È Stuart Murdoch o Stephen Rutherford? | Rolling Stone Italia
Autofiction

È Stuart Murdoch o Stephen Rutherford?

Dove finisce la vita del cantante dei Belle and Sebastian e dove inizia quella del protagonista del romanzo ‘L’impero di nessuno’? La sindrome da stanchezza cronica, la depressione, i sogni, la realtà. Intervista

È Stuart Murdoch o Stephen Rutherford?

Stuart Murdoch

Foto: Marisa Privitera Murdoch

È l’alba degli anni ’90 e Stephen Rutherford non se la passa tanto bene. Ha scoperto di avere una malattia invalidante – l’encefalite mialgica, o sindrome da stanchezza cronica – di cui si sa poco o nulla. Come se non bastasse, Vivian, la sua ragazza, l’ha lasciato. Stephen crolla, va in depressione e smette quasi di mangiare. I genitori chiamano un’ambulanza e lui finisce in un reparto psichiatrico dell’Ayrshire meridionale, non lontano dalla casa natale di Robert Burns, il poeta scozzese di Auld Lang Syne. Il ritorno a Glasgow – città di studi, passioni musicali, nuovi e vecchi amici – e un viaggio trasformativo in California lo riportano lentamente a sé, fino al ritorno a casa, che nel romanzo prende la forma di un nuovo inizio. Un mondo di possibilità in cui Stephen, sorretto anche dalla fede, scopre il talento di scrivere canzoni e la capacità di amare ancora. Nonostante tutto.

L’impero di nessuno (Jimenez, traduzione di Carlo Bordone) è il secondo libro di Stuart Murdoch dopo The Celestial Café (2010). È un coraggioso inno anti-conformista alla diversità e alla vulnerabilità. È un romanzo di formazione – il titolo deriva dall’omonima canzone in Girls in Peacetime Want to Dance (2015) – che si muove avanti e indietro nel tempo, prima e dopo il crollo di Stephen, malinconicamente o dolcemente, come un mixtape di vita, malattia e rinascita raccontato in prima persona dall’alter ego narrativo del cantante.

Il leader dei Belle and Sebastian, che nel 2026 torneranno in Italia con il tour celebrativo del trentennale dei primi due album Tigermilk e If You’re Feeling Sinister con date a Milano e Bologna (12 e 13 luglio) e, come ci ha anticipato Murdoch, con la speranza di aggiungere Roma e Catania (Marisa Privitera, la moglie di Murdoch che ha ispirato Janey, una delle due protagoniste femminili del romanzo, ha origini ad Acireale), ce ne parla via Zoom, in un’assolata giornata scozzese.

L’impero di nessuno è pura autofiction. C’è molto di autobiografico, a partire dalla malattia di cui soffri dalla fine degli anni ’80 fino al viaggio in California e alla scoperta della vocazione musicale. Come mai hai scelto questa forma?
Non avevo un editore quando ho iniziato a scrivere ed ero del tutto ignaro del genere autofiction. È stato il mio agente letterario a farmelo notare quando ho finito il libro. La mia intenzione era raccontare quello che mi è successo nel modo in cui mi sentissi più “comodo”. Ma credo di aver usato lo stesso metodo che uso quando scrivo le canzoni: richiamando voci e persone diverse, prospettive differenti. In fondo volevo solo raccontare una storia, ed era più facile per me se non era strettamente non-fiction, se potevo aggiungere elementi di finzione.

La memoria ti è venuta in soccorso?
Ovviamente ho dovuto inventare molto, praticamente tutte le conversazioni. Alcuni personaggi sono due persone messe insieme. Non stavo andando a caccia della verità letterale, la verità non era la mia preoccupazione principale. Ma penso che a volte, quando ti permetti di essere libero nello scrivere, puoi arrivare a una verità più grande.

Stephen ti ha mai sorpreso, facendo o dicendo cose che tu non avresti detto?
Molte delle cose che Stephen dice, e alcune delle cose che fa, io non le ho fatte. È difficile scrollarsi di dosso 35 anni di esperienza, quindi stavo mettendo parte della mia esperienza presente dentro di lui. Se fossi stato io a scrivere il libro all’epoca, sarebbe stato molto diverso. Stephen ha più saggezza di quanta ne avessi io allora. È più consapevole di sé, più calmo, ed è interessato al buddismo, mentre io all’epoca non lo ero. Quando l’ho scritto, non avevo nessuna di queste domande in testa: questo è Stephen? Questo sono io? Se mi fossi fermato su questo, non avrei mai scritto il libro. L’ho scritto in modo molto naturale, proprio come scrivo le canzoni.

