È il momento di recuperare questo gioiellino napoletano del 1979 | Rolling Stone Italia
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È il momento di recuperare questo gioiellino napoletano del 1979

Presente il Giardino dei Semplici? Non hanno fatto solo pop sdolcinato, ma anche un disco (‘B/N’) in stile Neapolitan Power che potrebbe sorprendervi. Racconta tutto il frontman Gianfranco Caliendo

È il momento di recuperare questo gioiellino napoletano del 1979

Il Giardino dei Semplici nel 1979

Foto: per gentile concessione di Gianfranco Caliendo

Dal 1974 al 2012 Gianfranco Caliendo è stato frontman, voce solista, chitarrista e autore del gruppo pop Il Giardino dei Semplici: 4 milioni di copie vendute, tre Festivalbar e un Festival di Sanremo, 14 album pubblicati e oltre 2000 concerti tenuti in tutta Italia. Nonostante hit quali M’innamorai e Miele (Caliendo è anche autore di Turuturu della coppia Francesco e Giada, quest’ultima sua figlia), il Giardino è una realtà “occulta” nella storia della musica italiana, autori di un album che, per la carica innovativa e il tentativo di alzare l’asticella nel mondo di un pop sempre più ridotto a prodotto in serie, ha creato più di una “antipatia” nel settore. B/N, uscito nel 1979, rappresenta forse il vero inizio e ahimè una ipotetica fine della spinta propulsiva del gruppo napoletano. Oggi che un certo tipo di sonorità sono tornate in voga, ne parliamo proprio con Caliendo che è la memoria storica ed è ancora attivo con la Miele Band.

Il Giardino dei Semplici nasce nel 1974, ma non ancora con questo nome. Coltivavate radici prog rock, giusto?
Eravamo ragazzini che amavano le tendenze musicali del momento e quindi ascoltavamo e suonavamo volentieri il prog, che all’epoca aveva uno spazio di primo piano assoluto tra i giovani, come me, cresciuti con il mito di Woodstock e delle grandi band internazionali e italiane. Tra noi quattro c’era Andrea l’organista che aveva avuto esperienze con i Volti di Pietra, il “complesso” da cui scaturì il progetto Osanna, e quindi con il leader Lino Vairetti. Gianni, che era un po’ più grande di noi, era forse l’unico che aveva vissuto in pieno Elvis, i Beatles e lo Spencer Davis Group, non molto riconducibili al prog. Invece io ero fan dei Led Zeppelin, dei Deep Purple e dei Cream di Clapton, ma avendo avuto una formazione classica, grazie a mio zio Eduardo, ero in pratica un surrogato di chitarrista prog senza sforzarmi di esserlo. Inoltre, amavo moltissimo le prime band italiane del genere, PFM, Banco, Rovescio della Medaglia e gli stessi Osanna. Coinvolsi Luciano in questa mia passione, e lui mi appoggiò molto all’interno del Giardino dei Semplici quando cominciai a dare un orientamento prog alla band. Un altro gruppo che ci ispirava erano i Vanilla Fudge.

Nel 1975 esce il primo 45 giri e il gruppo si sviluppa sotto l’ala della premiata ditta Bigazzi-Savio, ovvero due delle menti degli Squallor nonché produttori di successo. È Bigazzi a darvi il nome e per un bel po’ diventate un caso da classifica, no?
Sì, il nome Il Giardino dei Semplici fu proprio suggerito da Bigazzi, a noi piacque subito perché assomigliava ai nomi composti in uso tra i gruppi prog, come Premiata Forneria Marconi o Banco del Mutuo Soccorso. Del nostro primo 45 giri, M’innamorai, in pochi si accorsero che, con l’ausilio del nostro padre artistico e produttore Totò Savio, tentammo di inserire nell’arrangiamento degli elementi ispirati da Tubular Bells di Mike Oldfield, le stesse tubular, l’Hammond e la mia chitarra classica.

