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Egreen contro la retorica del rapper ricco e vincente

Problemi personali, soldi spesi con leggerezza, la pandemia che ferma tutto. Poi un anno in Colombia e ora l'autoterapia di ‘Nicolás’. Alleluia, ecco uno che parla di debolezze e dei lati oscuri del rap game

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Una storia quasi cinematografica. Nicholas Fantini, alias Egreen, è l’eroe del rap underground, quello che è fedele alla scena, che combatte a colpi di rime, che non si piega a compromessi, che si fa strada solo con l’amore dei fan e non con le strategie di marketing (e infatti: Egreen ha il record italiano assoluto per quanto riguarda il crowdfunding, grazie ai quasi 70 mila euro raccolti in modo diretto per realizzare l’album Beats & Hate, anno 2015). Ma col rap che ha il vento in poppa sul mercato sempre più, a un certo punto la grande occasione non può non arrivare, sotto forma di contratto con la major con tanto di lauti anticipi. Potrebbe essere l’inizio del salto di qualità, l’inizio delle comodità della vita da rapper di successo dopo quasi quindici anni passati a farsi il mazzo, invece è l’inizio della fine. Una fine raccontata con precisione chirurgica e dolorosa in Nicolás, album uscito in questi giorni. Un disco di autoterapia, forse un disco di convalescenza, forse addirittura un atto finale. Un disco autoprodotto senza il minimo aiuto esterno anche per non farsi fare a fette dal fisco, come ci racconta in un piccolo saggio di triste realismo e microeconomia. Un disco di storie vere, come quelle che accompagnano il ritorno per un anno in Colombia, per motivi famigliari (Fantini è di padre italiano e madre colombiana). Un disco bello, intenso. Un disco doloroso. Di sicuro, un disco incredibilmente atipico e in controtendenza rispetto allo scenario attuale medio dell’hip hop italiano: quello dove conta essere Famoso, vincente e sicuro di sé; o alla peggio anche solo eroe underground senza macchia, senza paura, senza compromessi. Fantini, invece, ora è tornato ad essere semplicemente Nicolás.

Partirei dal passaggio che più mi ha colpito dell’album, quando a un certo punto dici “Basta retorica del rialzarsi”: beh, hai picconato senza pietà uno dei tuoi leitmotiv principali come rapper, una delle cose che ti rendeva riconoscibile… L’underdog che non si arrende mai.
Eh, sì.

Come mai?
Eh, come mai. Davvero interessante che tiri fuori questo punto, guarda. In realtà quella frase specifica nella traccia era riferita a questioni sentimentali…

Ma in realtà questo concetto attraversa un po’ tutto il disco.
Vero.

Quindi?
A un certo punto, quando hai l’impressione che te ne siano arrivate addosso troppe, resta solo l’impotenza. Se vuoi essere sincero, devi ammettertelo. Non hai nemmeno più la forza di reggere la maschera di quello che non si arrende mai, del personaggio insomma.

Era una maschera? Lo è diventata? Lo è sempre stata?
A un certo punto questa cosa del non mollare, dell’essere tutto d’un pezzo, della coerenza… diventa quasi un meme di se stessi. Ma non è un problema solo mio, credo capiti a tutti, no? Quando porti avanti così a lungo un’attitudine che dopo un po’, anche quando magari in origine è vera, sincera e autentica, diventa comunque maschera. Oh: davvero non mi aspettavo che tirassi fuori questa cosa per iniziare l’intervista.

No?
Ma hai ragione: sono davvero stanco.

Tipo che Nicolás potrebbe addirittura il tuo testamento artistico, e smetti col rap? In certi momenti, sembra proprio così.
In certi momenti sì, vero, il messaggio pare quello. Partiamo dal presupposto che io non ero pronto a fare un disco di questo tipo: un disco che è venuto fuori così com’è perché in questi ultimi due anni mi è successo di tutto – e nelle tracce lo racconto con precisione, passo per passo. Quando nell’autunno del 2020 ho fatto uscire il mixtape I Spit Vol. 2 in free download, ho capito che non mi divertivo più. Il rap aveva smesso di essere qualcosa che mi divertiva. Nicolás è nato di getto. Se avessi pensato «Ecco, ora devo preparare un altro album vero e proprio» probabilmente mi sarei fermato prima ancora di iniziare. Ma nel 2020 mi sono davvero successe cose che, ecco, mi hanno costretto a mettermi allo specchio, come persona. E se non avessi fatto questo disco, come terapia, probabilmente mi sarebbero successe delle cose che… cose di cui non voglio parlare, non voglio evocare. Non voglio mercificare pure quello che non andrebbe mercificato, come invece nel mio ambiente si tende a fare parecchio.

