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Enrico Ruggeri: «Ai miei tempi i supereroi erano Flaiano e Pasolini. Oggi Balotelli e la Ferragni»

Il nuovo disco "Alma", il tour in due versioni (acustica ed elettronica), la musica, la politica, la tv. Il cantautore milanese a tutto tondo
Enrico Ruggeri

Foto di Angelo Trani

Una persona pacata, colta, intelligente e che sa il fatto suo. Enrico Ruggeri starei ad ascoltarlo per ore, perché sembra prenda la vita con leggerezza, senza farsi troppe menate. Parla dei massimi sistemi e della canzoni allo stesso modo, senza prendere troppo sul serio né le questioni in ballo né sé stesso. Così, mentre fa parte dell’Academy del talent show Sanremo Young su Rai1 e conduce Il falco e il gabbiano su Radio24, ha trovato il tempo anche di fare uscire Alma, album che arriva a tre anni di distanza dal suo ultimo disco solista Un viaggio incredibile.

Il nuovo progetto di inediti ha una cover originalissima disegnata dal pittore, imitatore e attore Dario Ballantini, grande amico di Enrico Ruggeri. Dal 4 aprile, poi, parte un tour che sottolinea la duplice anima del cantautore: alcuni concerti sono nei teatri, altri nei club per dare sfogo alla verve elettronica. SI parte con l’acoustic live da Chiusi e si finisce a Torino con l’electric versione del concerto.

Hai definito Alma uno dei tuoi lavori più importanti.
Sono passati tre anni dal mio ultimo album solo. In mezzo c’è stata una parentesi particolare, divertente, stimolante (la reunion dei Decibel, ndr). Comunque ho fatto un album che non poteva assomigliare ai miei lavori precedenti, ma neanche ai Decibel.

E quindi?
Ci ho messo un po’ di tempo, c’erano da fare un po’ di tentativi, di prove. Ho la fortuna di avere uno studio mio e, quindi, di non avere scadenze. Posso stare in studio anche mesi.

Che sistema hai usato?
Quello di prendere e suonare la canzoni, arrivare in studio suonando i brani. E poi, da lì, farli sentire agli altri, provarli prima in un modo, poi in un altro, sempre con la band in diretta: basso, chitarra, batteria, eccetera, sono stati fatti contemporaneamente. Alla fine il risultato mi piace.

Hai detto che i 60 anni sono un traguardo che non pensavi di raggiungere. Perché?
Ehehe. Se l’ho detto, l’ho detto ridendo. Semplicemente perché quando si inizia, a 20 anni, già i 40 sono un’età astratta, figuriamoci i 60.

Ho notato che, nelle canzoni di Alma, parli spesso di cambiamento.
È quasi un’ossessione, per me, fare cose diverse, cambiare e non ripetermi. E chiaramente è un’ossessione difficile da perseguire.

Come mai?
Quando arrivi al 35esimo album, fare cose che non hai fatto prima è molto complicato.

Nel primo estratto Come lacrime nella pioggia parli di paura. Cosa temi oggi?
Al di là delle paure comportamentali, come quella per la banalità, per l’ovvio, per lo scontato e l’omologato, ci sono paure più profonde che finiscono, in senso più ampio, con la paura della morte.

Io credevo che, sempre ascoltando il primo singolo, avessi paura delle catene della mente.
Sì, assolutamente. È un pezzo con un po’ di afflato spirituale. Le strutture che abbiamo, indubbiamente ci limitano.

Sembra che queste catene mentali, nel nostro Paese, abbiano attecchito bene.
Assolutamente. Anche nel dibattito politico. Ormai la divisione è più per tifoserie che per ideologie.

Cioè?
Ognuno legge i giornali, i blog, che lo rassicurano, ma non si informano sul pensiero della parte avversa. Questo succede nella politica, nello sport, nella musica, ognuno vuole essere rassicurato. Non esiste farsi domande sull’altro, ognuno si cristallizza e va su un territorio semplice, la comfort zone.
Non si avventura a capire cosa c’è dall’altra parte del muro.