Dal punto di vista del fan, il romanzo ha una doppia chiave. Ci sono momenti che rimandano alla storia dei Belle and Sebastian. Leggendolo ci si chiede spesso: dove finisce Stuart Murdoch e dove comincia Stephen Rutherford?
Penso che sia naturale chiederselo. Anch’io mi ponevo le stesse domande da lettore. Ricordo che Il giovane Holden era uno dei miei libri preferiti e, leggendolo, ero talmente immerso nel personaggio che davo per scontato che lo scrittore fosse Holden Caulfield. Ma non era così. Lo stesso vale per Ritratto dell’artista da giovane di James Joyce, o per Di qua dal paradiso di Scott Fitzgerald: anche lì c’è quello spazio ambiguo, quasi autobiografico, è davvero lui o non lo è?

Una delle cose più sorprendenti del libro è come la vulnerabilità – la malattia, la fragilità, il rallentare – diventi una forma di forza. Lo senti anche tu? E le nuove generazioni vivono la vulnerabilità in modo diverso dagli anni ’80 e ’90?
È una domanda interessante. Bisognerebbe fare un sondaggio serio per capirlo. Ma penso che la generazione più giovane sia fantastica. A volte viene criticata dalle persone più anziane – il classico gap generazionale. La gente dice: «Non lavorano mai», oppure «Si preoccupano troppo». Ma io penso che ci siano molte persone sensibili in giro e che, in fondo, le persone non cambino poi così tanto. Spero davvero che qualsiasi giovane prenda in mano questo libro, se si sente vulnerabile o in una situazione difficile, possa trovarci un po’ di forza, di comprensione o di conforto. Quando ero giovane non c’erano libri sulla EM o su altre malattie croniche. Avrei voluto trovare qualcosa di simile a quei tempi. La cosa divertente è che anni fa qualcuno mi chiese di scrivere un libro per giovani adulti. E io ho detto: «Be’, potrei farlo, sono stato giovane, potrei scriverlo». Poi però mi hanno spiegato tutte le regole che avrei dovuto seguire e ho pensato che non le volevo seguire, volevo solo scrivere un libro.

Pratiche standard, cose da manuale o da corso di scrittura per costruire una storia “come si deve”.
Non fa per me.

In una intervista al Guardian dicevi che il libro potrebbe diventare il Trainspotting della ME. Che cosa intendevi davvero?
Quello che ho detto, in realtà, è che se mai il libro fosse trasformato in un film, allora forse dovrebbe essere un po’ come Trainspotting, perché non riuscivo a immaginare come si potesse fare un film su… be’, su di me. Un film ha bisogno di azione, mentre la mia storia non è propriamente d’azione. Ho detto che, nel caso, potrebbe avvicinarsi a qualcosa come Trainspotting anche perché il romanzo è molto diverso dal film, ma il film è comunque bellissimo (e Murdoch vi ha partecipato come comparsa, nda). La cosa divertente è che adesso – proprio ora – mi sto occupando davvero di adattare il libro per il cinema. C’è una casa di produzione di Londra che vuole farne un film, e quindi sto pensando: come faccio a trasformarlo in un film che le persone vogliano vedere? Che risulti interessante? Ecco, questa è la sfida.

Alcune parti del libro – secondo me tra le più riuscite – in cui Stephen parla di musica rimandano a un negozio di dischi, a un dj set, a una cassetta: oggi diremmo una playlist. Quel modo intenso, quasi ossessivo di amare la musica è ancora possibile oggi?
Penso che oggi le persone si avvicinino alla musica in un altro modo. Non vivono la stessa esperienza che avevamo noi: uscire per comprare un disco il giorno dell’uscita, sfogliare la copertina… è qualcosa di diverso. Però è evidente che la musica la ascoltano ancora moltissimo. Quando eravamo giovani noi seguivamo un certo gruppo di band, uno stile preciso: era quasi una tribù. Adesso mio figlio può ascoltare qualcosa uscito ieri, poi qualcosa degli anni ’70 o ’80… e costruisce connessioni tutte sue. La musica significa qualcosa di diverso. Quindi sì, è un’altra cosa, ma sono sicuro che sia ancora possibile. Le persone non cambiano: l’amore per la musica è lo stesso di quando eravamo giovani. E poi, ripensando all’adattamento cinematografico: se mai dovessi trasformare questo libro in un film, sarebbe un film molto musicale. La musica è un’energia. Quando Stephen parla o pensa alla musica entra in un regno fantastico, un luogo in cui è di nuovo sano. Per lui la musica è l’opposto della malattia: è fuga, è sogno. Quindi il film potrebbe avere quell’elemento. Potrebbe perfino diventare un musical, con un po’ di realismo magico, una dimensione che prende vita e in cui Stephen evade dalla sua malattia.

