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Edda: «Sono già morto»

Domani pubblicherà il nuovo album 'Illusion' prodotto da Gianni Maroccolo, «che è riuscito a trasformare i miei difetti in pregi». Qui racconta il passato folle, la droga (tanta), la reunion coi Ritmo Tribale «che si può fare se sopravvivo», la depressione scoperta grazie a TikTok. «Io non dovevo proprio nascere»

Foto: Ray Banhoff

L’appuntamento è nell’abitazione di famiglia, a Milano. In uno degli appartamenti di un palazzo della zona di Corso XXII Marzo dove, passata la portineria, mi attende in cima a uno scalone in stile liberty e capisco subito che non sarà facile parlare con lui del motivo che mi ha spinto fino a lì.

«Come va?» lo anticipo con un saluto di circostanza. «Eeehhh, sto morendo…». Per un attimo mi preoccupo, poi comprendo che non c’è niente di materiale che attenti alla sua vita. Semplicemente Stefano Rampoldi, in arte Edda, è fatto così: da sempre è afflitto da un malessere interiore che lo divora e lo ha portato negli anni a cercare di sbarazzarsi di tutto (anche di sé stesso) pur di lenire le ferite che gli lacerano l’anima. Altro che il mal di vivere descritto da Eugenio Montale, l’ex frontman dei Ritmo Tribale, ora in uscita con il sesto disco solista Illusion, incarna la classica figura cristologia – benché si professi Hare Krishna – che ha infiammato la storia del rock. Bello e dannato, si sarebbe detto un tempo. «Ma ora dovrei dimagrire un po’ per risultare almeno carino», ci scherza su.

Sempre in bilico fra il disastro e l’ascesi, mi accoglie nella casa in cui è cresciuto, da dove è scappato e nella quale è tornato per assistere il padre ultranovantenne: «Mio fratello gemello è all’estero per lavoro e mi ha accollato il ruolo di badante, ma ti pare?». Effettivamente, non è proprio una attività che rimanda alla figura di rockstar.

Ma forse anche questo è uno dei suoi paradossi, una delle tante scuse utilizzate per rifuggire dalla felicità quasi fosse qualcosa di cui vergognarsi. E se tutto ciò gli è utile a sfornare album come quello realizzato con la produzione di Gianni Maroccolo (fuori domani, 23 settembre) allora ben venga. Undici brani uno più ispirato dell’altro: da Mio capitano, che quasi provoca il mal di mare per le emozioni che scatena, all’irriverente Carlo Magno, una boccata d’ossigeno contro le ipocrisie del politicamente corretto. E ancora la giostra di Illusion è un saliscendi tra malinconia (Lia), serissimi divertissement (Signorina buonasera) e denunce sociali che ballano su carrillon autolesionisti (L’ignoranza). Fa bene ascoltare Edda, soprattutto quando soffriamo per qualcosa, perché ci rimette in pace con il mondo. È infatti il cantautore milanese a fungere da parafulmine di ogni nostra disgrazia: se le accolla, le somatizza, arriva sull’orlo del precipizio e, invece di cadere (fortunatamente), digerisce a fatica quel gravoso fardello e lo risputa in forma di canzoni.

Certo è piuttosto sfiancante e ogni volta gli costa carissimo. Seduti di fronte al finestrone luminoso che affaccia sul cortile, fra un tè indiano (che si ostinerà a dire di non saper fare) e le richieste del padre su cosa gli cucinerà per pranzo, Edda ci parlerà di tutta la sua straordinaria impresa che è continuare a vivere per cercare di non rinascere: l’infanzia difficile, l’adolescenza errabonda, la droga (tanta), i Ritmo Tribale con cui non esclude una reunion («se sopravvivo a questo disco si può fare»), la repulsione per la politica, le difficoltà nel confrontarsi con un fuoriclasse come Maroccolo («l’ho fatto disperare, ma ha trasformato i miei difetti in pregi») e almeno una consapevolezza positiva alla soglia dei 60 anni: «Penso di non aver mai cantato così bene come stavolta».

