Roma, geometrie razionaliste dell’Eur e la musica di un fantasma stralunato che torna a riecheggiare. Grazie a Simone Avincola, cantautore, che rimette in circolo Enzo Carella con un doppio gesto d’amore e di ricerca d’archivio: il libro Dolce tu per tu (su Amazon) e il disco Avincola canta Carella (su tutte le piattaforme), che debutta dal vivo il 13 settembre nella capitale al Largo Venue. Dentro c’è l’anima di un artista laterale ma ancora “radioattivo”, ricostruita inseguendo le testimonianze (di Samuele Bersani, Colapesce, Fulminacci, i Goblin, Galeffi, Maccio Capatonda, tra gli altri) e le foto originali dell’epoca. Ma soprattutto decifrata da chi oggi se lo porta ancora addosso.
Avincola, che ci ha raccontato questi progetti, non ha dubbi: «Con Pino Daniele ha portato il funk nella canzone italiana». Il paradosso è che per i giovani suona contemporaneo: «Se uscisse oggi sarebbe in classifica». Il mito, però, presenta crepe surreali, come nel suo stile: Sanremo ’79 come ferita aperta («era convinto di aver vinto») e un finale di partita crudele, con la discografia che non riconosce più nemmeno la sua voce al telefono: «Sono Enzo…» e dall’altra parte il silenzio. In mezzo, la scrittura obliqua con il poeta Pasquale Panella (Se non cantassi sarei nessuno come stazione obbligata) e il sogno che qualcosa freme in un cassetto: «Esistono dei provini, è possibile che la famiglia conservi materiale inedito».
Questa intervista ci catapulta lì, tra camicie hawaiane, boccette d’atropina, Lambrette e fughe rocambolesche: un “dolce tu per tu” con l’uomo, l’artista e l’ombra lunga delle sue canzoni. Per scoprire che Carella non è mai davvero andato via. Forse aspettava solo l’invito giusto per tornare a ballare.
Prima domanda classica: perché hai scelto proprio Enzo Carella?
È una domanda che mi faccio spesso e a cui nessuno mi aveva mai chiesto di rispondere. Quando dicevo che stavo lavorando al libro, c’era sempre qualcuno che commentava: «Enzo, se fosse per lui, non farebbe mai una cosa del genere». E forse è vero. Ma io subisco il fascino degli artisti con un’aura di mistero. Finora non avevo voluto scavare troppo perché, siccome anch’io sono un cantautore, pensavo che conoscere la “verità” mi avrebbe fatto perdere quel mistero. Però il libro nasce come un modo per ripercorrere la vita di una persona di cui non si trova in giro quasi nulla. E l’unica via era cercare chi lo aveva conosciuto.
Da chi o cosa sei partito?
Banalmente dai commenti sotto i post nella pagina Facebook di Enzo Carella. Dal tono capivi chi poteva essergli stato più amico. Da lì è cominciato tutto, in modo affascinante ed emozionante. Parli col primo e ti dice: «Dovresti sentire Stefano, quello che fece le foto per la copertina di Barbara». Si riferiva a Stefano Coronati, che poi mi ha regalato le fotografie originali del mosaico in copertina. Ho avvertito il suo affetto trattenuto per anni, qualcosa di prezioso che finalmente poteva tornare alla luce. Sempre con il rispetto e la delicatezza verso una persona che non c’è più, ma che molti hanno amato e amano ancora.
Forse la domanda andrebbe ribaltata: perché non un libro su Enzo Carella?
Esatto, perché no? I giornalisti o i critici musicali dovrebbero valorizzare di più certi artisti, senza pensare soltanto a cosa può diventare virale. Carella non è mai stato da classifica, ma questo non cancella il segno profondo che ha lasciato. Io sono felice se questo lavoro può dare un contributo alla “rinascita” di un grande artista. In Italia siamo pieni di queste figure che hanno prodotto opere di grande valore. Il gusto è soggettivo, ma la complessità e la statura artistica sono oggettive. Penso, per dirne uno, a Pasquale Panella, che ha scritto cose meravigliose ed è rimasto spesso nell’ombra. Il libro prova anche a chiedersi perché succede.
Perché, secondo te, Carella è scivolato in quello che definisci l’oblio del sommerso?
È un domandone. Alla fine del libro mi sono detto: «Forse non lo so davvero. E va bene così». Si sono sommate tante cose. Un po’ il suo carattere altalenante, poco amante dell’essere al centro dell’attenzione, pur credendo molto nel valore di ciò che faceva. E aveva ragione a crederci. Storicamente, insieme a Pino Daniele, ha portato il funk nella forma canzone in Italia. Poi c’è il contesto. In quegli anni di boom dei cantautori, paradossalmente, era molto più facile rimanere ai margini. Forse oggi sarebbe in classifica.
Cosa te lo fa pensare?
