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Ernia, tra Harper Lee e Stephen King

Agli esordi con Ghali era stato massacrato, ora torna con un nuovo doppio album intimo in cui mostra il suo volto più introverso, come mai ce lo saremmo aspettati

Foto di Jamie Othieno

Il 2012 potrebbe essere ricordato come l’anno in cui debuttarono sulla scena i Troupe D’Elite, un progetto passato alla storia come uno dei più clamorosi e spettacolari fallimenti discografici dell’hip hop italiano. Il gruppo era formato dai due mc Ghali Foh e Er Nyah, dalla vocalist Maite e dal produttore Fonzie, a malapena maggiorenni e freschi di contratto con l’etichetta Tanta Roba. Fin dal primo singolo (e l’infelice titolo Non capisco una mazza sicuramente non ha aiutato) diventarono lo zimbello di pubblico e addetti ai lavori, con un accanimento senza precedenti e toni che sfioravano il cyber-bullismo. Quello che doveva essere il primo esperimento di crew giovane e multietnica d’Italia venne relegato nel limbo del LOL-rap, e la carriera dei Troupe D’Elite naufragò dopo un solo EP.

La storia, però, non finisce qui, perché alcuni di loro sono anche protagonisti di uno dei più clamorosi e spettacolari ribaltoni dell’hip hop di casa nostra. Il primo a invertire il corso del suo destino è stato Ghali Foh, oggi semplicemente Ghali, che ripartendo da zero è riuscito a conquistare il mondo del rap e quello del pop. E il secondo è senz’altro Er Nyah, oggi semplicemente Ernia, che dopo essersi conquistato un posto (meritatissimo) nella scuderia Thaurus e Universal ha sfornato un album che lascia a bocca aperta anche i più scettici – compresa la sottoscritta, che ai tempi di Non capisco una mazza non era certo stata tenera con loro. Come uccidere un usignolo/ 67 è un album intimo, pieno di sfumature, poesia, citazioni colte e voli pindarici, che rivelano un ventitreenne completamente diverso da come ce lo saremmo aspettati. L’Ernia di oggi è un ragazzo introverso, un accanito lettore e ascoltatore, e soprattutto una persona profondamente segnata dalla cattiveria di cui tutti, in una certa misura, siamo stati responsabili.

Perché un titolo del genere?
I titoli sono due e ben distinti. Riguardo al primo: in Italia il romanzo di Harper Lee è stato pubblicato con il titolo Il buio oltre la siepe, ma quello originale, To kill a mocking bird (che io ho tradotto con Come uccidere un usignolo) si riferisce alla crudeltà assoluta di certi atti. Ad esempio l’uccidere per noia o per piacere un essere indifeso come un uccellino, che è esattamente quello che è successo a noi Troupe D’Elite quando la malignità di Internet ci si è riversata addosso. Cinque anni fa siamo stati massacrati dalla rete, forse perché facevamo un tipo di rap che ai tempi in Italia ancora non c’era: un accanimento gratuito ci ha distrutti, sia come gruppo che come persone. Eravamo davvero giovanissimi e ingenui, degli uccellini appunto, e siamo stati travolti da un fiume d’odio e veleno. Quanto a 67, l’ho scelto perché so già che il prossimo disco si intitolerà 68, ma questo non voglio spiegarlo. Non ancora, almeno.

Dicevi che tutto quello che avete vissuto insieme vi ha distrutto anche come gruppo: tu, Ghali e Maite in che rapporti siete rimasti?
Non siamo più in rapporti, però non c’è ostilità. Se ci si incontra si scambiano quattro chiacchiere, tutto lì.

Questa svolta introspettiva e profonda è stata naturale o dipende in qualche modo da quello che ti è successo con i Troupe D’Elite?
È stata assolutamente naturale, anche perché non rinnego affatto quello che facevo. La nostra musica era molto leggera e fine a se stessa, serviva a divertirci e a divertire gli altri. Ci sono momenti della vita in cui vuoi ascoltare musica pensata, complessa, e altri in cui vuoi semplicemente svuotarti la testa e non pensare a niente, ed è giusto così. Se fossi un diciottenne che sta andando a ballare, in macchina non ascolterei sicuramente mie tracce di oggi come Noia o La ballata di Mario Rossi. Al contrario ascolterei più volentieri i Troupe D’Elite, con canzoncine fatte per gasare e intrattenere. Ancora oggi faccio canzoncine del genere: nell’album ce ne sono diverse.