Stefano, guarda che il tè non è male. Comunque, quando ti sei accorto che ti attirava la musica?
Da piccolissimo, anche se poi con la vita che ho fatto non ho coltivato al meglio questa piccola dote che mi sono ritrovato tra le mani.

Prima di parlare del tuo ultimo disco ti va di raccontarci un po’ della tua vita folle?
Ma sì, dai. Il disco non è così importante.

Come no? Poi ne parliamo per forza, sennò Maroccolo si incazza.
Povero Gianni, l’ho fatto disperare…

Foto: Ray Banhoff

Quindi già da bambino hai iniziato a suonare?
Uno dei primi regali da parte dei miei genitori è stato uno strumento musicale, avrò avuto 5 o 6 anni. Già ero bravo, più di adesso. Suonavo Per Elisa, priripirì priripì…

Anche tuo fratello gemello ha questa propensione artistica?
No, lui è appassionato di sport, sesso e soldi. Molto da milanese.

Quando ti sei accorto che eri diverso dagli altri?
Mi sono sempre trovato malissimo nella vita. Quando qualche mese fa Mario Draghi ha detto: «Chi non si vaccina muore» ho colto l’occasione per non vaccinarmi. Ma purtroppo non sono morto. Perché deve dire certe cose creando false speranze?

Cos’è che non sopporti della tua esistenza?
Guarda, adesso che ho quasi 60 anni non ce la faccio più.

Spesso il mal di vivere hai incontrato?
Credo di subire un retaggio che deriva da vite precedenti. Mi è stato concesso anche questa volta un giro di giostra, solo che mi sono sempre trovato molto molto a disagio, cioè senza sapere cosa fare davvero nella vita. Ma ormai sono anziano.

Non mi sembri una persona che si comporta da anziano.
Infatti non me ne rendo conto, mi sento un 16enne. Sono rimasto un immaturo, però è pesante. Che sono diverso l’ho capito da poco. Il problema è cosa fare davvero di questa esistenza. Anche perché cercavo di fare qualcosa, non ci riuscivo e quindi ero frustrato.

Che infanzia hai avuto?
Abbastanza agiata, con mio padre geometra e designer e mia madre casalinga. Hanno vissuto il boom economico e quindi si erano costruiti qualcosa. Nonostante questo a 12 anni sono andato a vivere con mia nonna, qui tornavo solo a mangiare.

Tua nonna era distante?
Al piano superiore.

Una fuga breve. E a scuola immagino non ti sarai trovato meglio…
A 16 anni l’ho mollata e ho iniziato a usare la droga “sportivamente”, anche se era pur sempre eroina. Già da quello capisci che ero messo male, avevo iniziato con il piede sbagliato. Se mi guardo da fuori è come vedere una persona che sta cercando di ammazzarsi.

Come l’hai incontrata l’eroina?
Non l’ho incontrata, la sono proprio andata a cercare. E non era neanche facile per un ragazzino di 16 anni. Mi sono diretto al Parco Sempione e facevo un po’ impressione da quanto ero piccolo.

Ne avevi sentito parlare?
Sì, alla radio credo. Non ho mai avuto un amico tossico che mi ha iniziato. Era la fine degli anni ’70, mi interessavo di politica e al mondo dei grandi benché avessero 20 anni, ma sembravano molto più grandi. Ascoltavo Radio Popolare, mi piaceva la musica, avevo comprato la chitarra. Frequentavo il Berchet, una scuola che non aveva di questi problemi, ma è come se avessi sentito un richiamo atavico. Fra tossici ci si annusa, per cui sono entrato subito nel club.

Scusa, ma cosa significa che ne facevi un uso sportivo?
La usavo sporadicamente. Oggi è il 2 agosto (quando abbiamo realizzato l’intervista, nda) e ricordo che mi fece impressione il 2 agosto di due anni fa, nel 2020, perché mi riaffiorò un ricordo: era il 2 agosto 1980, i miei erano via e io ero qui a farmi una di quelle pere memorabili. Accendo la tv e danno la notizia della strage alla stazione di Bologna. È stato un viaggio abbastanza forte.