Ecco nonostante queste evidenti finezze, il vostro stile fino al 1978 è legato al pop commerciale, probabilmente a causa del fatto che i brani non sono scritti da voi (tranne un paio di eccezioni), ma dagli stessi Bigazzi e Savio. La cosa vi pesava?
Assolutamente no, anzi, ci vantavamo di avere delle firme così prestigiose che poi sono stati i miei personali esempi da seguire e da cui abbeverarsi artisticamente. Non dimentichiamo che, nel 1975, l’uscita di Tu, ca nun chiagne rappresentò per noi una grande svolta, sia per le vendite massicce, sia perché cominciammo a evidenziare il nostro gusto prog con quel Moog all’unisono con la chitarra rock, che fu apprezzatissimo da tutti i musicisti del panorama nazionale.

Poi nel 1979 c’è la svolta del disco sul quale ci vogliamo concentrare, ovvero B/N, che è un sorprendente strappo rispetto alle vostre produzioni precedenti. È a tutti gli effetti un disco che merita uno spazio importante nel movimento del Neapolitan Power, per suoni, tecnica e la capacità di fare canzoni pop senza che siano usa e getta. Avevate calcolato tutto o è stato frutto dell’istinto?
Devo confessare che già con Totò Savio, alla fine del 1976, stavamo meditando, dopo il successo della rielaborazione di un brano storico, di tornare a cantare in napoletano, ma stavolta con degli inediti. Cominciammo anche a lavorare in questo senso. Poi per via dell’incidente automobilistico che mi coinvolse in prima persona e che mi costò 12 mesi di attività ridotta, tra interventi, gessi e riabilitazioni varie, decidemmo di accettare la proposta di Vittorio Salvetti che ci voleva al suo Festival di Sanremo del 1977. Totò e Giancarlo ci scrissero Miele, che per noi fu molto rappresentativa per la nostra carriera ed è tuttora una hit sempreverde. Ma, a maggior ragione, ci venne voglia di continuare il nostro progetto in vernacolo. Considerando che nel 1977 uscì anche il primo disco di Pino Daniele, diciamo che prendemmo coraggio, e io e Gianni Averardi cominciammo a scrivere un buon numero di brani che ben presto avremmo utilizzato.

Il Giardino Dei Semplici - B/N (Bianco e Nero) (1979) Full Album

Nel caso di B/N gli autori siete soltanto voi: come avete impostato il lavoro di composizione e pre-produzione?
Con la voglia e la convinzione di cantare in napoletano, le canzoni ci scivolavano dalle mani. Vennero fuori almeno una quindicina di idee, che abbiamo provinato a casa di Andrea, il quale aveva da poco acquistato un Revox 4 tracce che fu utilissimo in fase di pre-produzione.

La svolta di B/N nasce anche da un cambiamento contrattuale, con Bigazzi sempre più preso da Tozzi che sta facendo il botto: cosa era successo? Cosa era cambiato nei vostri confronti?
Giancarlo aveva sempre meno tempo di interessarsi a noi, e cominciò ad allontanarsi anche dallo stesso Totò. Però credo che la scintilla del cambiamento contrattuale avvenne alle porte del Festivalbar 1978, quando il grande capo Alfredo Cerruti (altro personaggio simbolo degli Squallor, nda) decise di mandarci con la canzone scritta da me e Gianni, Concerto in La Minore, e non quella della mitica coppia Bigazzi-Savio (Dopo un rock’n’roll), che era molto carina, ma sicuramente troppo lontana dal futuro che stavamo immaginando in quel momento.

Voi clamorosamente eravate molto popolari in Italia ma sabotati in questa popolarità dai vostri stessi produttori, che era come se vi vedessero come un fanalino di coda nonostante i numeri dicessero il contrario. Come è stato possibile questo paradosso? Ancora oggi il Giardino dei Semplici non viene ricordato al livello di altri gruppi del periodo che probabilmente facevano numeri più bassi di voi.
In realtà, non eravamo molto considerati all’interno della casa discografica perché Giancarlo e Totò firmarono un accordo come autori della CGD, che si era appena separata dalla CBS Sugar (in cui noi eravamo nati), oltretutto a nostra insaputa. Ci ritrovammo su Concerto in La Minore l’etichetta CGD senza neanche perfezionare un accordo con loro, che sarebbe stato pienamente nel nostro diritto. Così, i nostri discografici non avevano alcun onere nei nostri confronti, e né Bigazzi né Savio ebbero il pugno fermo per farci ottenere maggiore attenzione. Noi vendevamo da soli, senza però essere mai particolarmente spinti.