Foto di Angelo Trani

Tra l’altro, qualche tempo fa, hai affermato che nei populismi c’è molto rancore.
Ormai c’è rancore da tutte le parti. C’è la delegittimazione dell’avversario, si vota contro, non si vota a favore di un progetto.

Cosa che, inevitabilmente, si riversa in ambiti come i social.
I social sono un esempio incredibile: leggi persone che augurano la morte a te e ai tuoi figli. Tu non pensi di conoscere chi farebbe o scriverebbe cose simili. E invece sono tra di noi, sono insospettabili. Poi se guardi i profili di questa gente, magari li vedi con il figlio in braccio, anche se si augurano che la tua famiglia venga stermininata. Oppure pubblicano gattini e sperano che venga un cancro a tutte le persone che ami.

Che poi, se li becchi di persona, non hanno il coraggio di dirti nulla.
A me non è mai capitato che qualcuno mi aggredisse verbalmente guardandomi in faccia. Hanno anche fatto esperimenti e rintracciato gli hater che poi, davanti alla persona ritrattano, diventano agnellini e, anzi, chiedono di farsi la foto assieme.

Senti, già che siamo in tema di populismo, so che te lo chiedono da 30 anni, ma davvero – nonostante ti definiscano un uomo di destra – non hai quelle idee lì.
Mi limito di dire che, nella Milano degli anni ’70, c’era un regime, il pensiero unico. Mi irrita il pensiero unico: sarei stato antibonapartista sotto Bonaparte e antifascista negli anni ’20. Io ero nel mio liceo quando tutta la scuola appaludì alla notizia della morte di Calabresi. E nessuno ebbe il coraggio di non applaudire. Professori compresi. Per il resto ho scritto anche contro la pena di morte. La mia vita testimonia, credo, la mia pluralità. Anche il fatto che mi insultino da destra dandomi del comunista e da sinistra dandomi del fascista è una medaglia che mi appendo volentieri.

Ok, ma come vedi questo Governo?
Mi sembra che entrambe le parti siano più interessate a parlare dei migranti che del resto. Proprio per quello che dicevamo prima, la comfort zone. Entrambi, ormai, sono dialetticamente a loro agio su questo tema, mentre sono più in difficoltà su altre cose.

Tipo?
Il rapporto tra lo Stato e le banche, ci sono un sacco di cose che non funzionano, ma sono un po’ più complesse. Mentre sui migranti ognuno ripete il suo mantra: una parte che bisogna accoglierli perché sono esseri umani, l’altra parte che dice «Ma portateli a casa tu». Insomma, le cose che sappiamo.

E cosa ne deriva?
Che non rischia nessuno. Vanno sul sicuro. Non possono sbagliare, no? In un comizio, di destra o di sinistra, se vai lì e parli dei migranti l’applauso lo prendi.

Torniamo al disco. Nel brano Un pallone parli Iqbal Masih, bambino-simbolo del lavoro minorile.
La canzone è nata approfondendo la storia durante Il falco e il gabbiano, il programma che conduco su Radio 24. Ho cercato di vestirla di poesia, immaginando questo bambino che costruisce palloni – per coetanei più fortunati di lui o, addirittura, per le star del calcio – mentre è chiuso in un capannone, pur essendo un ragazzino come gli altri. In realtà, poi, Iqbal faceva tappeti, non palloni.

In questo pezzo c’è anche un riferimento alla speranza di vedere il papà assistere a una partitella. C’è qualcosa di tuo, immagino.
Sì. Nella contingenza la storia di Iqbal parte perché il padre lo vende per 10 dollari. È anche contestualizzata, ma il padre che ti guarda giocare a pallone è un’immagine dell’infanzia molto forte. È suggestiva, tutti ci abbiamo pensato: sia chi aveva il padre che li guardava giocare, sia chi aveva il padre che non li guardava.

