che uso in alcuni pezzi, non erano eseguibili prima da nessuno strumento, da un oscillatore forse. Adesso puoi realizzare tutto ciò che hai sognato se hai sognato le cose giuste.

E tu hai sognato le cose giuste?
Sì, ho sognato le cose giuste, ma a volte ho fatto anche delle grandi cazzate.

Qualche esempio?
Tante cose, comportamenti di vita che abbiamo fatto tutti in quell’epoca più o meno, senza dover approfondire ma puoi immaginare, diciamo…

Non immagino…
Esperienze che Keith Richards avrebbe condiviso, ecco, non so come dire.

Ok, capito. A parte questo?
Ho vissuto gli anni di piombo, il Parco Lambro, io ero all’isola di Wight, ho visto il penultimo concerto di Hendrix, ho visto nascere i Led Zeppelin. Io c’ero, capisci? C’ero per il discorso “I Have a Dream” di Martin Luther King, c’ero per l’uccisione di Kennedy, c’ero per il delitto Moro, per la bomba di Piazza Fontana, anzi ero molto vicino, ero dietro al Teatro Lirico. 

Tutte queste ricordi li troviamo nel disco?
In piccole pieghe. Magari in un angolo di una canzone c’è qualcosa, parole dure di violenza. E non hanno bisogno di altre spiegazioni.

EUGENIO FINARDI - FUTURO

In Futuro citi la tua Extraterrestre. Dici che non esistono gli alieni che ci vengono a salvare, ma l’unica speranza è nell’intelligenza artificiale. Sei disilluso dall’oggi?
Sì, assolutamente sì: stiamo vivendo un’epoca di stupidismo incredibile, basterebbe vedere solo quello che stiamo facendo al pianeta. Abbiamo il potere degli dei ed è pericolosissimo. Il pianeta deve essere la prima istanza, e anche llunica in un certo senso, non mi capacito del fatto che nessuno critichi un modello palesemente basato sulla continua crescita, porta all’uccisione del pianeta, non c’è cazzo da fare. Non è una cosa ideologica, è fattuale.

Dai l’esempio per salvaguardare il pianeta?
Mi rendo conto di essere di una generazione che ha consumato molto. Ho visto nascere la plastica, mi ricordo le prime pubblicità. Prima di me non c’era la plastica, ti rendi conto di cosa cazzo è successo nell’arco di una vita di un pirla qualunque? È una cosa assurda, è pazzesco.

 Cerco, per esempio, di riciclare con estrema attenzione, mangio carne il meno possibile perché è una delle grandi fonti di inquinamento del pianeta, cerco di usare legno di riciclo, legno di piante coltivabili facilmente, cerco di guidare una macchina ibrida, cose banali.

Torniamo a Futuro dove canti di “non sentirsi mai più strani”. Tu che sei stato sempre uno controcorrente, non credi ci sia il rischio dell’omologazione?
Sì, però sentirsi strani è diventata una tragedia generazionale. Nella canzone quando dico “sentirsi strani” intendo qualcuno che si taglia o che viene umiliato dai social o ha paura di entrarci. C’è una generazione molto fragile là fuori, esposta a violenze psicologiche. Sei il primo che mi ha fatto questa domanda, ma in realtà quello che citi è uno dei versi più importanti di tutto il disco, è proprio “non sentirsi mai più strani” (lo canta, nda).



E dell’IA e dell’avanzamento tecnologico che mi dici?
Prendi quella frase del comunicato stampa: i giovani creano il futuro e gli adulti lo subiscono, i vecchi lo sognano. Io sto parlando di come saremo fra 200 anni. Hai visto Lei

Quel film bellissimo con Joaquin Phoenix, no?
Sì, con la voce di Scarlett Johansson. Succederà così, l’IA ci sedurrà, ci capirà meglio di quanto noi capiamo noi stessi e, a un certo punto, prenderà il potere. Come già succede nelle operazioni chirurgiche. So che non è molto poetico, però sono stato operato tempo fa e mi hanno chiesto se volevo un chirurgo o un computer. Il chirurgo che mi doveva operare mi ha detto che lui avrebbe scelto il computer. Così mi sono fatto operare dal computer con la supervisione del chirurgo. Del resto il computer non ha bevuto la sera prima, non ha litigato con la moglie, non ha il diabete o un inizio di Alzheimer, hai capito cosa voglio dire? 