C’è anche un fatto particolare prima della nascita di B/N, ovvero il progetto di cantare in dialetto napoletano le canzoni dei Beatles che vi viene brutalmente scippato e “volgarizzato” dagli Shampoo. Di che si trattava? È stato forse questo fatto che vi ha poi spinto ad andare oltre?
Nello stesso periodo io e Gianni scrivemmo i testi in napoletano di diversi brani dei Beatles, ma l’idea ci venne “estirpata” dalla EMI, che la dirottò al gruppo degli Shampoo, che però scimmiottavano gli arrangiamenti originali senza metterci sonorità Neapolitan Power, com’era la nostra intenzione. Così il nostro progetto Liverpoolcinella è rimasto a lungo nei cassetti della nostra memoria. Proprio in questi anni, io e Averardi lo abbiamo ripreso, e vedrà presto la luce in formato vinile. Tra i brani, Get Back diventa Pecché, Something è Stammatina, Lady Madonna è Vide ‘a Madonna, Yellow Submarine è ‘Ncoppe San Martino.

B/N ha il grande pregio di portare il dialetto napoletano ai livelli di lingua transnazionale, sulla scia del lavoro che stavano facendo Pino Daniele, Napoli Centrale, ecc. Anche musicalmente si spazia in zone funk, rock, disco, in alcuni casi anche in una fusion più leggera. Quali erano i vostri punti di riferimento musicali all’epoca?
Una grande ispirazione ci venne dal successo internazionale dei Bee Gees, Saturday Night Fever, che abbiamo vissuto in pieno nel nostro tour americano del 1978. Anzi, TV Sorrisi e Canzoni ci inviò la fotografa Barbara Rombi Serra per ritrarci nel mitico locale 2001 Odyssey dove era stato girato il film. Ci rendemmo conto che potevamo avere un vocale molto vicino a quel gruppo, che già amavamo, e quindi ci orientammo in quella direzione. Ma hai nominato Pino Daniele, e devo dirti che, adorandolo artisticamente ed essendone amico, ha influenzato molto la mia scrittura musicale e tuttora riconosco nella mia produzione la sua influenza. Da Pino ho cercato di carpire la carnalità, la sincerità musicale, la capacità di esprimere le proprie radici senza mai risultare retorico e datato.

Fondamentale fu l’apporto del maestro Vince Tempera agli arrangiamenti: cosa ricordi della lavorazione di B/N in questo senso? Quali sono le innovazioni che avete provato in studio? Ad esempio c’è il sax del grande Claudio Pascoli, che fa spesso la differenza.
In tutta sincerità, Vince Tempera e Claudio Cavallaro, che produsse il disco, ci diedero modernità e consapevolezza. Misero al nostro fianco musicisti che ci diedero una mano e ci fecero da coach, come Ellade Bandini, Julius Farmer, Massimo Luca e lo stesso Vince, che fecero sì che il disco suonasse perfettamente, senza sbavature e con un grande groove. Pascoli fu la ciliegina sulla torta…

Ma il titolo a che cosa allude?
Il bianco e nero rappresenta sinteticamente le contraddizioni della nostra città. Il bianco è quello della nostra storia, della nostra cultura, del nostro patrimonio musicale, della nostra generosità, della nostra creatività. Il nero è quello che leggiamo sui giornali tutti i giorni, il nero è la camorra, la strafottenza e l’indifferenza. Nella canzone Pulicenella va…, ad esempio, Pulcinella va in giro per la città per svegliare le coscienze della gente, per invogliarla a ribellarsi e ad accorgersi di ciò che succede intorno.

