La prima volta che ho ascoltato Ele A ho pensato: finalmente una donna italiana che rappa bene. Una casella che forse era rimasta vuota dai tempi de La Pina e Carrie D, parzialmente coperta negli ultimi anni da Anna che però ha sempre preferito la trap. Ho scoperto, poco dopo, che Ele A è svizzera. Peccato, ma poco importa, il segno che la giovane rapper (appena 23 anni) sta lasciando è già visibile sulla scena del nostro Paese.
Per lei si sono mossi i più grandi: Neffa l’ha chiamata per il suo ritorno al rap; con Guè ci ha già collaborato tre volte (una su Sacrosanto di DJ Shocca); Fabri Fibra l’ha voluta sul palco per un remake di un classico della sua discografia, Luna piena. A tutti gli effetti è diventata, parafrasando un gioco lessicale che tanto piace ultimamente, la rapper preferita del tuo rapper preferito.
La sua immagine, però, è all’opposto di quella dei rapper canonici. Così come la sua storia. È cresciuta in un paesino di 300 abitanti («tutti vecchi») tra le montagne del Canton Ticino; i genitori le hanno imposto di studiare il violoncello e la musica classica; ha il viso pulito e nessuna street credibility alle spalle. Ed è timida, molto. Lassù tra i monti ascoltava Notorious B.I.G., che ama citare nei pezzi, ma anche Gemitaiz e Fabri Fibra. Tra questi contrasti, si sente un ibrido, una rapper a cui piace sperimentare, una giovane donna svizzera alla conquista del mercato italiano. Per noi, è sicuramente una delle penne più fresche della scena, con quel modo tutto suo di mischiare italiano e inglesismi (quando parla è tutto un crazy, uno struggle, una shit), tenendo in mano la old school senza la paura di flirtare con produzioni che giocano, a seconda dei casi, con il pop o ritmiche UK. «Manca un po’ di coraggio», dice parlando della scena. Ma lei, Ele A, di coraggio ne ha eccome. Nonostante l’ansia pre-shooting che sta gestendo quando ci incontriamo sul set.
Venerdì uscirà Pixel quello che, dopo una serie di EP, è a tutti gli effetti il suo primo disco. La conferma di quanto ben fatto finora, con la certezza di trovarsi di fronte a una donna che sa quello che vuole: «La pressione che sento deriva dal fatto che non ho più 18 anni e sono consapevole che essendo una donna c’è un limite di età per raggiungere un certo tipo di successo, per arrivare un punto dove poter continuare la carriera tranquillamente». Quel limite, per Ele A, sono i 30 anni. Da YouTube al primo disco, dalla Svizzera all’Italia (dove sarà a tour a marzo con date il 2 a Milano, il 6 a Bologna, l 7 a Roncade, l’11 a Roma e il 12 Firenze), è pronta a prendersi tutto prima di quella data con idea precisa: «Non farei mai San Siro con delle canzoni di merda».

Foto: Dino Junior Gulino. Outfit: Camicia JW Anderson, Cravatta Avantgarde Research, Pantalone JUUNJ, Scarpe Timberland, Borsa Lacoste
Come arrivi a questo disco? Hai una certa ansia?
Ma in realtà no. La prendo con molta filosofia; sono consapevole del fatto che non puoi comandare la reazione della gente. Sono abbastanza serena con quel che ho fatto, ci sono dei pezzi dentro al disco che mi piacciono veramente ed è un po’ la prima volta che mi succede, che proprio mi viene voglia di ascoltare dei pezzi che ho fatto io. Cioè, prima avevo quel feeling di quando ascolti un tuo stesso memo vocale e dici «ma che cazzo».
Gli artisti si dividono in due categorie: quelli che odiano risentirsi e quelli che si riascoltano, e che magari ti fanno sentire i pezzi prima che escano chiedendoti un parere (e tu devi star lì ad ascoltare con quella pressione). Penso di aver capito da che lato stai.
Prima ero molto più sensibile su questo, infatti non facevo ascoltare niente a nessuno perché mi condizionava. Cioè magari ti aspetti che la persona reagisca tipo «oh shit, è il pezzo della vita», e invece ha una reazione più tiepida. Ecco, preferisco evitare.
Quindi non hai delle persone di fiducia a cui fai sentire la tua roba prima che esca.