Ad ogni modo: tornato dalla Colombia, e chi ascolta l’album sa perché ci sono finito, mi sono catapultato da un giorno all’altro a fare Nicolás semplicemente come autoterapia. E ho fatto tutto da solo. Sono stato l’operation manager di me stesso. Quindi sì, un disco indipendente; ma dovevo comunque mantenere uno standard minimo rispetto a quanto fatto in passato. Se esco con un disco, per giunta un album vero e proprio e non solo un sempllce mixtape, deve essere comunque fatto decentemente, sotto tutti i punti di vista. Ho un minimo di amor proprio, di attenzione per queste cose. Ma l’ho fatto senza nessuno ad aiutarmi, senza un management tipo Thaurus a muovere le fila e risolvere i problemi: tutto da solo. A cominciare dal metterci io i soldi.

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Domanda diretta e, se vuoi, cattiva: tutto da indipendente per scelta romantica e ideale, o per necessità perché non c’erano alternative?
Sarò molto franco: tutto nasce dai problemi fiscali terrificanti che ho avuto di recente. Problemi che nascono dal mio approdo a una multinazionale, per l’album precedente, Fine primo tempo: lì mi sono ritrovato a gestire un anticipo di royalties e, semplicemente, non ci ho capito un cazzo. Non ci ho proprio capito un cazzo. Ho gestito di merda le mie finanze. Non ci facevo caso: entravano in cassa i soldi, spendevo, la vita andava avanti, facevo i concerti, spendevo ancora, tanto il meccanismo sarebbe continuato a girare. Peccato che però che a un certo punto, dopo che il disco è uscito e che è andato in un certo modo – ora ci arriviamo – e poi si è pure bloccato tutto causa pandemia, mi sono ritrovato con una manata di tasse da pagare. Una manata. Soldi che però non avevo. Che avevo già speso. La commercialista un giorno mi ha preso da parte e mi ha detto «Forse tu non hai ancora capito come funziona questa cosa qui…».

Partita Iva? Eh, devi accantonare, accantonare…
Bravo. E io non ho accantonato un bel niente. Tanto pensavo che la ruota continuasse a girare, avrei pagato le tasse con quello che mi sarebbe entrato in cassa dopo, no? E invece non è entrato praticamente nulla. Mi è arrivato in faccia un treno. Ma una roba che mi sono detto: facciamo che ora per un bel po’ devo fatturare il meno possibile.

Sì, perché entri in una ruota del criceto in cui per ripagare i debiti dovresti fatturare ancora di più; ma fatturando di più poi paghi – ovviamente – anche di più di tasse, e ti sembra di peggiorare le cose invece che migliorarle.
Esattamente. Ora, cosa significhi essere indipendente nel 2022 può essere un discorso complesso e articolato, e mettere in campo alcuni dubbi e questioni potrebbe anche offendere qualcuno; ma saltiamo tutto questo aspetto e diciamo chiaramente che per me essere indipendente con Nicolás è stata una scelta precisa e una necessità. Volevo riprendere il controllo di tutto, per non ritrovarmi poi di nuovo a non aver capito come gestire le cose, a farmene travolgere. Perché tornando alla tua domanda – e hai fatto molto bene a chiedermelo – a un certo punto c’era stata effettivamente una telefonata con un mio collaboratore storico che mi aveva proprio detto: «Ma sei veramente sicuro di voler fare questa cosa senza nessuno che ci metta il budget per te? Guarda che secondo me si trova. Anche solo per la distribuzione». La verità è che in questo momento anche solo ricevere 5000 o 10 mila euro di anticipo in royalties, ed era un obiettivo fattibile, mi avrebbe messo molto in difficoltà. Molto. Anche perché diciamoci le cose come stanno: io come dati di streaming ero in forte calo, nell’ultimo periodo. Quindi prima di tutto volevo capire io, da solo, come ero posizionato sul mercato. Quanto valgo oggi. E solo nel momento in cui mi rimetto un po’ in carreggiata, nel momento in cui capisco che sono tornato decentemente in pista, allora – e solo allora – è magari il caso di rimettersi lì con le varie discografiche a discutere su accordi, contratti, anticipi. Tanto poi le persone sono sempre le stesse, non è che se salti un giro poi cambiano. Ci si conosce tutti, nell’ambiente. Comunque: no, non ho un’etichetta per Nicolás, e no, non ho nemmeno una distribuzione digitale.