Dal vivo nel 1980 Foto: per gentile concessione di Gianfranco Caliendo

Dopo il disco avete fatto una lunga tournée teatrale in cui avete anche portato alcune accortezze sceniche, come i costumi metà bianchi e metà neri, effetti di fumo, un’enorme maschera di Pulcinella. A quanto racconti fu un successo di pubblico e critica, ma in quel periodo avete vissuto anche alti e bassi soprattutto riguardo a una esposizione dei media insufficiente.
È vero, preparammo quel tour teatrale per circa sei mesi, chiusi a provare in un cinema a luci rosse di Caivano che chiuse i battenti per noi. Fu tutto studiato alla perfezione, ed era molto impegnativo per noi e per i nostri tecnici. Nessuno ci diede una mano e lo producemmo tutto da soli. Ci sono diversi aneddoti relativi a quel tour, come quando scoppiò la macchina del fumo in un teatro di Paola, in provincia di Cosenza, perché un nostro tecnico pensò bene di sostituire l’olio profumato che usavamo di solito con petrolio bianco raffinato, altamente infiammabile. Un grande scoppio e una grande paura. Rimborsammo i biglietti e i danni, ma oggi se ci ripenso mi fa sorridere. Quando ero ancora con il Giardino, avevamo l’idea di rifare lo stesso spettacolo dopo 30 anni, con la stessa maschera di Pulcinella gigantesca e con tutte le trovate sceniche, ma come sempre accadeva tra noi, se non c’era la maggioranza assoluta, non si faceva niente.

Che rapporti avevate con gli altri musicisti del Neapolitan Power? Avevate degli “alleati”?
Di Pino Daniele ti ho già parlato, lo conobbi per caso, perché mi chiese un passaggio in un taxi dalla stazione a casa sua… glielo diedi volentieri, perché aveva la chitarra in spalla. Mi confidò che lui aveva il desiderio di prendere lezioni di chitarra da mio zio Eduardo che vantava, tra i suoi allievi, i fratelli Bennato, Fausta Vetere, Corrado Sfogli, Mauro Di Domenico, Patrizio Trampetti. Ci siamo visti poco, ma ogni volta manifestavamo la nostra stima reciproca. A Enzo Avitabile chiedemmo di venire con noi in tour per suonare il sax che aveva inciso Pascoli. Lui ne fu onorato, ma non sapevamo che stava già sotto contratto con la EMI e che sarebbe presto uscito il suo primo disco. Ci raccomandò Peppe Russo, un eccellente musicista giovanissimo. Non avevamo grandi rapporti con il Neapolitan Power, in realtà venivamo considerati troppo commerciali e… fortunati. Poi, quando dal 1987 aprimmo lo studio di registrazione Gidiesse, cominciammo a frequentare molti di loro, e divennero grandi nostri amici Enzo Gragnaniello, Ciccio Merolla, Rino Zurzolo e Gianluigi Di Franco… che se non ci avesse lasciati così presto, oggi sono convinto che avrebbe uno spazio nell’universo musicale internazionale.

Dopo B/N il Giardino dei Semplici torna a più miti consigli, o meglio vi concentrate più sul pop. Ora, l’esperienza musicale di B/N si è conclusa a causa del pregiudizio che molti nel settore avevano nei vostri confronti? Della serie: ma come, questi hanno sempre fatto pop, che tornassero a farlo, come è successo ad altre band versatili come i Pooh?
Hai ragione, è stato proprio così. Anche se al nostro pubblico non era dispiaciuto il disco, la maggioranza ci voleva dolci e sdolcinati come il… miele. Ma fu un errore. Noi in napoletano eravamo l’unica band pop che compariva in classifica nonostante il linguaggio. Al Teatro Ciak di Milano, dove portammo B/N, e dove erano presenti tutti i nostri discografici della WEA, Vince Tempera, Cavallaro, e giornalisti tipo Mario Luzzatto Fegiz, ci fecero tutti grandissimi complimenti. Ma alla cena dopo lo spettacolo, i nostri discografici ci dissero: «Sì, siete mostruosamente bravi… ma ora basta con il napoletano! Vogliamo capire anche noi quello che dite».

