Ecco2K, il rapper svedese che sta cambiando l’estetica della trap | Rolling Stone Italia
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Ecco2K, il rapper svedese che sta cambiando l’estetica della trap

Mescola arte e moda. Scrive testi emo e li musica con l’elettronica più audace. Dal punk prende la libertà di fare quel che vuole e dal pop la mentalità aperta. E no, non somiglia per niente ai trapper italiani

Ecco2K, il rapper svedese che sta cambiando l’estetica della trap

Zak Arogundade, in arte Ecco2K

Foto: Daniel Sannwald

È difficile scoprire e capire una nuova wave (o anche solo scrivere wave senza sentirsi ridicoli) a 30 anni. La tecnologia si evolve, nuovi social network introducono inediti metodi di comunicazione, tutto sembra distanziarsi irrimediabilmente da te e dal tuo senso estetico. Il gusto diventa più acido e rischi di rimanere fuori da situazioni fichissime solo perché, di base, sei già vecchio, terribilmente vecchio per essere giovane.

Mi ritengo una persona abbastanza aggiornata in merito, ma superati i 30 mi sono distratto, perdendomi l’esplosione della scena emo rap svedese. Negli spiragli dell’internet, i Sad Boys di Yung Lean e la Drain Gang, collettivo freschissimo in cui militano Bladee, Ecco2K, Thaiboy Digital, Whitearmor e Yung Sherman, stanno macinando milioni di visualizzazioni, determinando una nuova era estetica, musicale e culturale per la trap. Dopo essermi visto passare sotto il naso l’esplosione di Yung Lean che – mea culpa – avevo catalogato sotto il file lol rap come la maggior parte del Soundcloud rap del decennio scorso, insomma, come roba per pischelli presi male che vogliono farsi due risate parlando di psicofarmaci e disagi, ho dovuto ricredermi quando mi sono scontrato con il mondo Drain Gang.

Per una serie di casualità, mi ritrovo in auto con Ecco2K, stella lucente del collettivo svedese, a Milano per una delle sue prime date da solista a Spiritual Sauna a Macao. Ecco è sorridente, di una dolcezza disarmante, qualcosa che va fuori dai canoni tipici della trap a cui siamo abituati in Italia. Ci salutiamo con un abbraccio, come due buoni amici, e in auto chiacchieriamo facilmente. Mi mostra i boots di Eytys che indossa, «li ho disegnati io», mi dice felice, «i bottoni li ho scelti a una fiera la prima volta che sono venuto a Milano». Prima di essere un musicista difatti, il nostro Ecco2K, alias di Zak Arogundade, è un designer che a nome g’Loss cura il merchandising della Drain Gang (e in passato ha creato parte dell’estetica e degli artwork di Yung Lean). Durante il viaggio mi mostra i prototipi di alcuni orecchini che sta disegnando e di come il Coronavirus gli ha bloccato il materiale in qualche fabbrica cinese fermandone la produzione. Mi racconta del suo impiego come editor e videomaker per sé e il suo collettivo, ma anche per artisti esterni come Yves Tumor (che si è sdebitato producendogli due brani del suo disco d’esordio E, uscito a inizio anno per la YEAR0001). «Mi piace fare video, alla fine è questione di avere buon gusto», mi spiega mentre ci scambiamo opinioni sull’estetica digitale 3D che imperversa in questo periodo.

Zak ha 25 anni e ha già fatto di tutto. Io, a 25 anni, avevo fatto poco e nulla. Mi accorgo che parlare con Zak è parlare con qualcuno che esula dalla mia idea di trapper figlia della bidimensionalità della trap italiana. Parlare con Zak è parlare con qualcuno inserito nel brodo culturale di un ambiente artistico europeo (e mondiale), attento e preparato su ciò che succede. Non a caso il ragazzo vive nomade per l’Europa perché, a suo dire, «a Stoccolma puoi resistere uno o due mesi, poi devi andartene, è troppo noiosa». Nella sua idea artistica, comune a quella della Drain Gang, ha recuperato le caratteristiche più interessanti della trap contaminandole con l’elettronica più audace al fine di costruire qualcosa di nuovo e fresco, che sa di futuro e non di presente stantio. Oh, quanto sono belle le ventate d’aria del nord.

Foto: Daniel Sannwald

Quando il pubblico di Macao esplode e inizia a pogare per il rap oscuro e malinconico di Ecco2K, capisco di esser dentro qualcosa. Qualcosa con un senso, un valore, un pubblico. Qualcosa con una propria tridimensionalità. Nonostante i beat lenti e l’atmosfera depre della sua musica, uno stormo di ventenni si lancia in salti, pogo, urla, cantando a memoria le strofe di E: è affascinante come la tristezza di questi testi («everytime I look in the mirror I feel nauseous / every time I look in the mirror i see monsters») possa trasformarsi in una tale energia. È uno scambio inaspettato che mi spiazza, a cui reagisco con ammirazione, rimanendo però a ballare on my own come mi ha insegnato Robyn. Perché va bene capire le wave, ma per il pogo c’ho un’età.

Ecco è in piedi sopra a un tavolo davanti a un muro di esaltati; è al centro della scena, ma allo stesso tempo è nascosto, svetta su tutti, ma è il meno visibile tra il fumo e il buio concordato con il light designer. La scelta di scomparire porta la performance in un’ambientazione mistica. Un’estasi claustrofobica. Ed è questa la peculiarità di Ecco2K come artista, la sua naturale sfuggevolezza, nei live come sopra i social network (su Instagram non lo troverete come Ecco2K, ad esempio). Zak e la Drain Gang sono una rivoluzione: spariscono per esserci, rimangono silenziosi in una scena in cui solitamente si straborda di parole e immagini. E quando decidono di mostrarsi, c’è sempre qualcosa di affascinante da prendere.

Quando ero pischello, il rap in Italia era un insieme di regole ferree da cui non potevi esimerti. Se non rispettavi i comandamenti, eri un sucker per sempre. Ora, a vedere questi svedesi che macinano video marci dall’estetica allucinante, tra strobo e testi emozionali e intimi, sento che ci siamo finalmente liberati da tutte le paranoie e i paletti bigotti dei salvatori della musica (quelli che restano inamovibili finché Sanremo non li chiama, come si dice qui da noi), lasciando finalmente esprimere e sfociare le sottoculture in un futuro fluido come la performance, il corpo e l’estetica di Ecco2K. Perché, come dice Zak, «Ecco is something I do, it’s not who I am». Che è una dichiarazione enorme della libertà che ci si può concedere oggi nella musica: tornare a fare il cazzo che si vuole, con la distanza e le modalità preferite. Come nel punk, ma con la mentalità aperta del pop.

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