Nel mio secondo EP c’è un pezzo che si chiama Jeans. Avevo fatto sentire la demo a una cara amica. Mancava ancora il ritornello e ci avevo messo del mumbling. Quando poi ho pubblicato il brano la mia amica mi diceva che era meglio la versione demo, perché aveva un’altra vibe. Quindi non faccio mai sentire robe a metà. Io stessa preferisco non attaccarmi troppo alle demo, se no non riesco a finirle. Se no è una struggle.
È un po’ come per chi scrive sui type beat. Magari il pezzo è una bomba, ma non potrai mai trovare lo stesso feeling su un altro beat. Tu hai iniziato a rappare così, sui type beat?
Sì, rubandoli spudoratamente su YouTube.
Come sei arrivata al rap?
Il primo approccio è stato alle elementari, perché c’era un mio compagno di classe – che era tipo il bambino più figo della scuola, capito? – che si vestiva mega largo, faceva breakdance, tutte ’ste robe.
Di già? Alle elementari?
Era veramente troppo stiloso. E lui ascoltava Fabri Fibra, e aveva la maglietta “Io odio Fabri Fibra”.
Ah, proprio il primo Fibra in classifica.
Esatto, perché chiaramente altre robe da noi non arrivavano. La radio svizzera non passava il rap. Lui mi ha fatto sentire Tranne te su YouTube; era l’unica canzone rap che conoscevamo. E lì ho pensato che le BMX, i graffiti erano proprio la mia vibe, ero attratta da quella cultura. Poi ho scoperto Gemitaiz. E mi sono scaricata Quello che vi consiglio vol. 2 da YouTube. E solo grazie a YouTube che ho iniziato a rappare (ride).
Penso sia comune nella tua generazione. Tra l’altro tu hai studiato musica classica e violoncello. Il rap ha rappresentato una reazione, una ribellione? Ci sono cose da quegli studi che pensi abbiano influenzato la tua visione della musica?
La musica ha sempre fatto parte della mia vita, è l’unica cosa cui penso tutto il giorno, tutti i giorni. Mi sono attaccata così tanto al rap anche perché era esattamente l’opposto di quello che non volevo fare. Faccio fatica, oggi, ad apprezzare come dovrei il repertorio che ho studiato, non mi ha mai dato quello che cercavo. Suonare uno strumento però mi ha dato tanto a livello di disciplina e sacrifici: è come uno sport, alla fine capisci che senza sacrifici non ottieni niente, che per seguire la tua passione devi farti il culo. E l’ho visto osservando i miei lavorare, vedendo tutte le persone intorno a me che magari hanno continuato a fare musica e che si sbattono per sperare di sopravviverci.
Spesso nei brani citi la old school e in particolare Biggie. Vorrei capire come una roba fatta 30 anni fa negli States sia riuscita a parlare con una pre-adolescente di un paesino sulle montagne svizzere.
La roba che apprezzo di più è la musica, cioè al di là dei testi – le parole sono importantissime, certo – gli americani hanno un modo di stare sul beat che è veramente come uno strumento, è come un assolo di sassofono. La cosa che mi ha preso subito è il flow, il bounce. Il rap anni ’90 campionava tantissimi musicisti jazz, soul, e a me quella cosa mi è sempre piaciuta molto. Sono sempre stata attratta dalle sonorità jazzate, dalle cose più stilose.
E ti ha spinto a rappare.
Sì, ma in modo molto spontaneo. Mi divertivo a fare freestyle con mio fratello, coi miei amici. Mi piace scrivere e ho sempre scritto, sin dalle elementari. Il rap era la fusione perfetta tra le cose che mi piacevano.

Foto: Dino Junior Gulino. Outfit: Bomber Nike. Pantalone Nike. Scarpe Nike X Martine Rose

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L’universo hip hop si costruisce attorno ai concetti di crew e comunità. Come funzionava dalle tue parti? Creare una community era qualcosa di possibile?
Abitavo in un paese di 300 persone di cui 210 erano anziani. A ’sta mia amica con cui ho fatto le scuole, anche se lei non rappava, piaceva sentirmi fare freestyle. Allora uscivamo assieme e magari io rappavo tutto il tempo.
Un’amica vera…
Real friend (ride). Al liceo sono finita in classe con un ragazzo, il primo della scuola a far uscire una canzone. Era tipo il 2017, era ancora strano far uscire musica, soprattutto da noi. Non era come adesso. Grazie a ’sto ragazzo ho conosciuto un po’ di gente in giro, ma non mai avuto una crew o delle persone di riferimento. Son sempre stata sola, anche perché essendo una ragazza era diverso. I bro non li avevo mica.