Alt: sulle piattaforme di streaming il disco c’è.
Sì, ma ho fatto tutto da solo: TuneCore, e via. Sono partito proprio dalle basi, come un esordiente, come uno che si autopubblica. Il punto è che un conto è il rap, il gioco del rap, un conto invece è il business: sono due cose molto diverse, e io questo l’ho capito molto tardi, troppo tardi. Quando invece prima lo capisci, beh, meglio è.

Eh, ma in teoria il rapper è quello che l’ha capito prima e meglio di tutti, a sentire certi testi il rapper medio di nuova generazione sembra più un imprenditore arrogante e infallibile che un artista.
Sì, a parole sì; ma poi, chi sa veramente cosa significa “proprietà intellettuale”, cosa sono le royalties, cos’è il publishing? Cosa significa avere in mano il master del proprio disco, qual è la differenza tra un contratto normale e uno in licenza? Sarebbe bello se in Italia si creasse un dibattito su questa, nella nostra scena musicale – e non per fare polemica, ma per costruire qualcosa di solido per tutti.

Comunque se non ci fosse stata la pandemia, al di là poi dei motivi personali che ti hanno portato in Colombia per un po’, probabilmente la tua carriera sarebbe continuata com’era prima. E magari queste domande manco te le facevi.
Ma guarda, non lo so. Perché tutto quello che è seguito al disco per la Sony, compresi i live successivi, aveva preso davvero una brutta china. Se ci fosse stato un vero e proprio tour non so come sarebbe andata. Sì, ok, c’erano già delle date fissate, la pandemia poi ha fatto saltare tutto, ma… non so mica se avrei riempito i posti. Non farmici pensare. Era tutto un disastro.

Disastro? Addirittura?
La verità è che con quel disco lì non sono riuscito né a prendere i miei fan storici né a conquistarne di nuovi. Mi ero aperto al mercato attuale, e pensavo che bastasse levigare un po’ certe sonorità per colpire nel segno. Bene: non è stato assolutamente così. Sai in cosa ho sbagliato? Ho sottovalutato il linguaggio che c’è adesso. Sì, è sempre rap, deriva sempre dal “nostro” linguaggio-madre dell’hip hop, ma ci sono delle componenti quasi impercettibili che fanno la differenza. E le cogli (e metti in pratica…) solo se fai parte di una certa classe anagrafica. Non puoi fingere. Non puoi pensare di poter diventare facilmente quello che non sei. O non sei più.

Eh, stiamo diventando vecchi.
Assolutamente sì. Al di là di questo, un amico giornalista mi ha aiutato parecchio a capire come sono andate le cose, in quel frangente lì. Io in tutta la mia carriera ero sempre stato abituato a stare benissimo nella mia comfort zone, quella del rapper da battaglia un po’ outsider, e all’improvviso mi sono ritrovato in una situazione diversa, almeno sulla carta, che si portava dietro tante complicazioni di cui non ero a conoscenza, che non avevo mai affrontato. In questo modo ho iniziato a sovraccaricarmi di nervoso, di tensioni, di aspettative; poi succede che il tutto esce, vede la luce, e i risultati sono sotto le aspettative. Lì, implodi.

Implodi?
Sì. Perché ti rendi conto che non puoi fondamentalmente dare la colpa a nessuno. Non puoi dare la colpa alla label, che anzi è stata lei a dirti «Ah ma dai, non credevamo ti interessasse lavorare con noi, vieni, vieni, il budget ce lo mettiamo noi molto volentieri»: loro hanno fatto il loro lavoro e l’hanno fatto pure bene, al massimo delle loro possibilità, ma il punto è che quando arrivi in certi contesti, in certi meccanismi, viene a cadere la retorica dell’artista: sei, prima di tutto, un prodotto. Punto. E finisci in vetrina. Insieme ad altri prodotti. Non sei più insomma quello che arriva dall’artigianato vecchio stile, quel prodotto particolare… Questo, credimi, mi ha fatto imparare molto.