C’è un momento giusto per ogni canzone, insomma.
Esatto. Il problema è che in Italia bisogna per forza avere un profilo aulico, per darsi un tono: a sentire molti, se nel rap non c’è un messaggio non vale niente. Guarda caso, però, i pezzi che arrivano al disco d’oro sono quasi sempre quelli meno impegnati. Non sarà che c’è un po’ di ipocrisia di fondo, e che chi si finge intellettuale ogni tanto ascolta canzonette come tutti noi?

In realtà, però, anche nelle tue attuali canzonette si nasconde sempre un messaggio: in Gotham, ad esempio, dici ironicamente “Guarda mamma, faccio come tutti/ scrivo solo cose a caso…”
Certo, è una critica a tanti miei colleghi, però poi nel resto del pezzo ho scritto davvero cose a caso! (ride). Ho voluto metterla giù in maniera velata, anziché fare un’invettiva contro quei rapper che nelle loro strofe non dicono niente.

Foto Press

Tornando ai tuoi trascorsi, dopo l’esperienza con i Troupe D’Elite hai vissuto un periodo di grande sconforto, in cui hai mollato la musica e ti sei trasferito all’estero. Cosa ti ha spinto a tornare indietro?
Ho mollato tutto perché la delusione che provavo era troppo forte. Sono andato a vivere a Londra per un po’, e quando sono tornato alcuni amici mi hanno convinto che non potevo arrendermi, dovevo riprovarci. In particolare devo dire grazie a Lorenzo Prestia e Simone Pizzoccolo, che sono miei amici da sempre e oggi sono nel mio management: per nostra fortuna ci avevano visto lungo, e tutti e tre siamo riusciti a costruire un lavoro sulla mia musica.

Come te la vivevi, quando hai ripreso a fare rap da solista?
Ero davvero in paranoia! Ero sicuro che sarebbe andata malissimo. Anche in questo momento, se devo essere onesto, mi sento pessimista: per come sono fatto io, c’è sempre la possibilità che qualcosa vada orribilmente storto. Ovviamente la mia è solo ansia, perché a livello razionale mi rendo conto che sta andando tutto bene e che artisticamente sono cresciuto molto. Scrivo cose che anche solo un anno fa non sarei mai riuscito a scrivere.

Perché hai deciso di iniziare la tua discografia ufficiale con un album doppio? Non è un po’ troppo ambizioso?
Abbastanza. Ma devi considerare che Come uccidere un usignolo, ovvero il volume 1, è uscito quest’estate in streaming, quindi era già disponibile: è andato così bene che abbiamo deciso di completare il progetto con una manciata di pezzi nuovi, quelli di 67. È un doppio album di transizione, insomma, in cui abbiamo unito il mio ultimo lavoro da indipendente al mio primo lavoro da artista sotto major. È stata una specie di celebrazione del momento, e trovo che i due dischi siano abbastanza complementari, quindi sono contento così.

Non fai mistero di essere cresciuto a QT8, un tranquillo quartiere verde e residenziale di Milano, in una famiglia colta (tua mamma insegna latino in un liceo). Molti altri rapper, in passato, hanno cercato di seppellire la propria normalità calcando la mano sul disagio…
Non solo in passato, succede anche adesso! (ride). Se dicessi una bugia sulla mia vita, prima o poi salterebbe fuori: che senso avrebbe? Anche io ho senz’altro avuto le mie esperienze di strada, ma c’è sempre qualcuno che ha passato di peggio e che si sentirebbe giustamente in diritto di zittirmi se rivendicassi certe cose. Meglio essere onesti fin da subito sulle mie origini, per quanto mi riguarda.