La Svizzera italiana non ha una grande storia rap. I nomi sono pochi: Maxi B, Michel, Mattak… Come si passa da un paese da 300 abitanti a farsi conoscere in Italia?
Paradossalmente mi ha aiutato il Covid. In un posto piccolo come quello da cui vengo, come immagini, c’è una mentalità molto chiusa. Poi essendo tutti anziani, nemmeno mi capivano. Quindi non osavo far nulla. Avrei voluto, ma non avevo il coraggio di pensare di poter fare musica, di rappare. Col Covid non c’era confronto con la gente, con la scuola, il paesino. E così ho iniziato a registrare. Il primo pezzo era un Coronavirus freestyle pubblicato su Instagram, dove ho conosciuto il mio manager.
Quando hai capito che la cosa stava funzionando e potevi provarci davvero?
Io sono sicura che farei musica anche se dovessi lavorare in fabbrica. È una necessità a prescindere. Per risponderti, invece, direi quando Mattak – l’unico della mia città ad avercela fatta, ad esserne uscito – ha ripostato un mio video scrivendomi in DM. Poi il riscontro vero con i primi concerti.
Il tuo primo?
Nel basement di un amico a Lugano che stampava magliette con una cassa minuscola che fischiava. Cioè, un disagio.
Come pensi sia cambiato il tuo modo di scrivere dagli esordi a oggi?
Quando ho iniziato avevo come reference il rap più tecnico, intricato, anche un po’ aulico direi. Poi mi son rotta. Le cose che mi prendono sono quelle che arrivano a prescindere dai tecnicismi. Voglio trasmettere qualcosa. Fare tanti live mi ha aiutato a capire come migliorare la scrittura. A volte fai l’incastro della vita e non lo nota nessuno, mentre quando fai una rima sentita, senza nasconderti dietro la tecnica, arriva sempre.
Tu produci anche?
Non so mixare o far suonare le robe bene, ma produco le demo, suono il piano. Atlantide, l’ultimo brano dell’album, l’ho prodotto interamente io.
In Pixel non c’è solo il rap, c’è anche una certa voglia di esplorare altre sonorità. Hai iniziato a sentire il rap come un limite o semplicemente sei andata dove ti interessava andare?
Amo così tanto la musica che non mi precluderei mai di fare un pezzo cantato, magari con l’Auto-Tune, perché ho l’obbligo di rappare. Vaffanculo. I miei artisti preferiti hanno fatto degli album completamente diversi tra di loro, hanno fatto il cazzo che volevano.
Hai sempre parlato di un rapporto conflittuale con i social, con i commenti. Vivere in un paesino è un po’ come stare al centro di un social. Ma come la vivi adesso che il tuo pubblico si sta allargando?
L’importante è separare il commento da chi lo fa. A meno che non sia una critica costruttiva, il ragionamento che faccio sempre è questo: tu andresti mai a commentare «fai cagare» sotto il posto di una persona? Immagino di no. Quindi alla fine non me la prendo minimamente per queste cose, perché se una persona ha la necessità di sfogarsi così, sicuramente sta peggio di me. Se riesco a farli sfogare, sono quasi contenta. E poi i social sono una merda. Basta che fai una cosa sbagliata e se nell’occhio del ciclone, crocifisso, ed è difficile tirarsi fuori. Ma bisogna ricordarci che alla fine tutti possono sbagliare, e sbagliano.
Immagino che essendo donna nel rap, questo non aiuti.
Mi viene in mente Anna. Quando è uscita c’era proprio un odio ingiustificato verso di lei. E lei se ne è veramente sbattuta. Chi la insultava ora paga per andare ai suoi concerti.
Parliamo anche del lato positivo. Parafrasando Charli XCX, sei la rapper preferita dei tuoi rapper preferiti. Guè, Neffa, Fabri Fibra, DJ Shocca… la storia del rap ha puntato su di te. Come la vivi?
Questa è una delle cose che mi fa pensare che non me frega di un commento online di una persona che non stimo. Se le persone che stimi a livello personale e a livello artistico riconoscono quello che fai, questo ti ripaga. Cioè se un G della scena prende del tempo dalla sua carriera per farmi dei complimenti…
Non solo, questi ti hanno voluto nei loro dischi.
Vero, è stato molto importante.
Che rapporto hai con Guè? Siete già al terzo pezzo assieme con questo presente nel tuo disco. A vedervi da fuori sembrate due persone opposte, unite solo dalla residenza svizzera.