Quando hai iniziato a fare sul serio con la musica?
Intanto a 12 anni mi sono accorto di avere una propensione, ma la prima chitarra non sono mai riuscito neanche ad accordarla. Poi sono andato da un maestro, compravo i dischi, ascoltavo tantissima musica. Mio padre li disegnava i giradischi, per cui non è mai mancata in casa.

La tua prima band?
Ho iniziato con i DHG (Dissolutio Humani Generis), nel gruppo c’era Stefano Eco, il figlio di Umberto Eco. Dopo aver lasciato il Berchet mi sono iscritto a un biennio per recuperare gli anni persi e in quell’ambiente ho conosciuto loro e anche i futuri componenti dei Ritmo Tribale.

C’è stato un momento in cui hai percepito, con i Ritmo Tribale, di aver raggiunto un livello importante?
Mai! A 33 anni, quando ho mollato tutto, mi sembrava di non aver concluso niente. Non avevo capito di aver fatto anche delle belle cose. Ma io ero l’anello debole della catena, quello che ha sempre fatto più fatica. Per quasi 13 anni abbiamo vissuto insieme una esperienza stupenda. Dai 19 anni fin quasi ai miei 33. A 17 anni avevo smesso con l’eroina, ho ripreso dopo la maturità, poi ho smesso quando abbiamo cominciato a suonare sul serio, solo a volte facevo il birichino, e quando eravamo a un passo dalla notorietà e da un contratto con una major è tornato il richiamo atavico.

Eravate nel vostro momento migliore?
Sicuramente.

Hai qualche rimpianto per aver mollato tutto?
Mi dispiace, perché uno che molla un gruppo dove ha lavorato per 13 anni arrivato a un traguardo importante e lo lascia per andarsi a drogare penso che meriti la medaglia d’oro della stupidità.

Avrete perso anche una certa cifra dal punto di vista economico?
L’offerta della PolyGram era molto buona. Eravamo sull’onda degli Afterhours, dei Marlene Kuntz, dei Timoria. Magari non potevamo dirci tra i più famosi, ma il giro era quello.

Passato tanto tempo, una reunion con i Ritmo Tribale sarebbe possibile?
Sì, però mi hanno detto che devo dimagrire. Le forze sono al lumicino, ma se sopravvivo a questo disco si può fare. Anche perché quella è musica impegnativa da portare sul palco. Sarebbe bello rivivere i nostri 20 anni. Ci siamo risentiti, c’è ancora rispetto della reciproca follia.

Si può dire che la tua rinascita musicale è scattata dopo l’ospitata nel programma di Daria Bignardi, L’era glaciale (2009), dove sei ricomparso dopo dieci anni?
Musicalmente era già ripartito qualcosa, però è vero che da dieci anni ero scomparso. Prima sono andato in India, poi al ritorno ho cominciato per la prima volta a lavorare costruendo ponteggi. Quando mi ha chiamato la Bignardi avevo un po’ di timore, ma poi ho preso coraggio perché avevo smesso di drogarmi e quindi non dovevo più vergognarmi per quello che ero.

Scusa, ma in India cosa sei andato a fare?
Credevo fosse utile per smettere di drogarmi, solo che evidentemente ho scelto il posto sbagliato.

Avevi trovato una comunità per disintossicarti?
Macché! Stavo in certe topaie e mi sono fatto per sei anni tra Nuova Delhi e Benares.

Ma perché proprio l’India?
A 20 anni ho conosciuto il movimento degli Hare Krishna a cui ho aderito e quindi volevo ripercorrere certi percorsi. Una volta sono stato a Vrindavan, che è come dire la Mecca per noi, solo che ero in condizioni pessime. Già se vai normalmente e respiri commetti peccato, io invece ero al massimo della disperazione. Dopo due giorni me ne sono andato. Ma devo dire che, nonostante abbia dato il peggio di me, far parte degli Hare Krishna mi ha sempre un po’ frenato.

Dall’India hai preso qualche ispirazione musicale in quei sei anni?
No, solo droga.