In Supereroi mi ha fatto divertire il voler rendere Batman o Spider-man più cattivi di quello che sono.
La musica è di Fulvio Muzio. Ascoltavo la canzone, a casa, cantata in inglese maccheronico. E i miei figli si erano entusiasmati, la cantavano e mi è venuta in mente l’idea di scrivere un brano per bambini leggibile anche dagli adulti. Ho scritto questa cosa pensando ai miei figli, pensando a una doppia chiave di lettura. Che è una roba che non ho inventato io. Mi viene in mente Bennato, per esempio, che in questo è stato un maestro.

Be’, allora dimmi che supereroe vorresti essere a questo punto.
Venendo dalla generazione punk mi piaceva Ranxerox, un mutante mezzo computer e mezzo uomo. Si parla degli anni ’80, era un supereroe totalmente scorretto, con la fidanzata eroinomane. Era cyberpunk.

E chi sono oggi, se ce ne sono, i supereroi.
Sono un po’ volgarotti, i calciatori, gli influencer. Io, che da ragazzo ho fatto in tempo a vedere come influencer Flaiano e Pasolini, adesso sono un po’ smarrito di fronte ai supereroi di oggi. Poi certo, ogni tanto ci riempiamo la bocca dicendo che il supereroe è il premio Nobel, come Mandela o San Suu Kyi, ma in realtà i supereroi di oggi sono Cristiano Ronaldo, Balotelli e la Ferragni. Sono questi.

Capito. Restiamo sul terreno del disco. Un brano si intitola Punto di rottura. Qual è stato il tuo?
Non ne ho avuto uno in particolare. Certo, magari ti separi dalla moglie e devi andare dall’avvocato a parlare, sono cose che capitano nella vita di tutti. Per fortuna sono uno che ha un punto di rottura di dieci minuti, poi sono in studio a registrare e mi faccio passare tutto.

Anche perché ti devi preparare per un tour dalle due anime.
Da un lato mi piace la dimensione acustica, in cui si va alla radice delle canzoni e si scopre la musicalità e il testo. Per contro amo anche fare qualcosa in cui si picchia un po’ più duro.

Parliamo di tv, visto che sei parecchio rodato anche in questo ambito. Prima cosa: vorresti portare il programma che conduci in radio sul piccolo schermo?
Se n’è parlato tante volte, ma secondo me non avrebbe la stessa efficacia.

Perché?
Ci vuole qualcuno che abbia voglia di investire veramente, il programma più bello di storytelling in televisione è Federico Buffa racconta, su Sky. Però lui, per intervistare Maradona, va in Argentina e passeggia sotto casa di Maradona. È un programma molto articolato, molto costoso, molto bello.

Quindi ti piacerebbe?
In astratto sì, in concreto si tratterebbe di infilarsi in meccanismi che poi, magari, invece di Iqbal Masih mi chiederebbero di fare il figlio di Beckham. Con la televisione, oggi, rischi di sporcarti le mani subito.

E tu te le sei sporcate (si scherza) con Noemi a Sanremo Young. Avete fatto pace?
La chiamo Nohemian Raphsody (ride, ndr).

Avete discusso per questo concorrente, Eden, che fa una sorta di operatic pop. Molti lo fanno nero. Tu e Amanda Lear, ad esempio non lo amate tantissimo.
Be’ sì, è una corrente di pensiero. A me non piace la lirica nel pop. Non mi piace, francamente, neanche con esempi ben più llustri. Un po’ mi terrorizza il fatto che l’italiano all’estero sia quella roba lì. Immagino che anche i Sepultura siano abbastanza depressi perché quando si pensa al Brasile si pensa a Ugegé, mentre loro fanno tutt’altra musica pur essendo carioca. Così come un gruppo punk messicano immagino soffra dell’immagine che abbiamo dei messicani col sombrero e la chitarra alta tipo Gipsy Kings.
Rimane l’amarezza che l’Italia sia conosciuta per quello.