Ai concerti, dove reinterpreto le sue canzoni, vedo tanti ragazzi che lo scoprono sul momento e lo adorano. Credono perfino che sia un artista contemporaneo. Non a caso molti cantautori indie lo apprezzano enormemente e hanno assorbito anche qualcosa del suo stile. E poi c’era la scrittura di Panella. Ora ci appare criptica, ma immagina all’epoca, quando parlare d’amore voleva dire parlare di fiori e baci. Con loro l’amore, invece, diventava sottotesto.
Sono tanti gli artisti che sembrano ispirarsi a lui o che hanno provato a collaborarci. Come Maccio Capatonda, che in pochi sanno essere un suo fan.
Esatto! Pensa che, per pochissimo, non è riuscito a inserire una canzone di Carella in un suo film. Enzo stava male e di lì a poco se ne sarebbe andato. La storia assurda è che il giorno dell’uscita, Maccio apre il giornale e trova da una parte la recensione della sua pellicola e dall’altra la notizia della morte di Carella. Tutto tragicamente in linea col personaggio. Poi ci sono le testimonianze di Colapesce, che è uno dei pochi ad averlo frequentato nell’ultimo periodo, il più difficile. Mentre Samuele Bersani ricorda un altro periodo precedente, con grande dolcezza, quando Carella partecipò al Primo maggio. E guarda caso pioveva, quindi anche quella volta non fu certo un’esperienza indimenticabile.

Dal tuo libro emerge anche un mondo di camicie hawaiane, Lambrette, borsoni che volano giù dal quinto piano, perfino boccette di atropina. Un’Italia da cartolina.
Oltre a scoprire la sua storia e farla riscoprire era anche questo l’obiettivo. Un libro sull’innovazione artistica e tecnica di Carella, ma anche sul contesto di quegli anni. Le testimonianze sono in ordine cronologico, dagli anni ’60 al 2017, e si percepisce la trasformazione dell’Italia e soprattutto di Roma. È molto ambientato all’Eur, un quartiere che, con la sua architettura fascista e razionalista è anche un luogo surreale. E Carella era di lì. Attraverso di lui vediamo cambiare quella zona, la città, la discografia e il Paese.
Qual è l’aspetto, tra i tanti, che ti è rimasto più impresso di questo cambiamento?
Nel libro c’è una testimonianza di Francesco Micocci che oggi suona pazzesca. Racconta di come allora non ci fosse la rincorsa isterica ai numeri. Potevi pubblicare tre album, fare concerti e poi si decideva il tuo futuro. Non a caso Carella stesso accusa questa trasformazione dell’industria. Nell’ultimo periodo voleva fare un disco, ma quando chiamava gli uffici discografici, spesso, dall’altra parte non sapevano neppure chi fosse.
“Sono Enzo…”, diceva. E dall’altra parte il silenzio. Un episodio al quale sei più affezionato?
Quello di Sergio Colabona, regista e suo carissimo amico. Nel libro è funzionale perché mette in contatto una marea di nomi e amicizie, fino all’ultimo album di Carella. Ma soprattutto restituisce la loro amicizia fatta anche di cazzeggio creativo. Con dialoghi del genere: «Enzo, oggi che facciamo?». E Carella: «Mah, stiamo sdraiati sul divano a fare niente». Il bello del libro è proprio questo, che in fondo ognuno ha raccontato un aspetto umano diverso e per certi versi inedito. Ed è stato come comporre un ritratto.
A proposito di cazzeggio creativo, quali sono i momenti più alti?
Per esempio quello della festa della perdizione è pazzesco. L’avevano chiamata così tra amici. In pratica hanno invitato delle ragazze e il patto era di non farsi le canne per rimanere lucidi e «avere più possibilità». Ma alle 2 del pomeriggio erano già fuori. Poco prima che arrivassero, Sergio Colabona gli dice «Enzo, hai gli occhi rossi». Lui va in bagno a prendere il collirio, se lo mette e sembra tutto a posto. Ma dopo mezz’ora urla: «Ragà, non vedo più un cazzo!». Non si era accorto di aver usato l’atropina, un farmaco che dilata le pupille.
E quindi?
Come accade spesso nella sua vita, è un episodio assurdo ed emblematico. Aspettava da ore la serata con quelle ragazze, invece si è trovato a non vedere nulla mentre gli altri si divertivano. E poi ci sono i tempi di Carella, che non erano in linea con il mercato. Neanche di allora.
Cioè?
Sempre Sergio racconta quanto Michele Mondella, grande promoter del tour di Banana Republic con Lucio Dalla e Francesco De Gregori, amasse Carella e cercasse di promuoverlo. Andava spesso da lui mentre Enzo preparava un album, ma alla fine non si decideva mai a finirlo. E ha raccontato una scena da film. Mondella va a casa di Enzo per portarlo in studio, ma Carella aveva una partita di calcetto programmata ed era pronto a uscire con il borsone insieme all’amico Sergio. Così dice a Michele di attenderlo lì, lancia il borsone dalla finestra e si butta di corsa giù per le scale per poi sparire in auto. In pratica una fuga rocambolesca.