Qual è stato il punto più basso di quel periodo?
Ero molto diffidente allora, perché sapevo che finire in galera in India era come morire. Per cui non conoscevo nessuno. Ma un giorno mi avvicina un tizio un po’ losco che mi dice: «Ti serve qualcosa?». Niente, gli ho risposto. Ma lui ha insistito elencandomi tutti i tipi di droghe, delle donne a pagamento e persino un bambino. Cazzo, dove sono finito… Aveva tutte le offerte dell’inferno.

Come sei uscito da quell’inferno?
Una volta è venuta a prendermi la mia fidanzata dell’epoca, ma poi sono ripartito. A un certo punto però avvertivo troppo timore a fare il tossico in India e sono tornato a Milano. Ho continuato a farmi fino ai 39 anni, finché i soldi hanno iniziato a scarseggiare.

I tuoi genitori o tuo fratello non ti hanno aiutato?
No, perché i miei per pudore non ne parlavano e il mio gemello era impegnato nel suo lavoro. Siamo una famiglia disfunzionale. Ma senza soldi sono stato costretto a scalare le dosi finché non ce l’ho più fatta e sono andato nella comunità Exodus, quella di don Mazzi. Sapendo che un giorno sarebbe arrivato Fabrizio Corona ho voluto anticiparlo. Abbiamo frequentato la stessa “università”.

In sei anni ti sei bruciato tutto quello che avevi messo da parte come musicista?
Tutto! Ho davvero alzato il Pil della mafia. Non ce l’ho fatta a rubare come facevano alcuni, io ho paura anche a prendere il tram senza biglietto. Dopo un anno di comunità sono andato a lavorare sul Lago Maggiore e da quel momento sono ripartito.

Per quei sei anni la musica l’avevi completamente accantonata. Com’è che ti è tornata la voglia di prendere in mano uno strumento?
Mi ero detto «la musica mai più». Avevo 40 anni, dovevo trovarmi qualcosa di concreto, solo che più lavoravo e più mi tornava la voglia di vivere e quindi di fare musica.

Foto: Ray Banhoff

Ho visto che in camera hai una sedia di fronte a un leggìo con degli spartiti e la chitarra appoggiata di fianco. È in quel modo che componi i pezzi?
In questi due anni di Covid, non potendo fare concerti e non avendo le carte in regola con il vaccino, mi sono messo a studiare. In particolare il jazz, anche se non sono un appassionato. Le canzoni in qualche modo le creavo, solo che pativo con l’handicap di non saper suonare bene. In fondo l’ho fatto per la mia chitarra, le voglio talmente bene che quando la guardavo sembrava dirmi: dai Stefano, posso darti di più, ci sono anche altri tasti da provare, impegnati. Per ora dal vivo non mi avventuro in grandi virtuosismi, mentre a casa sembro Andrés Segovia.

Sai che prima o poi dovremo parlare del tuo nuovo disco?
Sì sì, ma non c’è fretta. Vuoi ancora un po’ di tè?

Accetto e sparisce in cucina. Quando torna non è ancora soddisfatto: «Se non ti piace lo butto, di solito mi viene meglio». In realtà è buonissimo, ma Edda non è mai contento, mai soddisfatto, mai in pace con sé stesso.

Insomma, adesso stai diventando un musicista a tutto tondo.
Ho scoperto che quelli che sanno suonare non imparano così da un giorno all’altro, si devono proprio spaccare il sedere. E se nella vita ti viene tutto semplice è perché te lo sei spaccato nella vita precedente. Ravi Shankar diceva di averci messo dieci vite per arrivare al suo livello musicale.

Stefano, però adesso è il momento di spiegarmi Illusion.
È un disco di canzoni.

Questo era intuibile. Qui però c’è l’intervento di Gianni Maroccolo alla produzione che non è proprio trascurabile.
Ha fatto un esperimento su di me dicendo: «Riuscirò a farti suonare la chitarra». A me sembrava impossibile, invece forse ci è riuscito. È stato bravo lui. Per farcela è arrivato a cose che vuoi umani non potete neanche immaginare.