Però c’è dell’aria nuova, A Sanremo ha vinto Mahmood. Che ne pensi? Ti piace?
Ma sì. In generale sento sempre delle belle canzoni. Fatico a trovare dei bei progetti. Penso che devo scaricarmi l’applicazione per ascoltarmi i brani di Mahmood, poi arrivo a casa, metto su Emerson, Lake & Palmer e mi dimentico, ecco. Ma è un limite mio eh!

E cosa mi dici dei talent? Tu che, in passato, sei stato giudice di X Factor ti sarai accorto che i ragazzi che escono da lì durano, al massimo, due stagioni.
Eh sì. C’è un po’ di saturazione. Sono ormai quindici anni di talent, quantomeno doppio. Se ognuno tira fuori tre personaggi l’anno, a un certo punto il mercato non li regge più. Poi sono molto simili, hanno gli stessi autori, le canzoni sono intercambiabili.

Solo questo?
Il limite dei talent è che la gente sposa dei progetti. La gente va a vedere Vasco Rossi non perché è portatore di bel canto, ma perché si riconosce in una “linea editoriale”. Questo vale per quasi tutti i cantanti famosi italiani, me compreso. Vale per Paolo Conte, Capossela, Ligabue, De Gregori. Tutte persone che sarebbero state eliminate in un talent show.

Ok, ma tra le nuove leve chi ti piace? Ci sono un sacco di nuovi cantautori interessanti: da Franco 126 a Ghali, da Calcutta a Gazzelle.
Guarda, io sono veramente distratto. E molto limitato dal fatto che ho una tale varietà di musica che mi appaga che arrivo a casa e mi dico: «Che faccio? Mi ascolto il nuovo album di tizio o metto su London calling dei Clash?». La mia pigrizia e il fatto di avere a casa dischi così belli fanno sì che, alla fine, passa il tempo continuando ad ascoltare la stessa musica.

Continuando a parlare di tv: Ora o mai più lo faresti?
No. È molto divertente da vedere, spietato già nel titolo, che è terribile. Sicuramente mi rendo conto che è un programma efficace. Non lo farei perché poi io canto col mio allievo, ma devo votare il tuo che però hai votato male il mio. Per carità. È una roba molto esasperata.

Foto di Angelo Trani

Come avrai visto anche dall’Isola dei Famosi, si sta un po’ toccando il fondo. Soluzioni?
Non a breve. Oggi sono tempi davvero grossolani. Non si rischia di impegnare il proprio pensiero. La televisione non rischia e fare cose di buon livello è rischioso. Ti faccio un esempio: sono in autogrill. Se da una parte ci fosse uno che recita Khalil Gibran e dalla parte opposta due che si menano, io mi girerei a guardare i due che si menano. È istintivo. In qualche modo tutta la comunicazione si basa su questo principio e, di conseguenza, il livello si abbassa.

Ma visti gli ascolti dei reality, forse la gente si è un po’ stancata. No?
C’è anche questo afflato di speranza. Speriamo non arrivi qualcosa di peggiore, tipo il Jerry Springer Show in America dove si menano e la gente arriva con l’amante in diretta. Speriamo, ma è faticoso alzare il livello, perché comporta studiare, leggere, mettersi dubbi, ascoltare il pensiero di un altro. È tutto un’impegno completamente diverso.

Prima di chiudere l’ntervista ho una curiosità: qualche tempo fa, durante una nostra intervista, Ornella Vanoni disse che, in Italia, il rock non esiste.
Non sono d’accordo. La definizione di rock è ampia e complessa. Da almeno 40 anni il vissuto di un ragazzo di Gratosoglio e di Brixton è abbastanza simile. È più suggestiva la lingua inglese, per il rock. In qualche modo ci sono esempi di canzoni di cui non capiamo neanche il testo, ma ci piace il suono, la fonetica e ci sembra sia nato solo per i britannici. Poi ci sono un sacco di esempi che testimoniano il contrario e io spero di essere uno di questi.

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