A farti imparare molto è stato anche il ritorno temporaneo in Colombia, altro tema forte di Nicolás.
Mi sono trovato a vivere lì, per un anno, in mezzo situazioni che sinceramente se non sei preparato – e io poi sono una persona abbastanza sensibile a certe cose – è tosta, è dura affrontarle. La senti l’aria pesante, lì. Qua pensiamo alla Colombia solo attraverso le serie su Netflix, ci immaginiamo insomma giusto le guerre fra cartelli, ma il problema in realtà è molto più profondo: esiste una guerra civile strisciante fra liberali e conservatori ancora dalla fine dell’Ottocento ed è questo che ha creato uno stato di guerriglia permanente, il narcotraffico è solo un elemento fra tanti, arrivato pure dopo. Tutto questo è qualcosa che si vive con davvero molto stress, che porta molta negatività. Un conto è arrivare in Colombia da turista e passarci qualche settimana, un conto è viverci. Io sono arrivato appena era finito il picco principale della pandemia, ma passato quel picco non è che la situazione sia improvvisamente diventata serena: è iniziata una serie di rivolte. Che poi là, alle rivolte, ci sono pure abituati, è quasi un fatto normale.

Tornare in Italia è stato un sollievo, insomma?
Guarda, solo il fatto di poter tirare fuori il cellulare mentre sei in metro o in pullman pare un lusso: capisci? Rendo l’idea? Ancora oggi quando cammino per strada mi guardo indietro, come riflesso condizionato del mio anno speso di là. Anche in Italia ci sono problemi, eh, non voglio sminuire; ma di là, nel mio piccolo, ho visto cose semplicemente allucinanti. E le ho viste a qualsiasi ora del giorno, le ho viste in pieno centro.

Anche questo bagaglio d’esperienze particolari ti sta spingendo a sentirti sempre più un’anomalia o addirittura proprio un pesce fuor d’acqua, rispetto alla scena rap italiana di oggi?
Aver azzerato quasi ogni sorta di legame con un certo tipo di scena essendo stato lontano un anno non mi dispiace più di tanto. Sai cosa? Mi sento di non dovere più niente a nessuno, ecco. Nemmeno a me stesso. Non ho voglia di fare fatica per rientrare nel giro: non mi interessa.

Paradossalmente il fatto che le prime reazioni attorno al disco siano positive, penso soprattutto a come è stato accolto Incubi, il brano che lo ha anticipato, un caso più unico che raro di brano rap di dieci minuti con zero ritornelli e un realismo narrativo quasi letterario, potrebbe allora essere quasi un problema…
Ma io non credo che Nicolás andrà bene, sai? È un disco troppo personale. Troppo personale per piacere. Il feedback positivo attorno a Incubi secondo me è solo un fuoco di paglia. Sono stanco di certe cose, sono stanco di dover lottare per avere un certo tipo di status, stanco lo ero già quando sono tornato dalla Colombia e per completare questo disco mi sono stancato ancora di più.

Mi sento quasi in colpa a tenerti qua per questa intervista…
Ma no, in realtà parlarne mi fa piacere. È che davvero non ho grandi aspettative su quale sarà il destino di questo disco.

E manco sulla tua carriera?
Dopo quello che è successo negli ultimi due anni, guardo ad essa quasi con distacco. Mi sta però andando via la sensazione di agrodolce che aveva preso ad accompagnarmi pesantamente nel momento in cui pensavo a me come rapper, al mio ruolo nella scena, negli ultimi anni. Ora guardo a tutto questo quasi con romantica nostalgia: qualcosa che è successo, c’è stato, ha avuto dei momenti belli ed altri meno belli, stop. Ora, semplicemente, non ho aspettative. Ed è quasi un sollievo, se ripenso a come mi sentivo quando invece stava uscendo il disco su major. Se ripenso a quanto male stavo.

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