Cos’ha di speciale Gianni Maroccolo?
È uno che riesce a trasformare i tuoi difetti in pregi, o comunque in peculiarità. Ha puntato sulla mia broccaggine e ha fatto centro. A un certo punto ho temuto dicesse: «Qui il disco non lo portiamo a casa». Ma alla fine siamo rimasti stupiti del risultato.

Hai sempre avuto uno voce speciale, ma in questo album sembra diversa, più matura, la usi con più consapevolezza delle tue potenzialità. O sbaglio?
Penso di non aver mai cantato così bene in un album. Il singolo del disco l’ho registrato in questa stanza, di fronte alla finestra, registrando con l’iPad. E in studio la voce è rimasta quella. Però è stato anche traumatico avere un produttore come Maroccolo, è come se giochi a calcio e ti chiama per il provino l’Inter. Vorresti fare la migliore prestazione della tua vita e invece fai un disastro.

Visto com’è uscito il disastro si può dire che ti viene bene fare disastri.
Durante la settimana di registrazioni eravamo disperati, per colpa dei miei vari disagi naturalmente. Tutti volevano soltanto chiudere il disco, per cui non ho cantato ma mi sono levato dai coglioni quelle canzoni. Povero Gianni…

Sai se Maroccolo dopo questa esperienza ha avuto bisogno di uno psicologo?
Non credo, ma gli ultimi giorni avevo paura a guardarlo negli occhi. La sua storia dimostra chi è, ha avuto tra le mani i migliori gruppi della storia recente. Ma anche se si arrabbiava per me era peggio, quindi credo fosse disperato e io più di lui. Quando però ho sentito il disco mi sono detto: «Come cazzo ho cantato?». Non sono diventato Freddie Mercury, ma il timbro che ho raggiunto mi piace.

Cosa ti aspetti da questo disco?
La cartolina di richiamo per partire in guerra. Bisogna solo decidere il fronte.

Saresti pronto a partire?
A questo punto ci vado, insistono così tanto per farci partecipare a qualche guerra. Morire in carcere o morire in un campo di battaglia non fa differenza. Però non sparo, vado all’attacco urlando «pum pum pum» e al primo colpo che mi becco mi levo dalle palle.

Ogni pretesto è buono per cambiare argomento. Credo che questo disco contenga la summa di tutto il tuo stile cantautorale in una veste musicale forse mai così curata in ogni dettaglio.
Spero che piaccia, perché se piace farò dei concerti in giro, cercando di portare qualche volta anche Gianni Maroccolo. Se invece farà cagare pazienza, cercherò di fare meglio la prossima volta.

Ho apprezzato che non hai rinunciato a qualche parola in dialetto milanese, come in passato.
Eh sai, sono poliglotta. Se fossi bello come Damiano dei Måneskin userei anch’io degli inglesismi. A parte gli scherzi, mi piace il dialetto perché, come l’inglese, ha parole brevi e molto espressive.

I Måneskin li guardi o ascolti con interesse?
Mah, a me piacciono i Verdena. Tra l’altro usciamo lo stesso giorno con un disco. Loro sono grandissimi, bellissimi, talentuosissimi, bravissimi e fighissimi. Della dimensione enorme in cui viaggiano i Måneskin non sopporto l’atteggiamento da rockstar. Magari non è colpa loro, gli chiederanno di essere così. Invece ho visto suonare Luca Ferrari (batterista dei Verdena, nda) con Ricky Portera ed è mostruoso. Per cui ai Måneskin consiglierei di ascoltare i Verdena.

La musica della Generazione Z ti influenza in quale modo?
Sono un grande appassionato delle canzoni di Madame. Invece Rhove su disco non mi dice niente, ma ascoltando Shakerando dal vivo in Piazza Duomo a Milano mi è arrivata una sberla tipo la prima volta che ho sentito i Sex Pistols. Quei ragazzi tutti insieme mi sono piaciuti molto. Così come mi piacciono diversi testi di questa generazione trap, sono stranissimi e bellissimi. Per me invece preferisco continuare a fare il cantante dei poveri, anche se la mia dimensione preferita sarebbe quella degli Area, con una musica alta e nello stesso tempo fruibile da tutti.