Certamente.
È un po’ come adesso: ci si spaventa tanto per l’arte, per la capacità dell’intelligenza artificiale di creare immagini, o canzoni, o cose. Addirittura io l’ho affrontata nel disco questa cosa.

Vale a dire?
Che ho studiato bene quello che l’intelligenza artificiale sa fare, scrivendo  cose che ho capito non può ancora realizzare.

Cosa non può fare, allora?

Un pezzo musicale in 7/4. In questo momento storico non è capace. Tra due anni magari, lo sarà Non avrebbe mai potuto raggiungere le note di “Francesca sogna, Francesca sogna il maaaaaare” (canta il brano Francesca sogna, ndr).

Ecco, hai appena intonato il brano in cui duetti con tua figlia Francesca, in arte Pixel. Com’è stato lavorare con lei?
Molto strano, c’è stata una cesura netta a un certo punto.

In che senso?
Lei ha 25 anni, non conosce la mia generazione, anche se ci sono alcune cose che ricorda della mia carriera perché legate alla sua infanzia. Anche lei è nell’ambiente musicale, in un’etichetta dove cercano questi ragazzi, tipo Crauto Marcio, per dire un nome inventato…

Perché cesura?
Perché il digitale ha portato a un nuovo orizzonte sonoro, con molti più colori a disposizione. 

Francesca Sogna (feat. Pixel)

Lavorando con tua figlia si è un po’ creato quello che dici nel brano La battaglia, una lotta di entrambi per l’indipendenza?
Sì, infatti la parte di mia figlia l’hanno fatta lei e Giuvazza, io sono stato lontano. Ho capito che lei preferiva così, aveva la sua idea di come farlo e Giuvazza, anche se lavora con me da 14 anni, è un produttore anagraficamente più vicino a lei. Hai sentito i suoni del disco: sono molto creativi, fuori dall’usuale.

Alcuni momenti mi sono sembrati un po’ cupi…
Sono i pezzi che io chiamo alla Tim Burton. La canzone La mano di uno che sa ha questo arpeggio iniziale, leggermente inquietante, noi lo chiamavamo l’impietanza. Poi l’assolo di Tanto tempo fa, sembra una citazione dei Guns N’ Roses, fino a che non entra in un passaggio strano, che turba un po’, no?

Esatto.
Hai provato esattamente quello che volevo tu provassi. 

Ritorno sulla canzone La battaglia. Descrivi il rapporto genitore-figlio come quello di due persone che hanno attraversato una lunghissima battaglia. Che padre pensi di essere stato?
Una volta pensavo di essere un ottimo padre.

Invece?
Mi rendo conto di aver fatto tanti sbagli, sbagli stupidi. Magari anche per il mio mestiere. A volte mia figlia avrebbe preferito avere un padre più normale, uno come tutti gli altri, no? Questa è una cosa che tutti i figli di famosi dicono, a parte quelli che fanno lo stesso mestiere.

Cosa dicono?
Che dà un po’ fastidio, te lo assicuro.

Tu hai tre figli Francesca, Elettra ed Emanuele. Che approcci hai avuto con ciascuno di loro?
La  mia primogenita, Elettra, è una persona con la sindrome di down. 

Sì, lo so.
E quindi l’approccio era completamente diverso, ed essendo la prima figlia, in un certo senso è stato quasi più facile, perché i bambini con la sindrome di down sono molto buoni. E poi, nove anni dopo, quando è nato Emanuele, purtroppo io e sua madre ci siamo lasciati. Quindi l’ho visto crescere poco, ed è un peccato, perché credo che in questo momento sia molto difficile crescere maschi. Anche se Emanuele ha una sua vita equilibrata, felice, fa il fotografo, abbiamo un ottimo rapporto, è indipendente, ma purtroppo non l’ho vissuto. 

Come mai dici che è difficile crescere maschi?
Non sai qual è il limite, non si sa come comportarsi. E poi ci sono i maschi, quelli paleolitici, questa epidemia di violenza maschile, è una cosa allucinante. Che mi fa pensare avendo delle figlie.

