Rolling Stone Italia

È ora di rivalutare Il Guardiano del Faro, il pioniere italiano del Moog

Intervista a Federico Monti Arduini, l’ex discografico che ha segnato la lounge italiana e che è tornato con un disco. Troppo morbido per voi? «Ok, ma quando state con una ragazza cosa mettete in sottofondo?»

Foto press

Musica leggera, anzi leggerissima, chiedevano a gran voce Colapesce e Dimartino. Ebbene, abbiamo in Italia un musicista di “appena” 82 anni che la musica leggerissima l’ha sempre fatta. Leggera sì, ma con tutta la profondità delle emozioni che ne consegue e che fa a meno delle formule retoriche. Federico Monti Arduini, meglio conosciuto con il nome de Il Guardiano del Faro, è diventato famoso proprio con un’idea leggerissima: prendi un Minimoog nel 1972, che ai tempi era come sentire un’astronave, suonaci il tradizionale Amazing Grace sopra, pubblicalo sotto falso nome e via.

Direttore prima della Ricordi e poi della Polydor, non ha mai usato il suo potere per raggiungere il successo, anzi: quello che gli interessava e gli interessa ancora oggi è provocare emozioni. Che non devono essere per pochi, ma di tutti. Oggi torna in pista con Il venditore di sogni, un nuovo album dopo ben vent’anni. Con lui abbiamo ripercorso le tappe della sua carriera e le motivazioni che tengono le sue dita sulla tastiera.

Sei stato, secondo me, un personaggio chiave per la rivoluzione musicale dell’avvento dei synth in Italia. Possiamo dire che tu sei il primo ad avere utilizzato il Moog?
In Italia sono stato assolutamente il primo, nel senso che sono stato il primo a dare al Moog una “personalizzazione”: i grandi strumentisti o gli artisti stranieri lo usavano principalmente come effettistica o per fare gli assolo, non come voce solista. Nel mio caso il Moog faceva il tema, come in Amore grande, amore libero. Non era nel background ecco, ma in prima linea.

Quindi anche prima della PFM, dei Pooh e via discorrendo?
Sì, loro lo usavano ma con un altro spirito. Difatti poi Moog mi ha invitato nel suo stabilimento in Canada, vicino alle cascate, dove aveva questo posto nel quale creava tutti gli strumenti per ringraziarmi di quanto avessi fatto in Italia per lanciare il Moog.

Anche perché tu – e questa è la cosa importante – l’hai sdoganato.
Sì, grazie a me è nato un interesse per questo strumento per cui poi tutti quanti gli artisti si sono messi a cercarlo, vederlo, provarlo. Il Moog è uno strumento che dà infinite possibilità.

Certo, poi tra l’altro da poco è stato la ricorrenza del compleanno di Robert Moog e la Moog Music ancora va fortissima producendo nuovi synth analogici.
Era una persona stupenda. Siamo stati a parlare una notte intera di musica, ma io sarei potuto andare avanti una giornata ancora perché lo ascoltavo e capivo perché aveva inventato lo strumento.

Perché fondamentalmente era un visionario?
Sì, molto. Ma soprattutto era di una sensibilità incredibile verso gli artisti. Conservo una sua lettera che poi mi ha scritto che è davvero commovente. Io non ho mai trovato in giro una persona così empatica verso chi scrive musica.

Qual è il modello di Moog che prediligi?
Il Polymoog. Me l’ha regalato proprio Bob: era ancora un prototipo non commercializzato quando l’ho provato. Avendo suonato solo il Minimoog che era monofonico quando ho messo le dita sul Polymoog ho esclamato «ma che meraviglia». E lui: «questo è tuo». Ce l’ho ancora.

Ma tu ascoltavi roba sperimentale per sintetizzatore?
No, ad essere sincero no.

Quali erano i tuoi ascolti quando hai cominciato col Guardiano?
La mia grande passione è sempre stata il jazz. Sono nato con tutti grandissimi pianisti tipo Bill Evans, Chick Corea, Dave Grusin, Bud Powell.

Quindi ti sei approcciato in maniera jazzistica al synth, nel senso con l’idea dello strumento solista che si libera.
Amo proprio la parte improvvisativa del jazz, armonizzazioni a parte che sono la mia base… Per dirti: quando ho iniziato a fare questo mio nuovo disco con Natale Massara, arrangiatore e collaboratore tra l’altro di Battisti, lui mi faceva sentire le armonizzazioni e diceva «ma son troppo complicate Federico» e io gli dicevo «no no, devi far così, le cose semplici lasciamole fare agli altri».