Tornando ai brani di Illusion, non ti sei adattato al politicamente corretto, usando parole ormai impronunciabili come ricchione.
Mi fa schifo il politicamente corretto. Però in quel brano mi do del ricchione da solo, per cui non può offendersi nessuno. Siamo in un periodo di grande scorrettezza, devo essere io il più corretto?

Ti riferisci alla politica?
Ma sì, è piena di falsi e voltagabbana. Rispetto ai nostri politici mi sento una verginella. Prima l’Ucraina, ora è tornato il Kosovo e all’orizzonte c’è Taiwan. Sai cosa vi dico? Fate quello che volete. Fateci esplodere tutti!

Siamo a pochi giorni dalle elezioni, ci andrai a votare?
Non ho mai votato e non credo voterò neanche stavolta. La scusa è che ho il disco in uscita. Ma no, quando penso alla politica mi dico tra me e me: Stefano mai più, non tornare su questa terra. Non ci stare con questa gente. Non sei fatto per loro, ti potranno solo usare, metterti in fabbrica a spaccarti la schiena o a combattere al fronte. Non voglio né essere usato né usare. Sono schifato da tutto e tutti, da me in primo luogo.

Meglio tornare al disco, dove tra le citazioni mi ha colpito quella di Gelato al cioccolato.
Sicuramente ho pensato a Pupo, che stimo molto, ma il pezzo è decisamente malgiogliesco. Infatti Cristiano Malgioglio ha scritto il testo di quella canzone. Uè, hai visto che riferimenti? Stiamo parlando del gotha della musica italiana.

Invece la canzone più attuale, più aderente ai tempi che stiamo attraversando, mi sembra L’ignoranza. Ne hai composto un vero e proprio elogio.
Perché mi ci rispecchio. Se oggi dovessi spendermi come forza lavoro più del rider non potrei trovare. Sono un servo della gleba, a tratti persino inutile. A parte l’età, sono ormai un peso per la società, non avrò neanche la pensione. Insomma, sono già morto.

Sono già morto: la titoliamo così l’intervista?
Non sarebbe male, già c’erano le avvisaglie a 16 anni, ma io non dovevo proprio nascere. Sono qui a fare un percorso, nel mentre mi auguro di aver realizzato qualche canzone piacevole per qualcuno, ma dal punto di vista materiale sono una zavorra. Sai che non ho il reddito di cittadinanza soltanto perché non so come si chiede? Non sono capace di creare gli account online…

Foto: Ray Banhoff

A quasi 60 anni, dopo una quindicina di dischi, stai imparando a suonare la chitarra. Un passo alla volta. Se credi nella reincarnazione gli account potrai crearli nella prossima vita…
No no, nel rimasuglio di questa esistenza sto facendo di tutto per non rinascere come professano gli Hare Krishna. Ho fatto fatica da bambino, a scuola, da ragazzo, da adulto, da musicista, da figlio, da badante, domani forse da rider. Se ti reincarni è come se ti avessero bocciato, quindi questi ultimi anni voglio indirizzare la barca verso situazioni più spirituali. Purtroppo è molto difficile. Sai che ho scoperto da poco di essere depresso grazie a TikTok?

Grazie a cosa?
Sì, su TikTok c’è pieno di psicologi e uno di loro diceva: «Se hai questi cinque sintomi sei depresso». Io ne avevo sette…

In passato Federico Fiumani mi ha spiegato di andare dallo psicologo da 34 anni, ma non credo l’abbia trovato su TikTok.
L’ho letta quella intervista e ho subito pensato: cazzo, cambia psicologo! Fiumani è una persona fantastica e sensibilissima, ma se ci vai da 34 anni forse non è molto utile, no? Ma sbaglierò io. Fatto sta che a me bastano gli Hare Krishna e andrò fino in fondo, al massimo sbatto contro un muro.

Un po’ di ottimismo non ti sfiora mai, neanche dopo l’ennesimo disco pubblicato?
Sono già morto, Gianmarco. Ci tengo…

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