Ernia ha superato il giro di boa dei 30 anni e ha deciso di guardarsi dentro senza fare sconti. Per soldi e per amore, fuori il 19 settembre, è il disco più intimo e spietato della sua carriera, 12 tracce prodotte da Charlie Charles, con i feat di Kid Yugi, Marracash, Club Dogo e Madame che raccontano il passaggio dagli esordi, quando «si rappava per amore», alla realtà di oggi dominata dai soldi dove «ci si accoltella per stare più comodi». Non è un album rassicurante, ma un atto di autocoscienza e un lavoro in cui Ernia punta il dito contro una scena che «insegue i trend per sembrare più giovane, quando invece i quindicenni fanno benissimo a mandarmi affanculo». Dentro c’è la nostalgia delle origini (Mi ricordo), la street credibility che è «un imprinting» con i Club Dogo (Figlio di), le cicatrici e i punti di sutura del rapporto coi genitori (Per i loro occhi e Per te) e con la sorella che non «ha mai voluto avere un aiuto da me» (Berlino).
Lo abbiamo incontrato per scoprire che, anche indirettamente, in questo disco c’è uno sguardo in grado di aprire squarci nella polarizzazione di un’epoca dove, purtroppo, nessuno cambia più idea. Considera Baby Gang il simbolo di una seconda generazione lasciata ai margini («Ghali non li rappresenta, chi si può permettere di vestire Gucci?») e ha la consapevolezza che «il rap è l’unica cronaca della realtà». Scherza, ma non troppo, sugli artisti pop che «si fanno il segno della croce» quando escono in concomitanza con un rapper-trapper. E spiega perché ha preferito una produzione arricchita da pianoforte e chitarra per portare avanti un’idea radicale: smarcarsi dall’imitazione dei sound internazionali e iniziare a pensare a un rap made in Italy: «Quando ti ascoltano all’estero e sembri uno di Atlanta, si tengono l’originale».
Nel mezzo c’è la terapia («che fa bene a chiunque»), Guè come primo fan dell’album, la discografia «che non è mai stata così democratica» e un solo rimpianto: «Avrei potuto finire l’università, ma forse non sarei qui».
Il disco si apre con una traccia fortissima, Mi ricordo, che è una critica e quindi anche una autocritica alla scena rap. Fuori dalle rime, che cosa siete diventati?
Eh, cosa siamo diventati… Mi sembra che il rap sia diventato l’unico movimento giovanile interessante in questo Paese. Non c’è nient’altro. Il resto è calma piatta. Noi della generazione del 2016 siamo stati gli ultimi che l’hanno fatto veramente senza essere mossi dai soldi. Perché allora non c’era molta speranza di farne. Eravamo una nicchia. È un atteggiamento che ci caratterizza. Siamo diventati un esempio per tanti ragazzi. Almeno quelli che vogliono fare questo lavoro.
Però, in questi dieci anni, come sottolinei un po’ in tutto l’album, si sono formati anche degli atteggiamenti negativi. La ricerca spasmodica del successo, dei soldi, dei numeri.
Questo, secondo me, è il disco del trentenne quale sono. Ti racconto questa. Per realizzarlo ho fatto delle session con degli altri miei colleghi, alcuni amici di una vita. Uno mi ha detto una cosa che mi ha colpito tantissimo. Non ti dirò il nome, non sarebbe giusto, però è indicativo anche se ognuno la pensa come vuole. Ma lui, che è un mio coetaneo, è arrivato e mi ha detto: «Frate, è un album sbagliato. Questo è l’anno della trap».
E tu cosa gli hai risposto?
Gli ho chiesto come mai. E lui: «Vedi quello che stanno facendo i ragazzi di vent’anni?». Ho provato a spiegargli che noi abbiamo 30 anni. Se facessi quello che fa un ventenne, sembrerei Montgomery Burns che entra nel bar dei Simpson con il cappellino e la maglietta con il teschio. Un quindicenne mi spernacchierebbe, ma giustamente. Si chiederebbe: ma cosa cazzo sta facendo quello lì? Anzi, sai cosa ti dico? Che un quindicenne che mi manda affanculo è la cosa più giusta che possa fare.
Come mai?
Perché quando io ho iniziato, lui aveva 5 anni. Quindi, nel suo immaginario, è come se esistessi da sempre. Perché la sua esperienza di vita è iniziata pochi anni fa. Io devo fare il mio, e quando sento questa cosa di seguire i trend e le mode si vanifica tutto quell’atteggiamento delle origini, di fare rap per amore e non per soldi. Certi miei coetanei mi fanno rimanere spiazzato quando cercano di inseguire i giovani su questo terreno.
