«È un martire»: quando George Floyd faceva rap a Houston | Rolling Stone Italia
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«È un martire»: quando George Floyd faceva rap a Houston


Prima di trasferirsi a Minneapolis, Floyd faceva parte del collettivo Screwed Up Click. Ecco i ricordi di chi lo ha conosciuto: «Quando c’erano troppi omicidi in città si faceva sentire: non è così che devono andare le cose»

«È un martire»: quando George Floyd faceva rap a Houston

Foto: Bob Levey/Getty Images, Gary Miller/Getty Images, Prince Williams/Wireimage/Getty Images, Izzeddin Idilbi/Anadolu Agency/Getty Images, Scott Olson/Getty Images, Stephen Maturen/Getty Images

Cal Wayne parla veloce e le parole si mischiano una dentro l’altra. «Non voglio mentire, è devastante», dice il rapper di Houston. «Lo idolatravo». Cal racconta della mattina in cui ha ricevuto da un amico il messaggio che gli avrebbe cambiato la vita e avrebbe portato milioni di americani a protestare in strada. «Questo è tuo fratello», diceva il testo che accompagnava un video. Prima che Cal riuscisse a guardarlo tutto, la sua ragazza è rientrata a casa e gli ha confermato la notizia a cui non poteva credere. Era convinto che si trattasse di un arresto, la ragazza l’ha implorato di finire di guardare il video. «Non avevo capito che l’avevano ucciso».

Cal Wayne conosceva George Floyd da una vita. Era l’unico che credeva nella sua carriera nel rap. «Era il mio vicino di casa», spiega. «Ho vissuto con lui per tre anni. Quand’ero più giovane, mia madre è finita in prigione. Così la sua è venuta, ci ha presi con sé e siamo rimasti a casa sua».

Il 25 maggio George Floyd è stato arrestato da quattro agenti di polizia di Minneapolis nel parcheggio di Cup Foods. Secondo un commesso del negozio, Floyd aveva usato una banconota falsa per comprare delle sigarette. L’agente Derek Chauvin ha tenuto il ginocchio premuto sul collo di Floyd per più di otto minuti, mentre gli altri tre poliziotti – Thomas Lane, Tuo Thao e J. Alexander Kueng – restavano a guardare. «Non riesco a respirare», ha detto Floyd prima di svenire. «Per favore». Floyd è morto. Secondo l’autopsia di un dottore indipendente assunto dalla famiglia, la causa del decesso è «asfissia per eccessiva pressione». Floyd aveva 46 anni.

«Non era un tipo aggressivo», dice Cal. «Non faceva del male a nessuno».

È la sera prima della marcia dei manifestanti in direzione del municipio di Houston e due degli organizzatori dell’evento, Bun B e Trae tha Truth, hanno la voce stanca. Floyd è stato ucciso a Minneapolis, dove si è trasferito nel 2014 in cerca di fortuna, ma è cresciuto nel Third Ward di Houston. Anche loro rapper e padri, Bun e Trae hanno visto l’effetto che la morte di Floyd ha avuto sulle persone che conoscono.

«Questo venerdì mio figlio ha capito per la prima volta che anche i suoi bambini sono in pericolo in questo mondo, e lo sono solo perché neri», dice Bun B. «Mi veniva da piangere per lui».

Trae ha saputo della morte di Floyd mentre era nel salotto di casa con la figlia. Un amico l’ha chiamato chiedendogli chi fosse l’uomo nel video. Trae era sconvolto. «Mi sentivo perso», dice. «Guardavo il video ed era sconvolgente. Ho chiamato Cal Wayne. Era sempre con George prima che si trasferisse in Minnesota. Quando ha risposto stava piangendo. Era una cosa enorme».

Per un decennio Trae ha organizzato eventi per la comunità con la fidanzata Tiffany Cofield e Floyd era lì. «George la accompagnava in macchina», dice Trae. «Venivano spesso qui per aiutarmi con le mie cose. Ogni tanto andavo nei quartieri popolari per consegnare cibo, provviste, varie cose. Lui c’era sempre».

«Aveva più fiducia nelle persone che in sé stesso», aggiunge Trae.

La musica di Trae è stata censurata dalle radio all’inizio dello scorso decennio dopo una sparatoria avvenuta durante un evento che aveva organizzato. Molti l’hanno lasciato solo, ma non Floyd. In un video pubblicato sulla pagina Instagram di Trae, un giovane Floyd – con in testa un cappellino al contrario – sostiene l’amico e, per estensione, la comunità. «Il punto è stare assieme», dice alla sua città. «Perché Dio è buono».

«Sono stato escluso dalle radio di tutto il mondo», dice Trae. «Sono passati 11 anni. All’epoca molti mi hanno lasciato solo, non volevano nemmeno parlarmi. Non volevano avere alcun rapporto con me, mi hanno tagliato fuori. Lui invece si è esposto e ha fatto un video per raccontare quel che facevo per la comunità. Alzava sempre la voce per difendere il giusto, anche quando i ragazzi del quartiere facevano qualche stupidata. Quando in città c’erano troppi omicidi faceva sentire la sua voce: non è così che devono andare le cose».