Del disco nuovo parleremo più avanti, ma ne approfitto, visto che sei stato venti anni senza farne uno, per dire che sei stato importante per la “teoria dell’oscurità” in Italia. In America i Residents l’hanno messa a punto con il fatto che nessuno sapeva chi fossero, e tu – contemporaneamente alla loro fondazione – nel 1972 eri già nascosto dietro a un nome misterioso.
Era un’esigenza, la mia. All’epoca ero un dirigente della Ricordi e per pura combinazione avevo incontrato il Moog sulla mia strada. Provai lo strumento grazie a un amico che faceva l’importatore, e quando ho registrato per testarlo poi è venuto fuori Il gabbiano infelice. E lì alla fine ho detto: questo è un successo sicuro, ma io non posso pubblicarlo, sono un dirigente della Ricordi non posso fare l’artista. Per cui ho chiamato un mio amico produttore, l’ho fatto venire alla Ricordi e gli ho detto «adesso vai dai discografici della Ricordi ma non dire assolutamente che sono io». E così è stato. La Ricordi lo voleva pubblicare subito e questo mio amico disperato venne da me a dirmi «vogliono sapere chi è l’artista» e io gli ho detto «guarda , l’artista deve essere Il Guardiano del Faro».

Perché la tua casa al mare era nei pressi di un faro, giusto?
Sì, era all’ Argentario, proprio esattamente sopra a un faro disabilitato, dove noi andavamo a suonare da ragazzi alla sera con le chitarre… è stato un momento felice anche della mia vita da ragazzo.

Negli anni ’90 quando è scoppiata la moda internazionale del revival della bachelor pad music e quindi gli Stereolab, i Moog Cookbook e insomma tutta questa musica “da scapoli” che veniva rivalutata ed era originariamente nata come un modo per portarti la ragazzetta a casa, la prima cosa a cui pensavi erano i dischi del Guardiano.
Eh sì, ci aiutava di brutto (ride).

Che cosa mettevi in Italia per cuccare? Il Guardiano del Faro!
Lo sai quanti infatti mi hanno accusato? «Per colpa tua mi son dovuto sposare»,«per colpa tua ho fatto due figli» (ride).

E a un certo punto, dopo essere stata vista come una musica di consumo, commercialotta, presa sottogamba (vedi anche Fausto Papetti), ecco che dall’estero arriva un recupero che ne fa la nuova musica alternativa. Per dire, gli Stereolab avevano la fissa di Esquivel e tu eri il nostro Esquivel. Sei stato un pioniere della lounge music qui da noi.
Sono stato un pioniere, ma in piccolo. Se mi paragonavo a quelli di quel momento io facevo canzonette, diciamocelo onestamente. Sincere, ma non erano caratterizzate da una ricerca di effetti, di suono: io avevo scoperto questo strumento elettronico, me ne ero innamorato e da lì ci ho tirato fuori venti LP.

E in effetti un’altra tua peculiarità è aver sdoganato e dato lustro alla musica strumentale, perché come diceva anche Tullio De Piscopo con il quale hai lavorato, è grazie a quelli come te che si è riuscito a portare in classifica le strumentali aprendo poi la strada a cose più complesse, jazz-rock, fusion…
Non c’è alcun dubbio. Tullio ha fatto un disco intero con me, bellissimo. Forse anche il più famoso.

Il mitico Oasis, anno 1978.
Che è andato forte nel mondo. È stato ripubblicato in otto paesi tra cui Giappone, Germania e Inghilterra.

Oasis è stato riscoperto per la sua vena sperimentale e soprattutto perché anticipa il movimento chill, glo-fi, drugapulco sviluppato nei Duemila.
Sì sì, vero.

Una perla che era stata messa in secondo piano, ma che invece è innovativa soprattutto nell’uso delle drum machine che non è che all’epoca suonassero così bene.
Possiamo dire che con Oasis io sono uscito un po’ dal seminato. L’album è registrato interamente con strumenti elettronici, sia come solisti che come accompagnamento ed effettistica. L’ho composto e registrato tutto al mare, per quello è così particolare per me, ed ecco anche perché è stato notato, perché si sente che c’è qualcosa di vero, di vissuto.

Ma poi anche perché è anche uno delle prime cose fatte con un home studio, che ora è la prassi.
Adesso molta della produzione è così. Sono scomparsi gli orchestrali, le sale di registrazione perché ormai si fa tutto in casa.

