«Eravamo io, Cameron Crowe e David Bowie» | Rolling Stone Italia
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«Eravamo io, Cameron Crowe e David Bowie»

Il fotografo Andrew Kent, a Milano con la mostra 'The Passenger', racconta il suo Bowie: il tour con Iggy Pop, il viaggio a Mosca, il fermo per possesso di marijuana, l'accusa d'essere filonazista

«Eravamo io, Cameron Crowe e David Bowie»

David Bowie in una foto della mostra 'The Passenger' a Milano

Foto: Andrew Kent

Ha aperto a Milano, al Teatro degli Arcimboldi, la mostra David Bowie – The Passenger, che ruota attorno alle immagini scattate dal fotografo Andrew Kent negli anni del ritorno di Bowie in Europa a partire dal tour di Station to Station, dal 1976 al 1978. Oltre ai cinquanta scatti del fotografo americano sono state ricostruite situazioni e ambienti di quel periodo. Non si può fare un confronto con la mostra-monstre di qualche anno fa David Bowie Is, che attingeva direttamente dallo sterminato archivio di Bowie e abbracciava tutta la sua lunghissima carriera: questa è una mostra fotografica che documenta una fase ben precisa, quella del ritorno sulla Terra di Bowie dopo che l’ascesa di Ziggy Stardust lo aveva mandato in orbita come rockstar, e la cocaina lo aveva sprofondato in un abisso a Los Angeles.

Alcune di queste foto sono celebri, eppure la maggior parte delle foto non ritraggono Bowie come celebrity: è un giovane uomo che si sta ricostruendo, spostandosi da Londra a Parigi a Berlino, passando per Mosca. Accanto a lui c’è Iggy Pop, co-protagonista della mostra: in effetti, con un piccolo colpo di scena, è lui a darle il titolo. Il 74enne Kent ci ha spiegato perché.

Sembra strano che la mostra si chiami come titolo un pezzo di Iggy Pop, uno dei pochi di Lust for Life che Bowie non firmò.
Sì, ma è appropriato. Bowie suonò nel pezzo e lo produsse, ma mi piaceva l’idea di coinvolgere Iggy perché in quegli anni era una presenza fondamentale, Bowie lavorava con lui e su di lui, e io ho avuto l’opportunità di fare le foto che hanno originato le copertine di Lust for Life e The Idiot. Poi, The Passenger mi sembra un titolo perfetto perché ho molti ricordi di viaggio insieme a Bowie, siamo stati in un sacco di posti in quel periodo. In quegli anni, lui stesso era in viaggio, in fondo.

Foto: Andrew Kent

Come vi siete incontrati?
Era il 1975, lo incontrai alle 3 di notte con Cameron Crowe, il regista di Almost Famous, uno dei miei migliori amici. A quell’epoca aveva 15 anni, mi pare: lui doveva intervistarlo, ma aveva sentito dire che stava cercando un fotografo per il tour. Mi portò in uno studio di Los Angeles dove David stava lavorando, abbiamo parlato tutta notte. Penso che fu allora che mi guadagnai la sua fiducia. Non si fidava molto della gente in quel periodo, per questo mi piace pensare che il nostro rapporto in quel periodo fosse sincero. Io sicuramente non sono mai stato vicino ad altri artisti come con lui. Ho fatto foto a parecchie rockstar, da Crosby, Stills, Nash & Young ai Kiss, da Linda Ronstadt a Frank Zappa, ma quello era lavoro.

Lei c’era anche quando Bowie ha fatto da comprimario nel tour di Iggy Pop, come pianista. Tra l’altro in quel tour c’erano i fratelli Hunt e Tony Sales, con i quali avrebbe formato i Tin Machine. Com’era quel tour?
Molto coraggioso e divertente, anche se i fratelli Sales erano veramente personaggi particolari. Erano diversissimi, uno scatenato, l’altro serissimo. Io devo confessare che per me erano soprattutto i figli del comico Soupy Sales, che guardavo in televisione da ragazzino – forse per loro era difficile essere presi sul serio.

Foto: Andrew Kent

Lei ha fotografato anche Freddie Mercury ed Elton John, per i quali Bowie era per molti versi un rivale ma anche un punto di riferimento. Le chiedevano di lui?
I Queen non erano ancora così famosi, penso di esser stato il primo americano a fotografare i Queen durante il loro primo viaggio negli Stati Uniti, ho fatto degli scatti molto belli di Freddie. Non mi chiedevano di lui. Non so se lo tenessero d’occhio di nascosto, ma la mia esperienza mi dice che le rockstar sono consumate da se stesse. Il che rendeva particolare il mio approccio perché le foto in cui potessero sembrare degli dèi non erano la mia specialità. Io ho sempre preferito presentarli come persone vere, il più possibile rilassate, amichevoli e umane. La maggior parte degli scatti che la gente vedrà alla mostra non sono di un Bowie figo. Tra le mie preferite ci sono quelle in cui si metteva il make-up per andare in scena, perché lì vedevo iniziare la trasformazione, dalla persona che era alla rockstar che saliva sul palco. E la mia preferita in assoluto è quella di Bowie e Iggy sulla Piazza Rossa di Mosca, con una polaroid della piazza appena scattata nelle ore della nostra tormentata visita.

Lei era con Bowie e Iggy quando la polizia li fermò per possesso di marijuana. Bowie si stava disintossicando dalla cocaina. C’era molta gente che cercava di vendergli droga?
Sì, ma posso dire una cosa: conoscevo la droga molto bene e anche le abitudini dei drogati, e quando Bowie ha iniziato a rimettersi in forma con Station to Station sono piuttosto sicuro che si fosse ripulito. Fumava decisamente troppo, aveva sempre una sigaretta accesa e non escludo che questo alla fine lo abbia ucciso.

Nella mostra viene ricostruito l’episodio su cui la stampa inglese montò un caso, quello del braccio alzato alla Victoria Station.
Sì, ero lì, e sono sicuro che fu un dispetto dei giornali inglesi. Io sono ebreo, e in quegli anni avevo sviluppato una specie di sensibilità nei confronti della gente che aveva pregiudizi razziali anche nascosti. Questo mi porta a escludere che avesse qualche tipo di problema con gli ebrei, così come non ne aveva con nessuna razza.

Foto: Andrew Kent

Lei ha documentato il passaggio dal Bowie “americano” a quello berlinese, o comunque europeo. Dall’esterno, cosa pensò quando vide il cambiamento successivo, la trasformazione in superstar pop negli anni ’80?
Devo dire che più che vederlo lo sentivo, in quegli anni la sua voce compariva ovunque alla radio, come mai era capitato prima. Sentivo canzoni che erano in un nuovo stile, e se non fosse stato per la voce non mi sarei mai fermato a pensare: ehi, questo è lui.

Lei a quell’epoca non faceva già più il fotografo rock. Come mai ha smesso così presto?
Ho fatto un ultimo tour con i Black Sabbath nel 1978 e mi sono molto divertito, ma il mondo stava iniziando a cambiare. Ai concerti c’erano sempre più restrizioni, non si poteva scegliere da dove fare le foto, oppure veniva imposto ai fotografi di andarsene dopo la terza canzone dello show. Non c’erano più buone relazioni con i cantanti e i loro manager, stava diventando sempre meno vero.

Non ha rimpianto di aver smesso?
È stato un buon periodo ma a un certo punto ho scoperto che mi divertivo di più a fare altre cose che non a girare al seguito dei musicisti. Sto bene dalle mie parti, in Idaho. Mi piace sciare, pescare, e ho diverse moto. Anche una Ducati. Ottima moto.

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