Un artista di difficile gestione?
Tutto questo ci descrive anche molto di più. Che Enzo sapeva di valere, di saper scrivere cose meravigliose, ma voleva anche vivere. Mi viene in mente una frase di Francesco Guccini: «Le canzoni sono una parte importante della mia vita, ma sono solo una parte. Non sono, per fortuna, tutta la mia vita». Ecco, credo che Enzo Carella la pensasse allo stesso modo.
Nel libro emergono anche i momenti più bui. Quali sono stati i peggiori?
Direi due periodi, seguendo le tracce discografiche. Dopo Sfinge, dal 1981 al 1992, sparisce per 11 anni. Nel libro provo a indagare e in un’intervista dice che è successo qualcosa, ma non lo spiega chiaramente: «Non vi posso dire cos’è successo, ma ho rotto con tutti e ho lasciato perdere». Insomma, a livello discografico resta un non detto, un cortocircuito nei rapporti con qualcuno dei responsabili delle case discografiche. Poi c’è l’ultimo periodo, particolarmente duro. Lo racconta bene anche Colapesce, che andò a trovarlo a casa. La perdita di Simone, amico carissimo che aveva iniziato ad arrangiare l’ultimo album, lo aveva colpito profondamente. Intorno a lui l’interesse era ormai ai minimi, la vita si era complicata e si è ritrovato a rivedere molte cose prima dell’uscita del disco.
Esistono brani o provini inediti di Enzo Carella?
So che esistono provini da qualche parte. Mi piacerebbe parlarne con la sorella di Carella, perché è possibile che abbia del materiale. Non gliel’ho ancora chiesto, perché quando ci siamo sentiti mi interessava soprattutto il lato umano. Ma è certo che voleva tornare. Il punto è che lui immaginava di farlo in un mondo discografico ormai scomparso. Il libro ha momenti divertenti ma lascia anche una certa malinconia. Quanti artisti meravigliosi ci passano davanti e non sappiamo comprenderli? Ma sono riuscito a far incontrare, dopo vent’anni, i musicisti che registrarono l’album Se non cantassi sarei nessuno e li ho portati sotto la casa dove registrarono e li ho fotografati. Un momento molto emozionante.
E c’è il rapporto con il poeta Pasquale Panella, che è un unicum nella discografia.
All’epoca ascoltare quei brani dava la sensazione di qualcosa di sfuggente. Per me la perla assoluta è proprio l’album Se non cantassi sarei nessuno, con sottotitolo L’Odissea di Panella Carella. In quell’album Panella mette a confronto l’uomo di oggi con l’uomo antico ed è pieno di citazioni. Capisci quanto il passato influisca nel presente. Invece Fabio Raponi, produttore artistico dell’ultimo album Ahoh Ye Nànà, racconta che Pasquale Panella gli mandava i testi via fax e tra loro c’era un dialogo serrato.
Nel 1979 Carella va anche a Sanremo ma, come al solito, ci arriva nel momento meno propizio. Il Festival in quegli anni era ai minimi storici e tornerà in auge dopo gli anni ’80.
Avendo raccolto molte testimonianze, tanti dicono che Enzo fosse convinto di aver vinto, ma che ci sia stata una manipolazione all’ultimo minuto. «Alla premiazione mi avevano messo per primo, ma quando stavo per salire mi hanno fatto passare davanti un altro» (vinse Mino Vergnaghi con Amare, ndr). Storie che Sanremo si porta dietro da sempre. Ma gli è rimasta dentro per tutta la vita. Credeva che, se avesse vinto, la sua vita sarebbe cambiata.
Intanto tu stai portando in giro le sue canzoni con un tour, con il disco Avincola canta Carella che coinvolge anche Anna Castiglia, Dente, Mille, Ciliari, e il libro Dolce tu per tu in uscita su Amazon. Credi che, dopo tutte queste iniziative, sia possibile una sua riscoperta, oppure persisterà una sorta di maledizione su Enzo Carella?
Io spero che accada qualcosa di simile a quanto è accaduto per Rino Gaetano. Negli anni ’70 era famoso, ma non come lo è diventato dopo. Mi auguro che il libro, il disco e i concerti accendano almeno la curiosità. Poi se la gente non compra i dischi, il libro e non viene ai live, non c’è molto da fare. Non è facile, specie lavorando in autonomia. Avevo trovato un editore, però ho preferito farlo da solo. Con più difficoltà, certamente, ma esattamente come me lo immaginavo. Non volevo fosse un’enciclopedia, mi interessava l’essere umano e l’artista.