Nel romanzo Stephen compone alcune canzoni. Alcuni titoli sono poi finiti nei dischi dei Belle and Sebastian. Gli altri erano veri brani dell’epoca oppure titoli inventati?
La maggior parte erano idee di brani che avevo in testa allora. Nel libro c’è un passaggio in cui Stephen annota dei titoli possibili… e io facevo la stessa cosa. Scrivevo nomi di canzoni e sognavo che un giorno sarebbero diventate canzoni vere, poi dischi. The Stars of Track and Field (brano d’apertura di If You’re Feeling Sinister, nda), per esempio: quel titolo mi era venuto in mente molti anni prima che la band nascesse.

Belle and Sebastian. Foto: Anna Isola Crolla

Nel romanzo il viaggio è un passaggio fondamentale. Cambiare luogo può davvero innescare un cambiamento interiore?
È una domanda molto interessante. Quando ero più giovane, prima di viaggiare, avevo questa idea in testa: «Non ho bisogno di lasciare Glasgow». Vedevo gli altri viaggiare, ma io ero molto preso dalla mia musica e pensavo: ho tutto qui, il mio mondo è qui. Poi mi sono ammalato, e le circostanze sono cambiate. E viaggiare a San Francisco ha cambiato me e il mio amico Michael, il Richard del libro. Non credo che tu debba viaggiare per cambiare. Non è necessario. Ma può essere un catalizzatore. E per me lo è stato, in modo molto positivo. Lo è stato anche dopo, con la band: non avrei mai immaginato che avremmo girato il mondo. Non pensavo che saremmo andati in Italia, in Brasile… Poi la mia salute è migliorata abbastanza e all’improvviso eravamo in Giappone, a Singapore. Ancora oggi, uno dei piaceri più grandi della mia carriera è salire su un palco in Argentina e cantare davanti a 5000 persone. È meraviglioso.

Sei ancora in contatto con Michael?
Sì. Senza fare troppi spoiler… Michael ha incontrato davvero sua moglie a un meeting sulla EM in California, ed è molto felice. Vive ancora a Sacramento. Ci sentiamo, e quando torna in Scozia per vedere sua madre ci incontriamo sempre.

Ti sei mai chiesto cosa sarebbe successo se fossi davvero tornato a San Francisco?
Penso che non sarebbe andata bene. A volte Dio ti mette una mano sulla spalla e ti dice: «No, non adesso». E anni dopo, nel 1995, quando stavo scrivendo tante canzoni e non riuscivo a mettere insieme una band – la gente non era interessata, io non avevo energia – pensavo: almeno a San Francisco mi ascoltavano, erano entusiasti.

Quindi ti mancava quell’energia, quell’atmosfera…
Sì. Ma proprio in quel momento, nel 1995, quando stavo quasi per tornare a San Francisco, è arrivata la proposta del college di Glasgow. Proprio in quella settimana. E allora ho capito: ok, sta succedendo qualcosa (grazie al programma Beatbox, un corso allo Stow College frequentato anche dal bassista Stuart David, oggi Glasgow Kelvin College, che Stuart Murdoch ha potuto incidere Tigermilk e fondare di fatto i Belle and Sebastian, nda).

Una chiaroveggente ha predetto davvero che avresti vinto un disco d’oro a San Francisco?
La cosa buffa è che non me lo ricordavo affatto. Me l’ha ricordato Michael quando è venuto a trovarmi due anni fa, mentre stavo scrivendo il libro. Abbiamo pranzato insieme e, chiacchierando del nostro periodo a San Francisco, lui mi fa: «Ti ricordi quella donna che disse…?». Io avevo completamente dimenticato quel dettaglio. Mi sembrava assurdo, quasi ridicolo… perché mai qualcuno avrebbe parlato di un disco d’oro? E invece poi è successo davvero. Per fortuna quel ricordo è tornato fuori all’ultimo momento, ed è finito nel libro.

Il romanzo si chiude con una frase magnificamente aperta: “We could do anything”. Hai mai pensato a un secondo volume?
Sì, ci ho pensato. Ma bisogna aspettare il momento giusto e l’anno prossimo la band sarà molto impegnata con il tour.

Tornerete anche qui da noi, con date a Milano e Bologna. C’è spazio per altri concerti in Italia?
Sono molto interessato ai posti in cui andiamo. Sono stato io a dire al nostro manager «Dobbiamo tornare in Italia», perché le date italiane non erano ancora state fissate. Sto sempre cercando di portarci giù, a Catania, che logisticamente può essere un po’ più complicata, ma mi piacerebbe suonare dove vive la famiglia di Marisa. Non suoniamo a Roma da anni, e mi piacerebbe farlo. Mia moglie parla italiano, e i miei ragazzi (Denny e Nico, nda) lo stanno imparando, e passiamo sempre del tempo in Sicilia. Quindi sì, sento un richiamo. Ne sto parlando con il mio manager e il mio agente, loro conoscono i promoter. Spero che riusciremo a farlo succedere.

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