Guè è uno che fa sempre il cazzo che gli pare, che può stare su qualsiasi beat e spaccare sempre. Ogni anno è uscito con qualcosa top quality. Anche collaborando con gente straniera. È uno dei rapper italiani che ascolto di più.
Invece parlando dei featuring dall’altra parte della barricata, ovvero dell’indie, della musica suonata, nel tuo disco c’è Colapesce. Come è andata?
Il pezzo con Colapesce è nato in studio, in una session organizzata dalla Sony. Ero curiosa di conoscerlo, ascolto le sue cose. Lui ha fatto il giro di chitarra e il ritornello, io scritto la strofa, e raramente scrivo in studio. Tutto chiuso in un giorno, cosa molto rara. Lui ha tutta un’altra visione delle cose, di come vede il mondo.

Foto: Dino Junior Gulino. Outfit: Top MSGM, Pantalone MSGM, Scarpe UGG

Foto: Dino Junior Gulino. Outfit: Occhiali Miu Miu
Nei tuoi brani si parla spesso di soldi. Ne parli così tanto perché è un canone del genere? Che valore hanno nella tua vita?
Se uno si mette a pensare un attimo, capisce che i soldi sono il problema principale del mondo. Sono la bilancia di tante cose. Quando ho iniziato a prendere seriamente la cosa, il mio sogno era di vivere di musica. Non di avere una villa crazy. Per me poter vivere di musica è assurdo. I soldi mi stanno un po’ sul cazzo, cioè, mi dà fastidio il concetto. Però ovviamente, come tutti, li voglio.
Una delle mie punchline preferite del disco è in Quintale: “Le persone hanno secondi fini / preferisco avere dei gattini”. E mi è piaciuta, oltre per la verità che ha dentro, per la scelta di essere qualcosa di cute, kawaii, piuttosto che qualcosa di aggressivo.
L’ho scritta perché è vero. Ti racconto un aneddoto che mi ha spaccato. Ho fatto uno shooting in cui serviva un gatto e quando stavamo preparandoci a farlo il direttore di produzione ha detto una frase totale: «Scusate, un gatto non potrà presenziare perché non è disponibile» (ride). Sono morta. Comunque quando ho una giornata un po’ sbatti, o sto per avere un attacco di panico, se il mio gatto arriva e fa le fusa, mi tranquillizzo subito.
Sempre in Quintale dici “Ho una città sulle spalle” e “Ora la mia parola pesa più degli altri / non gli davi due grammi / ora pesa un quintale”. Inizi a sentire delle pressioni addosso? O ti metti addosso delle pressioni tipo domani Sanremo, dopodomani San Siro?
Non sono una che si dà tante pacche sulle spalle. Ma sono ancora all’inizio e voglio fare il più possibile a livello musicale perché tutto parte da quello. Non farei mai San Siro con delle canzoni di merda…
Guarda che nella musica italiana questo non è un problema!
È vero (ride)… Comunque anche chi fa canzoni di merda magari ha trovato la chiave per arrivare. Io la sto ancora cercando. La pressione che ho deriva dal fatto che non ho più 18 anni e sono consapevole che essendo una donna c’è un limite di età per raggiungere un certo tipo di successo, per arrivare a un punto dove poter continuare la carriera tranquillamente. Ho come la sensazione – o questa è la mia idea di mondo – che quando si arriva a 30 anni se non hai raggiunto un certo successo è difficile andare avanti. Chi si ascolterebbe una tipa svizzera che rappa a 45 anni? Capito? Ho quel tipo di pressione. Sono consapevole che si possono fare delle cose grandiose in poco tempo e non voglio dover aspettare.
È la prima volta che ci troviamo di fronte a dei rapper adulti, maturi. Però la questione donne è differente: da La Pina, a te e Anna, non c’è stato quasi nulla, non c’è un esempio di donna adulta che rappa in Italia.
Sì, ma dico di più: non esiste una rapper adulta bianca nel mondo. E io in più sono sempre a metà tra tutto: tra due nazioni, tra il rap e altro.
Ne parli come uno svantaggio, non ci vedi dei possibili lati positivi?
Se trovo la chiave per raccontare la mia prospettiva può diventare positivo. Ma è più difficile che la gente si rispecchi in un ibrido.
Si dice sempre che Anna ha aperto delle porte, ma al contrario di Sfera, che ha dato via a un movimento di giovani trapper, dopo Anna non sono arrivate molte ragazze sulla scena. Come te lo spieghi?
