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Ensi: «Non sono uno che sfoggia il Rolex su Instagram e poi vive con quattro coinquilini»

Nell'EP ‘Oggi’, il rapper costruisce un ponte tra generazioni e sperimenta col sound. In questa intervista parla di ostentazione e playlist hip hop. «Oggi il rap arriva a tutti, ma chi ha voglia di approfondire?»

Foto Press

Ensi è famoso per essere uno di quei rapper da vedere dal vivo almeno una volta nella vita: i suoi concerti sono travolgenti e l’energia che riesce a trasmettere è quasi incendiaria. Soprattutto, è evidente che è il primo a divertirsi e a vivere per questo: il palco è casa sua, e ci si trova perfettamente a suo agio, anche se questo implica restare lontano dalla sua vera casa per diversi mesi all’anno.

Il 2020, quindi, è stato un anno parecchio anomalo per lui. «Erano undici anni che non stavo così tanto fermo, ci voleva una pandemia per farmi smettere di suonare in giro!», scherza al telefono. Per cause di forza maggiore, difficilmente ricomincerà a girare l’Italia in tour a breve: «La situazione non è rosea, perciò è inutile pensarci adesso», sospira. «È tutto talmente fluido e friabile che ogni show andrebbe modificato continuamente in base alle circostanze. Spero che lo Stato si prenda in carico il problema della cultura e dello spettacolo: in questo momento sta subendo un trattamento di serie D rispetto a tanti altri settori».

Trovandosi a disposizione molto più tempo libero del normale, il rapper ha deciso di impiegare questi mesi costruendo un nuovo progetto, che comincia con l’EP Oggi, in uscita venerdì 23 ottobre, e proseguirà in diverse altre modalità che ancora preferisce non svelare. «Vorrei accompagnare le persone in questo viaggio, in modo che venga compreso», dice, spiegando il motivo di cotanto mistero. «Non vorrei mai che un’ottima idea e un ottimo spunto artistico venissero presi come una semplice operazione di marketing».

Cosa significa il titolo Oggi, per te?
Potrebbe sembrare un po’ fuorviante o didascalico, anche per il periodo che stiamo vivendo, ma va letto nel contesto globale di questo progetto, di cui l’EP è solo una parte. In generale, quando ho riascoltato le tracce, mi sembrava che calzasse bene. A livello di testi parlo dell’ostentazione, del valore del tempo, dell’arte; ma sono anche più critico nei confronti della polizia, che purtroppo al momento è al centro del dibattito globale. A livello di beat, mi sono fatto accompagnare da produttori molto attuali, di generazioni successive alla mia: l’unica eccezione è Gemitaiz, ma nella sua carriera ha firmato solo due beat, uno dei quali è il mio, quindi come producer è un esordiente!

La copertina è costruita con i classici braccialetti che si usano per avere accesso al backstage: come mai?
In questo caso bisogna ringraziare anche Dee’mo (rapper italiano nonché art director, ndr). Abbiamo pensato a un oggetto riconoscibile da tutti, fan e addetti ai lavori, che esprimesse un concetto di universalità e particolarità, perché sì, i braccialetti dei concerti sono sempre uguali, ma ogni bracciale vale solo per un singolo concerto o evento. Ci piacerebbe creare anche una rappresentazione fisica della copertina, magari da allegare a un vinile: l’EP per ora esce solo in digitale, ma stiamo già pensando al futuro.

Io l’avevo interpretata in maniera diversa: pensavo sottintendesse che tutti vogliono entrare nel rap game partendo dall’area vip, anziché come semplici spettatori…
È un’altra chiave di lettura possibile, in effetti: è un’epoca in cui tutti vogliono un ruolo e un posto di rilievo in questo gioco, e il contesto ti fa pensare che tu possa farcela davvero a ottenerlo. Abbiamo trasformato il simbolo di quel potere in una sorta di opera d’arte grafica e poi l’abbiamo regalata a tutti, ed è altrettanto simbolico: è per sottolineare che la cosa importante è la musica, non il jet set della musica.

Tornando alle produzioni, storicamente nel rap esistono rapper fortissimi che non sanno scegliersi i beat (tipo Nas) e sono molto criticati per questo. Tu ti metti in gioco regolarmente con sonorità diverse, spesso rischiando anche parecchio: quanto è importante, per te, la scelta delle strumentali giuste?
È fondamentale: a differenza di quanto si potrebbe pensare, anche se vengo dal freestyle non sono molto rapido nella scrittura. C’è tutto uno studio, nell’adeguamento della voce e nell’utilizzo del flow, che parte per forza dalla scelta della base. Se il sound non mi convince, non vado da nessuna parte. Con Oggi, avendo scelto beat molto diversi tra di loro, sono riuscito ad approcciare tanti aspetti diversi della mia scrittura: Mari è un pezzo da club curato da Andry the Hitmaker; Non sei di qua ricorda i brani riflessivi dei primi anni 2000 anche se è stato prodotto da un ragazzo giovanissimo come Lazza di 333 Mob; grazie a Strage, Clamo ha un tiro che sembra quello dei Run the Jewels. Ho cercato di mischiare il più possibile le carte in tavola, alternando momenti molto tecnici a momenti in cui i testi sono più profondi e significativi.