C’è qualche tuo collega al quale hai fatto sentire il disco e si è sentito tirato in causa?
Sai chi è il primo fan di questo disco? Guè. Abbiamo amici in comune che continuano a dirmi che lui ne parla a tutti. Glielo avevo fatto sentire, mi ha fatto i complimenti ma era finita lì. Ma a quanto pare sembra che gli sia piaciuto talmente tanto che ne parla in giro.
Quindi non si è sentito tirato in causa nella critica alla scena?
No, perché di Guè si possono dire tante cose, ma non che non abbia fatto rap per amore. Lui viene preso di mira perché è un po’ più appariscente degli altri, ma davvero ha portato avanti questa musica in tempi ancora più difficili, quando avere successo e fare soldi era quasi impossibile. E il disco con Rasty Kilo ne è la dimostrazione. Tanta roba. E solo per il rap.

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In Mi ricordo canti: “Un conto è farsi spazio e poi riempirlo con i mobili, un conto è aver lo spazio e accoltellarsi per star comodi”. Sembra che ti rivolga alla scena trap.
Più che alla scena trap mi rivolgo alla scena rap, quella di cui faccio parte. Di noi trentenni con le carriere avviate e abbastanza comode. Le coltellate sono metaforiche, cioè i dispetti che ci si fa tra appartenenti alla nostra scena.
Te lo chiedevo anche pensando al nuovo arresto di Baby Gang e alla violenza non proprio metaforica di certi trapper…
Ma sai, io non faccio il giudice. Quando ho incontrato Baby Gang e Simba La Rue mi sono sembrati dei ragazzi super a posto, miti, sempre a testa bassa e umili con me e con il mio team. L’importante è che Baby Gang non abbia sparato con quell’arma.
A Baby Gang consiglieresti di ascoltare Non piangere, dedicata a un tuo amico che ti aveva chiamato prima di dover entrare in carcere?
Baby Gang ormai ha una certa esperienza di carcere. In realtà, per me, lui è un personaggio che valuto in modo positivo. Perché rappresenta gli italiani di seconda generazione che, per quanto se ne dica, Ghali non ha rappresentato davvero del tutto.
Come mai?
Quanti ragazzi di seconda generazione si possono permettere Gucci? Baby Gang è ancora vestito come cinque o dieci anni fa. Quindi rappresenta una parte della popolazione che si sente tagliata fuori e vede nella violenza, a volte, l’unico modo di farsi ascoltare. Non dico che lo comprendo, ma non mi sento di condannarlo. Poi ognuno è autore del proprio destino
In questo contesto sociale, il rap sembra rimasto la cronaca più fedele della realtà.
Rap e trap sono generi che continuano a macinare numeri e a vendere dischi. Gli artisti pop, quando escono in concomitanza di artisti rap-trap, si fanno il segno della croce. Anche i grandi nomi, perché questo genere parla della realtà. I testi vengono criticati? Ma è la realtà quella che viene raccontata. Se cantano come si maneggiano le armi, vuol dire semplicemente che tanti ragazzi oggi, in ogni città, sanno maneggiare un’arma.
Dall’altro lato, però, in Fellini inviti tutti a non montarsi la testa: “Mangia finché c’è, però ricordati che un giorno morirà pure il re”. La musica non cambia il mondo?
Ci sono diversi miei colleghi che si sopravvalutano. Una volta la musica era veicolata tutta da due-tre canali. Ed era quella e basta. Passavi in radio e tutti sentivano le stesse cose. Ora no. I giovani non ascoltano la radio e vanno a cercare i propri punti di riferimento sulle piattaforme. Per cui, se tu cerchi me è perché ti rivedi in me. Ma è probabile che non ti riveda in Baby Gang o altri. Il cambiamento che io posso apportare con la musica è un cambiamento che tu hai già fatto, perché sei tu ad avermi cercato. Può essere anche un pezzo violento, ma l’hai scelto tu. Siamo in un’epoca nella quale il mercato non è mai stato così democratico.
Non sei di quelli che denunciano un controllo oppressivo da parte della discografia.