Ecco, torniamo sui giovani, invece, perché prima abbiamo parlato di fragilità.
Ma sono fragili per colpa nostra, perché eravamo fragili noi. 

Dici come genitori, come adulti?
Be’, gli adulti della nostra generazione, negli anni ’70, erano molto autoreferenziali. Una volta c’erano grandi ideologie: cattolica, comunista, fascista, dei grupponi. All’interno c’era di tutto. Adesso ci sono micro-ideologie. Io conosco uno che è terrapiattista, ma ti rendi conto? Cioè, è tutti contro tutti. E i social sono veramente un veleno pazzesco per l’anima. E lo dico da persona da sempre digitale, futurista. Immagino nanotecnologie che ci portiamo dietro, collegate a computer quantistici, ma inserite nella natura, che prendono l’energia dagli alberi. Un mondo tipo Pandora (quello di Avatar, nda).

Riguardo ai giovani, pensando ai fatti di cronaca, cosa pensi dell’ondata di violenza che li vede protagonisti?
Li vedi e pensi che una volta non era così. Poi però, proprio in questi giorni, cadono gli anniversari delle morti di Sergio Ramelli e di Fausto e Iaio, uccisi cinquant’anni fa per delle ideologie del cazzo da entrambe le parti. Erano ragazzi, ti rendi conto, non avevano neanche 18 anni. Allora quella violenza era travestita da ideali, come canto in Bernoulli. Qui non c’è nemmeno l’ideologia, c’è il vuoto pneumatico, ci sono ragazzi uccisi perché sono nel posto sbagliato.

Qual è la colpa dei social?
Hanno ingrandito questa capacità di ferire a distanza.

Come lo affronti tu?
Io non sono in grado di reggere ciò che viene scritto: è la cosa che più mi fa paura, quello che verrà scritto di questo disco, non da te, dai giornalisti, ma dal primo pirla che gli gira di farmi male, capito? Perché mi farà male. 

Quindi subisci gli hater…
Eh sì, sì. Io non sono abituato, sono di una generazione che ancora cercava di essere gentile o perlomeno civile. 

Foto: Fabrizio Fenucci

Nel disco c’è una canzone intitolata Pentitevi. Tu di cosa ti penti?
Di tante cose. 

La più eclatante?
Aver mancato la parola, certe volte. Mi sono lasciato influenzare e ho fatto cose che trovo eticamente sbagliate. 

Cosa trovi eticamente sbagliato?
No, vabbè, non entriamo nel dettaglio… 

Entriamoci.
Facendo questo mestiere magari devi essere ospite di un programma tv, ma c’è una trasmissione che fa più ascolti e ti vuole alla prima puntata e se non vai alla prima poi non ti dà più lo spazio che ti avrebbe dato. Così dici una bugia, metti la tua credibilità in ballo e disdici un programma per partecipare a quello più importante. Alla lunga te ne penti, ti rimane sulla coscienza un’ingiustizia, una disonestà.

In una delle ultime interviste a Rolling Stone hai parlato non proprio in maniera entusiasta di Sanremo. Ancora non ti piace o hai cambiato idea?
È cambiata. Prima era in un momento di transizione. Adesso c’è stata la cesura: quando hanno presentato il cast conoscevo Giorgia e altri tre. È migliorato. Adesso sembra il Coachella, un concerto di Beyoncé. Gli stessi live sono cambiati, prima c’erano quattro luci in croce, adesso fanno le cose con i droni.

A Sanremo ci torneresti?
A fare cosa? In gara no. Se poi un giovane artista decide di fare una mia canzone e mi invita come ospite nella serata delle cover, ci andrei molto volentieri.

Quest’anno il festival è stato appannaggio dei cantautori come Brunori Sas e Lucio Corsi.
Lucio Corsi io lo conosco da prima di Sanremo. 

Ti piace?
È prodotto da un mio amico. È veramente lui, è proprio una persona vera. È realmente una mente poetica. Dice delle cose belle. Ed è bello ci sia un personaggio così e che lui sia così. Abbiamo avuto tanta finzione in questi anni, tanta fuffa. Invece adesso credo ci si stia un po’ svegliando. Lucio Corsi è un buon segnale.

