Emidio Clementi a Tangeri con El~Muniria, «per fare un disco folle e avventato» | Rolling Stone Italia
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Emidio Clementi a Tangeri con El~Muniria, «per fare un disco folle e avventato»

Lo scrittore e musicista ripensa a 'Stanza 218', l'album inciso in Marocco nel 2002 e ora ristampato, misura la differenza con le ultime generazioni, racconta i suoi progetti. Sì, c'entrano i Massimo Volume

Emidio Clementi a Tangeri con El~Muniria, «per fare un disco folle e avventato»

Songs from a Room: Emidio Clementi nel 2021 ripensa a 'Stanza 218'

Foto: Roberto Serra/Iguana Press/Getty Images

«Se c’è una cosa importante che quel disco mi ha fatto capire, è che per scrivere i testi ho bisogno di quella stanza ammobiliata che è la musica». Rivisitare il se stesso di diciassette anni prima può essere un esercizio dolce, malinconico, a volte complicato. Mentre racconta l’esperienza degli El~Muniria, Emidio Clementi oscilla tra il compassato distacco che il passare del tempo inevitabilmente comporta e un evidente affetto per quell'”esperimento” strano e avventuroso che ha lasciato in eredità uno dei lavori più affascinanti, inclassificabili e alieni non solo nella carriera artistica di Clementi ma in generale della musica italiana degli ultimi vent’anni.

La metafora della musica come stanza ammobiliata non è casuale: la Stanza 218 che dava il titolo all’unico album degli El~Muniria – pubblicato su CD nel 2004 dalla Homesleep e ristampato ora per la prima volta in vinile dalla Loveboat, con allegato un album gemello solo in digitale di remix a cura di vari artisti (Arrogalla, Paul Beauchamp, Bienoise, Blak Saagan, Maria Valentina Chirico, FERA, Healing Force Project, Merchants, Nirtstrøm & Prins Pomas, Claudio Rocchetti, SabaSaba, selfimperfectionist, Ben Seretan, Spano. e Stromboli) – era una delle due camere prese in affitto per un mese e mezzo, alla fine dell’estate 2002, in uno scalcinato hotel di Tangeri. Ci abitarono Clementi, Massimo Carozzi, musicista sperimentale già nel giro dei Massimo Volume (in quel momento appena messi in pausa, uno stand by che all’epoca sembrava però uno scioglimento definitivo) e inizialmente anche Dario Parisini dei Disciplinatha. Nell’altra stanza c’era uno studio mobile.

I tre erano partiti in autobus da Bologna portandosi dietro tutta l’attrezzatura. L’idea, appunto, era di «scrivere e incidere un disco in modo completamente diverso, in diretta, farsi ispirare dal viaggio e dal luogo per certi versi estremo, perché Tangeri era indubbiamente una città difficile. Insomma, distaccarmi da ciò che ero abituato a fare con i Massimo Volume, cioè entrare in studio con un disco già scritto e farne la bella copia».

A Tangeri nel 2002. Foto press

La gestazione del progetto, che nelle primissime fasi vide coinvolto anche Teho Teardo, non fu semplice, e presto all’eccitazione iniziale per la dimensione spontanea e esotica della faccenda si sostituirono incomprensioni di varia natura, con l’abbandono di Parisini prima e il ritorno in Italia di Clementi e Carozzi dopo, nello zaino uno scheletro di album che venne poi completato e terminato a Bologna con l’apporto di altri musicisti (da Giacomo Fiorenza a Steve Piccolo, che scrive e canta l’unico brano in inglese della scaletta). L’opinione di Clementi su quell’avventura è ambivalente, e ce la descrive via Zoom dalla sua casa bolognese. Camicia con le maniche arrotolate, cravatta, libreria strabordante di volumi alle spalle, sembra davvero il professore di scrittura creativa che in effetti è.

«C’era la voglia di fare qualcosa di folle e di avventato, ma per portare a casa il risultato in casi come quelli serve una grande complicità, devi azzeccare il momento. Tornammo a Bologna con un disco a metà, di cui non eravamo pienamente soddisfatti. Ripensandoci ora la vedo come un’esperienza profonda da un lato e un parziale fallimento dall’altro». Di sicuro non fu un fallimento l’album finito: un ipnotico, febbrile incastro tra l’arsenale poetico di Clementi e le atmosfere sonore liquide, psichedeliche, fortemente impostate sulla strumentazione elettronica di Carozzi ma anche con eccellenti passaggi chitarristici di Parisini.