A volte leggo queste critiche all’industria, che avrebbe obbligato il tale artista a fare qualcosa. Nella realtà l’industria non fa nient’altro che darti quello che vuoi. Siete voi che cliccate e quindi che scegliete quello che l’industria poi metterà in evidenza. Se oggi un artista senza etichetta fa dei numeri, che siano social o su Spotify, ci investe e lo valorizza. Non siamo più nel tempo in cui, come negli anni ’90, il manager doveva essere forte, avere rapporti con le radio o le tv, altrimenti i pezzi non venivano passati. Se hai i numeri passi, eccome.
Hai 31 anni: questo album è tempo di bilanci. Ma c’e qualcosa che, se ti guardi indietro, ti penti di aver fatto?
Non ho particolari rimpianti… Aspetta che ci penso meglio… Ecco, una cosa c’è. Ma se l’avessi fatta, forse, non sarei qui oggi: probabilmente avrei potuto finire l’università. C’è sempre tempo, sarei fuori corso solo di dieci anni…
In Figlio di, con i Club Dogo, torna la street credibility, tra tipe che ti sei “fatto in strada” e citazioni a Griselda Blanco, la cosiddetta Regina della droga. Anche se vuoi scappare dalla strada, la strada continua a rimanerti dentro?
C’è un imprinting che ricevi nell’infanzia e nella prima adolescenza che non se ne va mai via. Adesso se dici che sei cresciuto per strada sembra che andavi in giro a trafficare chissà cosa. Io sono cresciuto in strada, sono stato un arrangione, ho fatto veramente di tutto per tirare su qualche lira e, quindi, ho una impostazione mentale che non se ne va. Ho fatto tanta autocritica rispetto a quegli anni. Dal primo disco ripeto che in strada non c’è niente di bello. È una merda, ma ho iniziato a girare a 10 anni e quella che ti crei è una seconda famiglia. Una famiglia che ti scegli, rispetto a quella naturale. Quel periodo ti segna. Ci sono ragionamenti che la mia ragazza, che non ha vissuto quelle cose, non fa. Io ancora sì.
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In Per i loro occhi parli dei tuoi genitori che non ti hanno mai detto “bravo”, neanche adesso. E confessi: “È anni che parlo con la psico”.
Sono convinto che un supporto psicologico possa fare bene a chiunque. Perché nella terapia è possibile trovare l’origine dei propri problemi che arrivano quasi sempre dall’infanzia o dall’adolescenza. O nel rapporto con i genitori.
Quel “bravo”, però, non te l’hanno detto neanche oggi.
È vero, ma con i miei genitori, nonostante questo, ho un bel rapporto. Non ho avuto una mamma come viene comunemente idealizzata. Tornando al discorso della strada, ho dei precedenti dovuti a delle scorribande. Ricordo mio padre che mi riportava a casa, mentre mia madre gli diceva: «Ma portalo dai carabinieri». A lui che mi era appena venuto a prendere proprio in caserma. Insomma, non ho avuto la figura romanzata della mamma. I miei genitori non sono espansivi. Mio padre è capace di stare un’ora nella stessa stanza con te muto (ride).
Hai anche raccontato che, nonostante abbiano ascoltato i tuoi dischi, non si sono mai espressi né positivamente né negativamente.
Sì, so che ascoltano quello che faccio, ma mi hanno mai detto quello che pensano. Ogni tanto mi chiedono: «Il lavoro va bene?». Se è a posto, per loro è ok.
Almeno tua madre non dice più «riportatelo dai carabinieri».
Quello no, è vero. Mi sembra già un successo.
Nonostante questo tipo di educazione, si può dire che ha funzionato con te così come per tua sorella, alla quale dedichi Berlino. E sottolinei che, nonostante la tua posizione, lei, fotografa, non ha mai voluto un aiuto per facilitarla.
Lei è scappata da questa situazione. Tutt’ora, dei due, sono io quello che ha un rapporto più disteso con i nostri genitori. Forse anche perché ho trovato un po’ prima una stabilità, ho messo su famiglia e un genitore queste cose, anche se non te le dice, te le riconosce. Lei certe cose le rifiuta, quindi è fuggita da questo ambiente. Non hai mai accettato alcun tipo di aiuto da parte mia. E la mia presenza la ritiene ingombrante. Se le capita di lavorare a Milano e salta fuori che è mia sorella è un problema, perché non vuole essere “la sorella di”.
Il pezzo Berlino lo ha ascoltato?