Per me la musica non è questione di genere. Nel senso, Anna è arrivata e ora c’è gente che fa quello stile. Magari poi non sono tipe, ma ha avuto un’influenza. Non sono dell’idea che solo perché tu sei una ragazza allora tutte le ragazze devono mettersi assieme e fare una scena. Ognuno fa la sua roba, e il rispetto c’è sempre. Grazie ad Anna una cosa è cambiata molto: anche un uomo ora può ascoltare una donna che rappa, che non è una cosa scontata. Non è mai stato così prima d’ora. Confido nel fatto che nasceranno nuove rapper.

Foto: Dino Junior Gulino. Outfit: Camicia JW Anderson, Cravatta Avantgarde Research, Pantalone JUUNJ, Scarpe Timberland, Borsa Lacoste

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Forse è anche dato dal fatto che, rispetto agli States, qui non ci siano stati modelli di riferimento: niente Lauryn Hill, Lil Kim, Missy Elliott, o Cardi B, Nicki Minaj ecc.
Vero, però io non ho mai guardato all’Italia, e penso valga lo stesso anche per Anna con Nicki Minaj, per fare un esempio.
E chi erano i tuoi miti di riferimento? O i dischi che ti hanno formata.
Number Ones di Michael Jackson, Quello che vi consiglio vol. 2 di Gemitaiz e Faces di Mac Miller, forse il mio album preferito in assoluto. Un livello di onestà e trasparenza che mi piace molto.
Tornando al rapporto Italia-estero, Fibra diceva che il problema è che i beatmaker italiani sono spesso scarsi, o peggio, derivativi. Tu che ne pensi?
Sono d’accordo in parte. Prima era sicuramente così. Ora i nuovi producer hanno reference molto più ampie, di generi differenti e da tutto il mondo. Ma sicuramente c’è tanta paura di sbagliare o di non arrivare il pubblico perché il pubblico non è educato, tra virgolette, a sentire cose differenti. Ma bisogna abituare la gente. E nella nuova scena in Italia qualcosa sta succedendo.
Stai imparando a conoscere il mercato italiano dall’interno, ma allo stesso tempo da svizzera lo puoi vedere da fuori con occhio critico: perché pensi che l’Italia, a differenza della Francia, non riesca a imporre un proprio sound nel rap?
Non possiamo pretendere troppo, l’Italia ha una storia diversa. Ha meno budget, meno nicchie. Se in Francia sei un artista di nicchia, puoi comunque vivere di musica. In Italia no, devi diventare mainstream. Quindi o muori di fame e cambi lavoro oppure cerchi una chiave più pop. E mancano tutta una serie di locali piccoli. È più complicato. Non è da farne una colpa, bisognerebbe però avere un po’ più di coraggio.
Hai detto che vedi nei 30 anni una data entro cui raggiungere certi obiettivi. Cosa pensi che ti manchi per diventare come secondo te deve essere Ele A?
Devo essere molto più costante, disciplinata, molto più attenta ai dettagli e meno pigra. A volte dovrei impuntarmi sulle cose, dovrei essere molto più decisa sulle mie idee, anche più stronza, perché faccio fatica a dire di no. La crescita artistica è sempre parallela a quella personale quindi spero prima di tutto di migliorarmi come persona e di conseguenza di raggiungere un livello di confidence artistica.
Ma ti sei data anche obiettivi più concreti, magari un San Siro?
Se avessi 100 mila platini, ma il mio album mi facesse cagare per come suona sarei la persona più triste di ’sto mondo. Vorrei che mi piacesse sempre la musica che faccio. E poi certo, vorrei fare delle venue grandi per avere l’energia che puoi trovare solo lì. Non c’è bisogno di San Siro, mi accontento di meno.

Foto: Dino Junior Gulino. Outfit: Top Desigual, Bomber Lacoste, Pantalone Stella Mc Cartney, Occhiali Miu Miu
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CREDITS
Talents: Ele A
Photographer: Dino Junior Gulino
Interview curated by: Mattia Barro
Editor in chief: Alessandro Giberti
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Art director: Alex Calcatelli per Leftloft
Fashion editor: Francesca Piovano
Graphic designer: Stefania Magli
Ele A press office: Valentina Aiuto – Francesca Capozzo
Talent personal stylist: Aurora Dolce
Style assistant: Clara Zecchino
Make up artist: Martina Sterkaj
Hair styling: Marica Abbascià
Digital ph. assistant: Fernando J. Avila
Special effects: Marco Giacobbe
Light assistant 1: Gioia Perez
Light assistant 2: Aly Ka
Gaffer 1: Maria Abbadessa
Gaffer 2: Edoardo Boccalari