Come ti sei trovato a lavorare con persone così giovani?
Volevo uscire un po’ dalla mia comfort zone: credo che sia il momento giusto per farlo, considerando anche il fatto che passerà parecchio tempo prima che tutti noi possiamo ricominciare a suonare dal vivo. È importante sfruttare questo tempo per approfondire qualcosa di nuovo. Alcuni di questi ragazzi hanno molti anni meno di me, e quindi non era scontato che ci fosse una sintonia immediata. Invece con tutti loro – anche con quelli che conoscevo di meno, come Chris Nolan e Andry the Hitmaker – è scattato subito un affiatamento. Idem per i featuring: Dani Faiv e Giaime sono rapper molto poliedrici, sanno essere profondi ma anche taglienti.

I classici hater del rap potrebbero obbiettare che la scelta di lavorare con artisti giovani e freschi sia un tentativo di svecchiare il tuo sound. Cosa risponderesti a questo tipo di critica?
Finora per fortuna non mi è mai stata mossa, neanche con i singoli pubblicati prima dell’uscita dell’EP. Non credo che sia sensata, comunque, perché ho sempre dimostrato apertura nei confronti di tutti i sound e tutte le generazioni: ho collaborato con Madame in un singolo mio, ho partecipato al primo album di Izi, ho lavorato con Lazza… Da parte mia non c’è antagonismo o competizione nei confronti degli artisti più giovani. So che alcune mie barre potrebbero essere interpretate come delle critiche alla nuova scena, ma sono soprattutto critiche nei confronti di alcuni atteggiamenti, non delle persone. Io stesso ho fatto parte di una generazione molto discussa, quella di mezzo, in cui i fasti degli anni ’90 stavano finendo ma quelli degli anni ’10 non erano ancora iniziati. C’erano dei lati negativi, ma quello positivo era che non c’era così tanta concorrenza e se eri bravo era più facile farti notare e fare la differenza: so che per loro è molto difficile, oggi. È grazie a tutto il mio vissuto se posso permettermi di raccontare certe cose, o di dire come la penso su alcuni aspetti un po’ deleteri del rap di oggi, senza per questo sembrare petulante o fare il maestrino.

A proposito di racconto del rap, hai passato tutto il lockdown in onda con il tuo programma su TRX Radio, Era ora, in cui approfondivi vari aspetti e personaggi che non trovavano molto spazio altrove.
Da fan dell’hip hop, cerco di parlare di ciò che mi piace. La radio l’ho sempre fatta: prima di TRX, che è un progetto in cui credo tanto, avevo già condotto programmi iconici come One Two One Two su Radio Deejay, e se posso farla a modo mio è ancora più bello. Oggi, grazie allo streaming, il rap arriva a tutti, ma quanti riescono davvero ad approfondire il contesto e ad appassionarsi ai contenuti? La dinamica delle playlist precompilate da un algoritmo è un po’ fredda, coglie solo la punta dell’iceberg. Con TRX Radio, che è un network iper-settoriale pensato da chi fa rap per chi fa e ascolta rap, abbiamo la possibilità di fare tutto quello che vogliamo, approfondendo la storia di questa cultura, ma anche portando alla luce tutte le novità che nelle radio mainstream magari passano inosservate.

Passare inosservati oggi è facile, con la quantità di contenuti che c’è. In Specialist dici “Ho sputato dei diamanti, non ho ancora fatto l’oro”, in riferimento al fatto che non hai ancora mai ottenuto una certificazione di disco d’oro. Un problema piuttosto sentito tra i tuoi colleghi
Vado molto fiero dei miei traguardi, sia chiaro. Spesso, però, ultimamente il sistema premia soprattutto la quantità a discapito della qualità, e i dischi d’oro e di platino sono diventati un metro di paragone: certo, i numeri non mentono e sono ben consapevole di quanto valgono, ma non possono essere l’unica cosa importante e non possono misurare l’arte. Non ne faccio una malattia, comunque, anche perché parte di questi numeri non arriva certo perché la canzone X è più bella di quella Y. Quella barra è critica, ma anche molto ironica e riflessiva: sarò senz’altro il primo a fare un post trionfale il giorno in cui arriverò al disco d’oro, ma in generale odio l’ostentazione, che si parli di soldi o che si parli di quantità di streaming. In vita mia ho lavorato tanto, con il mio mestiere riesco a mantenere una famiglia e per me è questa la vera ricchezza. Non ho mai speso i soldi del mio anticipo per comprarmi un Rolex da sfoggiare su Instagram, per poi vivere con quattro coinquilini perché non riesco a pagarmi l’affitto.

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