Non ancora… Sai, anch’io, come i miei genitori, non so esprimere certe cose. Credo che, prima o poi, le arriverà. Di certo non sono uno che le manda il brano e dice: «Questa canzone parla di noi». Pensa che mia sorella non è mai venuta a un mio concerto. Siamo fatti così. Quando ho fatto il Forum i miei genitori sono venuti e, quando dopo ci siamo visti, mi hanno detto: «Tutto bene, no? A posto, ci vediamo a casa». Come fosse un lavoro come un altro.
In Perché, con Madame, c’è un passaggio che sembra quasi profetico: “Perché in questo gioco ci guardiamo tutti storto, perché ci manca poco che ci scappa il morto”. Ascoltarlo mentre divampano ancora le polemiche per la morte di Charlie Kirk fa impressione.
Io mi riferivo al gioco del rap, non a Charlie Kirk o casi simili. Però vedi, come dicevamo prima sulla musica che cambia il mondo, a me sembra che chi prende una posizione poi non sia più disponibile a cambiarla. Nei sondaggi vedevo un confronto tra i primi del 2000 e oggi, con la polarizzazione delle votazioni. Una volta era molto più varia, con tanti centristi che si spostavano di qua o di là. Ora, invece, o stai o da una parte o dall’altra. E se dici di stare da un lato, quelli che stanno nell’altro non te lo perdonano. Ti attaccheranno automaticamente. Per quanto riguarda Charlie Kirk, che vuoi che ti dica? Si sono sparati tra di loro…
Qui si entra nella propaganda.
Parlano del clima d’odio della sinistra, ma scusatemi, si sono sparati tra di loro (si riferisce alla famiglia conservatrice di Tyler Robinson, il 22enne arrestato per l’omicidio di Kirk, nda). Quindi si può considerare fuoco amico.

Dal punto di vista musicale hai scelto una produzione lieve, ma arricchita da strumenti tradizionali come pianoforte e chitarra.
Ho deciso di tornare tantissimo alla musica suonata con strumenti tradizionali. Se guardo la Francia vedo che hanno sviluppato un sound. Così in Inghilterra. In Italia, invece, siamo in balìa di tutti i nuovi trend che arrivano da fuori. Una volta siamo drill, un’altra siamo di Detroit, oppure in cassa dritta. Parliamo sempre di rap italiano, ma spesso ci basiamo su come si veste Machine Gun Kelly o come fa le barre Lil Baby, oppure, dopo che ha fatto un concerto in Italia Travis Scott, dobbiamo seguire tutti lui. Intorno ai 30 anni mi sono guardato allo specchio e ci ho visto dentro Matteo Professione, non qualcun altro.
Insomma, nel prossimo disco dobbiamo aspettarci un feat. con Al Bano?
(Scoppia a ridere) Non credo, però riuscire a inserire delle nostre caratteristiche all’interno del rap che facciamo noi italiani, potrebbe essere la chiave giusta. I latini hanno un loro sound, come i nigeriani e i ghanesi ne hanno altri. Sotto questo punto di vista dovremmo essere un po’ più nazionalisti. Guarda gli spagnoli con il disco di C. Tangana El Madrileño. Te lo dichiara già dal titolo che non è italiano o inglese, ma spagnolo. Quelle sono le sue radici, quello è il suo sound. Se invece pensiamo al rap in italiano non è che ci sia tanto.
Come per la cucina, c’è bisogno di un rap con marchio made in Italy?
Esatto, ma non per chiuderci in Italia. Perché queste scelte ti premiano anche a livello internazionale. Noi siamo sempre a parlare del feat con l’artista internazionale, ma nella realtà influisce o no? Te lo dico io: non influisce un cazzo. Perché quando ti ascoltano all’estero, sentono che rappi come un altro di Atlanta e si tengono l’originale. La stessa Rosalía ha portato nella musica le sue robe gitane, se ne è fregata dei trend e si fa i tour mondiali. È vero che la questione della lingua ci svantaggia, però iniziare a fare questo tipo di ragionamenti potrebbe portare, in futuro, ad avere un sound made in Italy da esportazione.
Chiudo sul futuro, e non c’è niente che faccia pensare al futuro più dei figli. Alla tua piccola che ora ha solo due mesi, quando sarà in grado di comprendere il mondo che la circonda, che cosa vorrai insegnare più di ogni altra cosa?
Una cosa bella che ci facevano fare i miei, con mia sorella, era portarci nei boschi.
E se sbaglierà la porterai a casa come tuo padre o dirai alla tua compagna, come faceva tua madre, di riportarla dai carabinieri?
Non credo che chiederò di riportarla dai carabinieri. Lei verrà sempre a casa con me.