Riascoltato oggi, Stanza 218 è un lavoro in cui emerge un forte senso di attesa da un lato e di dislocamento, forse non solo fisico, dall’altro. Vengono in mente William Burroughs e Paul Bowles. Il Marocco in fondo è un luogo dove è facile perdersi per provare a ritrovarsi…
Bowles è possibile che mi abbia influenzato, Burroughs direi di no perché non l’ho mai letto, lo conosco davvero poco. Un altro scrittore che ha fatto da ispirazione all’epoca è Mohamed Choukri, grande intellettuale marocchino che tra l’altro conoscemmo proprio a Tangeri. Quel senso di attesa e di decentramento c’era, sicuramente. Non era facile integrarsi in quella situazione, forse c’entrava anche il periodo particolare in cui mi trovavo allora.

Come situi l’esperienza degli El~Muniria nel tuo percorso artistico? Avevi tentato qualcosa di inedito nella scrittura, che poi magari ti sei portato dietro successivamente?
Avevo l’idea di usare la parola più ritmicamente di quanto avessi fatto in passato. Ci sono diverse frasi che si ripetono, che in qualche modo riflettono l’iterazione del suono elettronico. I testi sono nati tutti dopo la musica, più di quanto accadesse con i Massimo Volume. Fu lì che capii quanto è importante per me appoggiarmi al sostrato musicale. Ho cercato anche di sciogliermi un po’ dalle catene del senso, cosa per me non semplice perché nella scrittura sono molto legato a un approccio realistico. Ma il bello della poesia è proprio che ci libera dal senso, no? Tornando al decentramento di cui parlavamo prima, ci sono dei testi in Stanza 218 nei quali non si riesce a capire la collocazione temporale. Un espediente che ho derivato da Dylan, a volte senti delle sue canzoni e non sai se il racconto è ambientato negli anni ’70 o nel West di fine Ottocento. Mi piace quella ambiguità. Riguardo al come vedo quel disco oggi, credo che la distanza temporale sfumi le cose, quello che una volta era una fotografia di un momento diventa un dipinto. Che tra l’altro è proprio l’idea che volevamo dare con la copertina della ristampa, che è l’elaborazione pittorica di Maurizio Lacavalla della fotografia che originariamente faceva da cover all’album.

‘Stanza 218’: la copertina originale, la rielaborazione pittorica per la ristampa, la cover del disco di remix

Cosa pensi dei remix dei brani abbinati alla ristampa?
Mi piacciono, li trovo interessanti. Non è tanto il mio mondo, gran parte degli artisti non li conoscevo, ma mi rende orgoglioso sentire come hanno elaborato il materiale che abbiamo scritto quasi vent’anni fa, aggiungendo la loro cifra stilistica.

La prima frase del disco, cioè l’attacco di Santo, oggi suona involontariamente profetica rispetto all’attualità degli ultimi due anni: “Amico, tutto ciò che separa è santo, è finto il tempo dei sorrisi”. Mi auguro che prima o poi finiremo di fare questa domanda a tutti, ma tu come hai vissuto il lockdown?
Non vorrei sembrare cinico, ma all’inizio neanche malissimo, sembrava una specie di vacanza. Ero in affanno su un sacco di cose, di scadenze, e quel periodo di forzata immobilità mi ha permesso di ricaricare le pile. Ho vissuto un momento molto creativo, ho letto molto. Poi certo, è stato anche orribile. Soprattutto il secondo lockdown l’ho patito molto, perché poi a un certo punto si infiltra la vita. Non so, non riesco a fare grandi riflessioni su quel periodo. A un certo punto volevo solo che finisse.

Tu sei un autore che non ha mai mascherato le sue influenze, citando espressamente più volte i tuoi maestri e le tue ispirazioni, che fossero Sam Shepard o Jim Carroll, Emanuel Carnevali o John Cheever. Come ti senti oggi che in qualche modo sei diventato per qualche giovane musicista o scrittore anche tu un “maestro”?
No guarda, non lo dico per falsa modestia ma maestro non mi ci sento proprio. Quanto alle citazioni, sì, mi piacciono, non è un mistero (ride). A volte, vedendomi dal di fuori penso «ma no, dai, non puoi di nuovo dare il titolo a un disco citando qualcun altro», come per esempio con Il nuotatore. Alla fine però quel titolo era perfetto per quel disco. In fondo è anche un metodo di lavoro: davanti alla pagina bianca spesso mi affido per partire a qualcosa che non è mio, mi piace quando riesco a creare uno spin-off anche solo di una semplice frase altrui.