Un’altra cosa importante è che tu anticipi la new age nei tuoi dischi. Che sono sempre alla ricerca di un “equilibrio cosmico”.
Sì, verissimo.

I vari Giusto Pio, Rondò Veneziano e diciamo tutto il giro new wave sinfonico ci sono arrivati quando tu avevi già intuito l’andazzo da un bel po’.
Sì, ma perdonami, devo fare una piccola distinzione. Giusto Pio era anche lui un’anima che “vomitava” e faceva qualche cosa che non esisteva. Rondò Veneziano era invece un prodotto estremamente commerciale, bello, fatto bene, da una grande personalità come Gian Piero Reverberi. Uno era l’anima, l’altro il commercio.

E tu ti ponevi a metà tra questi due aspetti?
Io ho sempre fatto le cose senza pensare che sarebbero state un successo. Avevo bisogno di esprimermi e la musica per fortuna mi dava la possibilità di esternare. Ancora oggi sono stupito, ad esempio, dal successo di questo mio ultimo disco, Il venditore di sogni.

Uscito dopo vent’anni di silenzio.
Lo volevo fare, non mi importava vendere, mi interessa farlo. Certo, non c’è dubbio, ho avuto la fortuna di poterlo fare. Ma il successo che ricevo adesso è appagante al di sopra di ogni aspettativa.

Raccontami la genesi di quest’ultimo lavoro.
Come ti dicevo prima sono molto amico di Natale Massara e ogni tanto ci trovavamo. Gli ho fatto sentire il nuovo materiale che avevo e a furia di dire senti qua e senti là a un certo punto lui mi dice «ma Federico perché non facciamo un album?». All’inizio dicevo «ma no, oramai sono tanti anni che non faccio più niente, la gente si sarà dimenticata, lascia stare tanto alla mia età» e lui «ma no, guarda i tuoi pezzi non hanno età ed è un filone di musica che non c’è più e di cui la gente ha bisogno». A furia di dirmi queste cose mi ha convinto.

E ci sono molti ospiti in questo album.
C’è CeCe Rogers che ha avuto due nomination ai Grammy. L’ho conosciuto per caso, voleva cantare un mio pezzo, la vita è fatta di queste improvvisazioni. E poi Fabrizio Bosso che è la più bella tromba che ci sia: io quando sento suonare dieci trombe e tra queste c’è Fabrizio lo riconosco immediatamente perché ha un suono molto caldo. Poi c’è Giuseppe Milici, un armonicista bravissimo. Stavo cercando un suono d’armonica come quello di Toots Thielemans per un pezzo. L’ho contattato su Internet, gli ho spiegato che con gli ospiti di questo album era abitudine palleggiarle le tracce. Così gli ho mandato la base e quando lui me l’ha rimandato ho detto a Natale «non voglio suonarci sopra», era troppo bello. E Giuseppe mi ha confessato che ha pianto tutto il tempo in cui ha suonato il mio pezzo.

E l’elettronica? Mi sembra un po’ messa da parte in questo disco.
Sì, e ti spiego perché: perché questo è un disco per pianoforte e grande orchestra, di 40 elementi. Ho pensato che prima di fare tutti quei suoni elettronici Il Guardiano è anche un essere umano che suona e compone al pianoforte. E allora con questo disco ho voluto far sentire come nascono i miei brani. Voglio far vedere che possono essere anche dei pezzi strumentali in direzione classica.

Che poi è il tuo background.
Eh sì, ho studiato con Von Karajan, che era amico di famiglia e quando veniva a dirigere a La Scala era ospite dei miei. Io avevo il mio maestro di pianoforte qui in Italia e Von Karajan parlava col mio maestro: «ho sentito Federico da qui a qui, ora deve arrivare da qui a qui». Tutte le volte che veniva diceva cosa bisognava fare.

Tu come pianista sei stato precoce.
Ho fatto dei concerti da ragazzo, ma non amo il palcoscenico. Mi piace stare dietro le quinte, forse per timidezza.

A proposito di scrittura, tu sei anche stato autore di canzoni per altri. Mi piacerebbe ad esempio sapere come era lavorare con Gaber, visto che hai scritto per lui brani che sono finiti su dischi fondamentali come Il Signor G.
Che dire su Gaber… ho un ricordo molto offuscato. Perché il lavoro è stato fatto attraverso un amico di entrambi, non ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente. Ad esempio quando Mina ha cantato il mio pezzo Ma ci pensi ho detto: «a posto, ora chiudo, più di così non posso fare» (ride). Ma poi ho scritto tanto anche per artisti stranieri, penso a Cliff Richard: ha venduto 12 milioni e passa di copie della mia canzone All My Love. E poi la Cinquetti, la Berti, Santo & Johnny. E ci sono molti artisti a me sconosciuti che hanno cantato le mie canzoni.