Chi è cresciuto a Houston in quel periodo considera George, all’epoca noto come Big Floyd, un elemento chiave della scena che avrebbe influenzato gran parte dell’hip hop contemporaneo. In quanto membro del collettivo Screwed Up Click, la voce di Floyd appare in mixtape curati dal leggendario DJ Screw. Inventore della tecnica “chopped and screwed”, che consiste nel rallentare i dischi fino a far suonare voce e arrangiamento come se arrancassero nella melma, il dj ha inventato un suono che è ancora in classifica. «Era un innovatore», ha detto Russell Washington, presidente di Bigtyme Records, al New York Times nell’anno in cui è morto il dj, il 2000. «Chi l’avrebbe mai detto che rallentando la musica e coinvolgendo una serie di artisti locali di cui nessuno aveva mai sentito parlare avrebbe venduto venduto 300 mila copie?».

«È automaticamente legato a una storia leggendaria», dice Bun B del lavoro di Floyd con gli Screwed Up Click. «Essere così vicino a DJ Screw ti garantisce un certo status a Houston, sei considerato importante».

Alla fine degli anni ’90, il rap di Houston era unico, aveva una cultura e un’estetica tutte sue. La linea che separava i rapper professionisti da chi lo faceva per hobby era sottile. E i numerosi mixtape di DJ Screw spingevano ragazzi come Floyd a provare a fare rap. Era un’epoca senza CD, mp3 e social media, e le storie di questi talenti sopravvivono grazie «alla trasmissione orale, che le tiene in vita passando da una persona all’altra», come dice il rapper Paul Wall.

«Big Floyd rappava su quelle cassette e c’erano molti rapper che facevano il suo nome nei pezzi. Big Pokey ha dedicato una rima a Floyd, così come Lil’ Keke e Mike D», dice Wall. «C’era gente di tutti i tipi. Il mixtape Chapter 007: Ballin’ In Da Mall è una sorta di leggenda. Floyd lavorava da Foot Locker con altri tipi ed era il compleanno di qualcuno. Forse il suo. Fatto sta che incontra gli amici che gli chiedono: che vuoi fare per il compleanno? E lui: voglio fare un pezzo con Screw, il giorno del mio compleanno andremo da lui. Andava così, si festeggiava suonando con Screw».

DJ Screw - Chapter 007 Ballin In Da Mall

Nella prima metà degli anni Zero, Paul Wall e gli Swishahouse (Mike Jones, Chamillionaire, Slim Thug) hanno conquistato il successo commerciale a cui la generazione degli Screwed Up Click non ha mai potuto aspirare. Wall è un rapper bianco, e non rispetta solo la memoria dei musicisti che popolavano i mixtape di Screw, ma anche la cultura di Houston che l’ha accettato. «Non importa dove sono cresciuto, e nemmeno quanti soldi ho dato alla comunità. Non importa a quante proteste sono andato o quante canzoni con messaggi positivi ho registrato. Non è importante il tempo passato con la comunità o il fatto che ho una moglie nera», dice Wall. «In quanto bianco americano, rappresento chi ha beneficiato dello schiavismo su cui è stato costruito il Paese».

Bun B e Trae tha Truth sono partiti per Minneapolis per protestare per Floyd e per tutti gli afroamericani uccisi dalla polizia. Qualche giorno dopo sono tornati a occuparsi della sua città natale. Bun B non lo conosceva personalmente, ma alcuni suoi amici sì. Uno di loro è Stephen Jackson, l’ex giocatore dell’NBA che Floyd definiva «un gemello». «Pensate a questa storia: un uomo cresciuto in una zona dove avrebbe avuto poche possibilità di farcela», ha detto in una conferenza stampa, «ha la possibilità di allontanarsi da quell’ambiente. Se ne va, ha successo. Trova un lavoro, la sua vita inizia ad andare nella direzione giusta. Inciampa di nuovo, ma questo non significa che debba perdere la vita».

Bun B, Trae tha Truth, la famiglia di Floyd e chi protesta chiedono nuove leggi, dall’istituzione di una commissione indipendente dotata di poteri operativi come ottenere ed esaminare le prove senza l’interferenza della polizia a pene maggiori per gli agenti che commettono crimini come l’omicidio di Floyd. Anche se approvate, le nuove leggi non riporteranno in vita i molti afroamericani uccisi dalla polizia, ma sarebbero il primo passo per far sì che non avvenga di nuovo.

Alcune ore dopo la manifestazione, ho chiamato Cal per chiedergli come si sente ora che tutto il mondo combatte per Floyd. «È grandioso», dice. «Ha sconvolto il mondo. Big Floyd è davvero Big Floyd ora. È un martire».