Ecco, a proposito di esperienze di strada: nell’album c’è un pezzo, Amici, in cui racconti di aver comprato una pistola insieme a un altro ragazzo quando avevate appena dodici anni. Dobbiamo considerarlo uno storytelling (che per tua stessa ammissione è uno dei tuoi cavalli di battaglia) o è una cosa realmente accaduta?
È assolutamente reale, e l’amico che cito nel pezzo, Mario, è Tedua. Non ho mai scritto di cose che non mi sono successe davvero. La differenza sta nel fatto che magari molti miei colleghi l’avrebbero raccontata diversamente: “Ho il ferro, ti sparo”, roba così. Io, invece, ho cercato di costruire una narrazione alla Stand By Me di Stephen King: una storia di ragazzini alle prese con una cosa molto più grossa di loro, che però se la vivono con un pizzico di inconsapevolezza per via della loro età.

Parlando invece di suono, quello di entrambi i dischi è molto particolare: malinconicamente ipnotico, e molto lontano da ciò che va di moda oggi…
In generale, se ascolto un beat che tutti gli altri userebbero, automaticamente lo scarto. Mi sono fidato molto di Marz, che è un produttore con cui lavoro da sempre: è lui che ci ha messo le mani. Ci siamo conosciuti a fine 2015, ai tempi eravamo due giovani promesse decadute: io arrivavo dalla débâcle dei Troupe D’Elite, lui aveva prodotto alcuni beat per l’album di Marracash e, dopo essere stato considerato uno dei migliori produttori emergenti per qualche mese, era stato dimenticato da tutti. Abbiamo deciso di unire le forze e vedere cosa ne usciva: giudicate voi!

Ascoltando Come uccidere un usignolo/67, le atmosfere mi hanno ricordato tantissimo un album uscito nel 1999: Sindrome di fine millennio degli Uomini di Mare (storico duo italiano formato da Fabri Fibra e Lato, ndr). È in qualche modo un vostro riferimento?
È un disco che non ho mai sentito, se devo essere onesto.

Immagino che a questo punto valga la stessa cosa per la produzione di Ego, che a me richiama subito alla mente Karmacoma dei Massive Attack, anno 1995. giusto?
Stavolta non ho neanche la minima idea di cosa sia! (ride). Prometto che ascolterò sia Sindrome di fine millennio che Karmacoma, però, e ti saprò dire. È sicuramente una mia pecca, ma avendo iniziato ad ascoltare musica con cognizione di causa a tredici anni, nel 2006, tante cose non le ho neanche mai affrontate. Crescendo non mi guardavo tanto indietro. Il mio apice è stato Penna Capitale dei Club Dogo, e anche quel disco lo capisco davvero solo adesso: ai tempi non avevo gli strumenti per comprenderlo. Anche oggi ascolto molto di più rapper americani contemporanei, i vari Kendrick Lamar, Drake, J Cole. O Rkomi e Sfera, anche se fanno roba completamente diversa dalla mia, e Gué e Marra. E tanta trap: al contrario di quello che pensano molti, non la disdegno per niente.

A proposito, il fatto di essere spesso associato alla scena trap italiana – che musicalmente non c’entra del tutto con quello che fai tu – per te è una limitazione o un complimento?
Mi sento assolutamente parte di quella scena, indipendentemente dal suono. Anche Rkomi, se ci pensi, ha fatto un disco che non c’entra molto con le tendenze della trap italiana di oggi, ma appartiene a quel mondo; e la stessa cosa vale per me. Sono cresciuto all’interno di un certo movimento, siamo tutti amici fin da ragazzini, perciò sarebbe impossibile non sentire un legame con questo movimento.

Il fatto che l’unico esponente della scena trap presente nel tuo disco sia Rkomi, quindi, non è una presa di distanza?
No, anzi. Semplicemente, volevo espandere i miei orizzonti: i miei coetanei sanno chi sono e riconoscono il mio valore, ora voglio che lo facciano anche gli ascoltatori più adulti. È per questo che ho voluto un featuring di Gué Pequeno e Mecna, artisti che ho sempre ascoltato. Collaborazioni così hanno un altro valore, anche affettivo.

E che valore ha Come uccidere un usignolo/ 67 per te?
Lo vedremo. Non sono uno di quelli che se ne esce con frasi tipo “Questo è il mio anno, spacchiamo tutto”. Finora non farlo ha portato bene, quindi continuerò così!

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