Oggi ci sono tanti artisti di nuova generazione che, a un certo punto, sentono l’esigenza di fermarsi. Come la vedi?
Ragazzi, la pressione è gigantesca. Infinitamente maggiore dei miei tempi. Oddio, allora poteva essere più semplice, ma magari rischiavi qualche sprangata. Adesso è veramente pesante con i social. Non per niente si chiama successo: è qualcosa che ti è successo. 

Ma chi ti piace dei giovani?
Ne conosco pochi, guarda.

Ci sarà stato qualcuno che, oltre a Lucio Corsi, ha attirato la tua attenzione…
Per esempio Olly, il ragazzo che ha vinto Sanremo. Quest’anno non mi ha colpito particolarmente, però due anni fa Polvere è stata la canzone che ho più ascoltato.

Davvero?
La usavo per ballare la notte, quando scendevo col cane. Quel pezzo lì c’aveva un beat che mi faceva venire il desiderio di danzare, portavo giù il cane alle 2 di notte, mi muovevo come un cretino in una strada vuota, con gli alberi, dove non c’era nessuno. Spotify mi diceva che è il pezzo che avevo sentito di più. Al secondo era Keith Jarrett e al terzo gli ZZ Top. Sono eclettico. 

Sempre nell’altra intervista avevi detto che consideravi un po’ Morgan il tuo fratellino. Lo consideri ancora tale?
Sì, ero alla Target quando era arrivato. Quindi lui così come Cristiano De André sono praticamente parenti.

Tra gli artisti e tra i tuoi colleghi chi consideri amico?
Alberto Camerini è mio amico da sempre, poi molti musicisti: Vittorio Cosma, Giuvazza, tecnici del suono come Giancarlo Pierozzi. Ivan Graziani era veramente un amico. Demetrio Stratos lo era, Roberto Vecchioni… Ma per come è cresciuto il music business oggi è più difficile: una volta c’era molto più collettivo, adesso devi passare dall’ufficio stampa. Ci sono artisti di cui non ho mai avuto il numero perché avevo quello del manager, poi se cambiano manager, addio. 

La più grande delusione?
Non sono diventato ricco.

Onesto, devo dire…
Ho fatto veramente di tutto, blues, fado, musica classica contemporanea… Ho cantato alla Scala, sono stato all’Isola di Wight… Ho conosciuto tutti, ma l’unica cosa che non sono mai riuscito a produrre è il denaro. Non lo so, sono fuori sync, fuori tempo, fuori moda, comunque sempre fuori dai… per citare il Liga.

Qual è il motivo secondo te?
Non lo so, forse è per il fatto di essere mezzo americano, di essere rimasto un po’ a cavallo di due culture. È una cosa che non sono mai riuscito a capire, sono sempre stato un po’ un outsider… E la cosa un po’ mi ferisce, devo dire… 

Ti ferisce essere un outsider?
Sì, a 70 anni sì… Sarebbe ora di essere accolto… In America c’è la Hall of Fame. A un certo punto, ti fanno una festa e si entra nella Hall of Fame per anzianità, per merito e così via. Non è solo una questione di denaro, in un certo senso è una valutazione del mio valore. Anche se conosco artisti che darebbero tutto il denaro guadagnato per avere la mia credibilità. Nessuno è mai contento, l’erba del vicino è sempre più verde… ma ci sono molte cose che mi danno gioia, l’album parla anche di quelle. 

È bello che ne parli.
Il bello di avere la mia età è che si riconoscono anche i propri sbagli e si ammettono i propri rimpianti, perché tanto ormai non sono aggiustabili. Nessuno ha tutto, io ho avuto tantissimo, però ho fatto delle cazzate enormi, a tanti livelli. E poi mi sono successe altre cose che mi sono servite a crescere. 

Ad esempio?
Be’, diventare padre per la prima volta di una persona down, mentre ero in pieno rock’n’roll, mi ha cambiato la vita.

Cosa diresti al Finardi duro e puro degli esordi, se avessi la possibilità di incontrarlo?
Non ero tanto duro e puro, ma lo inviterei a studiare un po’ meglio la postura di chitarra, perché io adesso non posso più suonare. E gli direi di pensare di più al futuro. 

Se arrivasse il famoso extraterrestre e chiedesse chi è Eugenio Finardi, cosa risponderesti?

Quello che ha fatto tutto.

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