Come ti rapporti alle produzioni, musicali e letterarie, di chi oggi è molto più giovane di te? Riesci a ritrovarti in quello che raccontano?
Torno alla questione delle citazioni: se ci fai caso, quasi sempre gli scrittori citano altri scrittori purché siano morti. Perché i morti sono più innocui, c’è sempre una forma di competizione con i contemporanei e si fa più fatica ad accettarne la grandezza. Io quando me ne accorgo, della bellezza e dell’importanza di qualcosa, le accetto anche se non le capisco fino in fondo. In letteratura è più facile, perché i tempi sono maggiormente dilatati rispetto alla musica. Riconosco la bravura di molti musicisti giovani, ma spesso mi limito a quello. Per esempio, Fulminacci mi sembra uno molto in gamba, usa immagini che trovo vive e efficaci, ma da lì a mettere su un suo disco ce ne passa. Un certo ambito sonoro, lo ammetto, mi manca completamente.

Clementi, Parisini e Carozzi a Tangeri nel settembre 2002. Foto press

Qualche anno fa in un’intervista mi dicesti che la tua generazione musicale usava nei testi l'”io” mentre quelli più giovani utilizzano spesso il “noi”. Lo pensi ancora?
Sì, ma c’è anche un altro aspetto sul quale credo che le nuove generazioni siano superiori rispetto alla mia. Sono bravi a descrivere il loro contesto, quello che li circonda, che sia la gelateria sotto casa o il liceo dei Parioli. Noi ci vergognavamo di quello che avevamo intorno, ci rapportavamo ossessivamente a una cultura che non era la nostra. Siamo cresciuti in un paesaggio che non ci apparteneva, io tuttora riesco a provare nostalgia su un disco di Neil Young, che parla di situazioni e luoghi che non ho mai visto, piuttosto che su un disco che racconta la realtà italiana. I giovani hanno uno sguardo diverso, in questo sono meno ridicoli e ingenui di noi. Quando la WEA mise sotto contratto i Massimo Volume le case discografiche cercavano tutte i nuovi Nirvana, pure in Italia. Si diceva che il cantautorato fosse morto, poi abbiamo visto che non è stato così. Ma la nostra generazione non aveva comunque il respiro per uscire dai confini. Forse un giorno vedremo nascere anche in Italia una scena simile al krautrock o al tropicalismo, qualcosa che riesce a rinnovare profondamente la tradizione nazionale ma anche capace di farsi capire a livello internazionale. Magari sarà una scena più elegante e seducente di quella attuale. Di sicuro non potevamo riuscirci noi, derivativi come eravamo.

Non pensi che una proposta musicale come quella dei Massimo Volume – o degli El~Muniria, per restare in tema – possa avere un rapporto complicato con le modalità attuali di consumo musicale, con la soglia di attenzione che si abbassa sempre di più?
In effetti è così. Mi torna in mente un critico jazz che recentemente ha detto che siamo tornati all’epoca del 78 giri. Devi giocarti tutte le carte nei primi 20 secondi, come quando Armstrong azzeccava subito un tema che ti restava in testa. Ma d’altra parte è sempre stato così, certe cose si sono sempre rivolte a una nicchia. Quando andavi a scuola, quanti dei tuoi compagni erano interessati alla musica che ascoltavi? Certa musica, certa letteratura, possono riservarti grandi emozioni e anche essere molto faticose, per non dire pallose. Diciamolo pure, anche i Massimo Volume possono essere pallosi. Quando mi chiedono «ma non ti dispiace che non abbiate avuto il riconoscimento che meritate?» rispondo «ma cosa avremmo dovuto ottenere di più?». Va già bene così. Cosa vuoi, accendere la radio e sentire i Massimo Volume? Ma dai, per favore. Il mondo ha anche bisogno d’altro, ha bisogno di cose pop.

Lo studio con cui venne inciso ‘Stanza 218’. Foto press

Cosa ti appassiona in questo periodo, da ascoltare e da leggere?
Mi piace un poeta inglese, Tony Harrison, che ho utilizzato parecchio come ispirazione quando scrivevo i testi de Il nuotatore. Musicalmente apprezzo molto Kae Tempest, ma devo dire più per il format artistico con cui si esprime, quel misto di spoken word e rap che però non è davvero nessuna delle due cose, che per l’aspetto poetico. Anche qui, mi manca qualcosa. Forse più realismo. Non so, vorrei più semafori, gente che apre una porta, cose del genere (ride).

Su cosa stai lavorando, al momento?
Sto finendo un libro, sarà un romanzo a episodi con gli stessi protagonisti che tornano in racconti diversi, alternando la narrazione in prima persona a quella in terza. E poi c’è l’idea di tornare a scrivere per i Massimo Volume, adesso che abbiamo finalmente messo a riposare Il nuotatore avendo concluso il tour.

Possibilità di ascoltare dal vivo gli El~Muniria?
Non credo, è troppo complicato ridare vita a un disco in quel modo. E poi ricordo che già all’epoca era un casino, con i computer che si inceppavano e ci voleva mezz’ora per ricaricarli. No, meglio riascoltare il disco, credimi.

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