Tra i tanti ad esempio c’è Gino Vannelli, che voglio dire…
Beh quello è un genio. A uno così apro la porta e dico «prego s’accomodi». Un bellissimo incontro, musicalmente fantastico. L’ho incontrato grazie a Mario Rosini, altro cantante che è nel mio disco; con lui siamo arrivati secondi al Festival di Sanremo del 2004 con Sei la vita mia. Faccio un salto temporale: io ho una società di edizioni che si chiama Cafè Concerto che ha rappresentato clienti come la Disney, Fox, Dreamworks, le Spice Girls, e tra questi c’era anche Gino Vannelli. E Gino a un certo punto ci dice «perché non facciamo un concerto al Blue Note di Milano?». È stato bellissimo, perché Mario vive a Bari, Vannelli abita a Portland ai confini con il Canada e hanno fatto tutte le prove generali via Skype. Sono arrivati al Blue Note e hanno fatto tre notti sold out.

C’è anche un’altra collaborazione nel tuo curriculum, secondo me poco ricordata, quella con Maurizio Piccoli, con Giù per queste strade
Un grande.

È poi diventato un notevole esperto di musica elettronica.
Ma più che altro lui scriveva molto bene, molto sincero.

E ho notato che in quella collaborazione c’è un legame forse scontato tra Il Guardiano del Faro produttore e il progressive. Tu come hai vissuto il prog quando è arrivato in Italia?

Dipende che intendi per prog perché se parti da dove sono partito io il progressive era tutto quello che veniva da fuori Italia (ride).

Hai ragione. Mi riferisco ai Genesis, eccetera.
Beh, vedi, quelli ad esempio a parte gli effetti avevano un’anima. Se poi sentivi Vangelis, lì c’era tutto. Non solo il suono, ma l’anima del brano. Ecco, lì era il connubio che faceva il successo, era formidabile.

Tu ti senti un po’ il Vangelis italiano?
No, non mi metto così in alto. Cerco di arrivarci però (ride).

Visto che sei un acuto osservatore delle mode, come vedi l’evoluzione della musica italiana?
Sono molto contrariato dalla musica di adesso. Faccio sempre un esempio, che non vuole essere vecchio stile o roba del genere, ma semplicemente concreto e realista. Alla Ricordi quando c’era il Festival di Sanremo venivano gli editori dal mondo per comprare le canzoni italiane. Abbiamo venduto roba come Quando quando quando, Le colline sono in fiore, tutte cose che hanno girato il pianeta e hanno portato soldi in Italia, ma veramente tanti. Oggi invece non si varca il confine della Svizzera.

Quindi certi personaggi hanno poco da vantarsi di chissà quali successi.
Ma poi tutta roba di un colpo e via, non c’è futuro. Io dico sempre: ma cosa finiranno a cantare i giovani di domani? Ancora adesso noi cantiamo Battisti, questo vuol dire qualcosa.

Certo, vuol dire che la lotta è tra l’anima e il denaro.
Il concetto è «dai dai, facciamo, prendiamo tutto quello che ci arriva subito e chi se ne frega di domani». È una accusa che faccio non solo alle case discografiche, che purtroppo sono succubi delle radio. Prova tu a far sentire dei brani con una certa atmosfera, tipo i miei, sono rare le trasmissioni che le passano. In America hai la classifica per il country, quella per il rock, quella per il pop, ognuno il suo spazio. Qui no.

È per questo che i giovani hanno bisogno della tua musica, ha ragione Massara.
Eh, ma vedi come la musica appare in televisione? Quello col ciuffo bianco, quello che manco è vestito da donna, è direttamente nudo. Se non fai quel genere di cose sei out.

Mi rendo conto però anche che le nuove generazioni quando fai sentire determinate cose rimangono stupefatti, come se gli si aprisse un orizzonte di cui non sapevano l’esistenza.

Ma sì, infatti sai cosa dico spesso quando parlo di queste cose coi giovani? Dico: ragazzi, non è che non va bene quello che fate, ma quando state con una ragazza, che siete in una serata d’amore, in sottofondo che cazzo le suonate? E loro mi danno ragione (ride).

Iscriviti