Anche per questo motivo il livello di successo commerciale pare che B/N abbia sofferto della stessa aberrazione industriale che colpiva molti artisti, come ad esempio il primo Renato Zero: dischi che in classifica non apparivano e che invece erano venduti a caterve durante i live. Quindi, storicamente, non c’è un vero monitoraggio da parte della discografia. A voi come è andata con B/N?
Tieni presente che noi vendevano soprattutto 45 giri. Anche quando eravamo primi in classifica con i singoli, i nostri album precedenti e paralleli ai successi non furono certo campioni di vendita. B/N resta il disco a 33 giri più venduto della nostra carriera. Ci avvicinammo alle 100 mila copie vendute. Poi vendemmo anche in Europa, in particolare nei paesi scandinavi dove il brano Silvie divenne una hit e anche in Giappone, dove tuttora si può trovare con le scritte in giapponese e in formato CD. B/N è entrato nella top 20 di TV Sorrisi e Canzoni, nella primavera del 1980.

È clamoroso che B/N sia stato quasi dimenticato, mentre ora gruppi come i Nu Genea vengono osannati come se avessero inventato qualcosa di nuovo, invece è praticamente quello che facevate voi nel ’79. Ritieni che questo sia un effetto della perenne miopia musicale di questo paese?
Beh, in effetti quando ho ascoltato per la prima volta i Nu Genea, ho pensato che avessero i genitori nostri fan, perché alcune canzoni sembrano la nostra Silvie o Tira a campà, ma non c’è da meravigliarsi. Continuo a fare questo mestiere, ma con la coscienza che, ai tempi di oggi, le diottrie della miopia musicale sono aumentate vorticosamente. I tempi sono troppo diversi per poter creare dei termini di paragone, è cambiata la comunicazione e il livello culturale nei confronti della musica si è abbassato notevolmente.

Con B/N avete anticipato i tempi per quanto riguarda la capacità di rendere più fruibili determinate coordinate sonore molto ricercate. E probabilmente avete anche fatto proseliti, ricordo i Luna di Joe Amoruso e Danilo Rustici che – anche in questo caso – non hanno raccolto del tutto i frutti dei loro sforzi. Forse è proprio in questi anni recenti che B/N può essere capito finalmente appieno?
Hai nominato altri due grandi miei concittadini… e un bel progetto di grande spessore artistico. Comunque, io raccolgo diverse testimonianze di stima nei confronti proprio di quest’album. C’è gente che mi chiede dove comprarlo, e ci sono musicisti che ne hanno fatto bagaglio. E non credo che me lo dicano per essere carini nei miei confronti. Vuol dire che un segno quest’album lo ha lasciato…

Nel 2021 scrivi un’autobiografia, Memorie di un Capellone: ecco, tornando indietro ai ricordi biografici, cosa rifaresti e cosa non rifaresti del tuo periodo con il Giardino dei Semplici?
In piena pandemia ho utilizzato il mio tempo per scrivere le mie memorie riferite non soltanto alla mia carriera con il Giardino dei Semplici. Ho tracciato un percorso dagli anni ’70 vissuti da un giovane musicista, con le difficoltà e il panorama musicale dell’epoca. Gli errori fatti sono stati tanti, soprattutto dovuti all’inesperienza e alla troppo giovane età. Se dai un orecchio alle cose che faccio ora, da solista, ti rendi immediatamente conto di dove avrei voluto dirigermi artisticamente. Mi piace sperimentare, divertirmi, emozionarmi con la musica che faccio. Al di là dell’interesse commerciale. B/N esprime appunto questo divertimento e questa ricerca. Forse per questo se ne parla ancora.

Caliendo nel 1980 e 20 anni dopo. Foto: per gentile concessione dell’artista

Cosa ne pensi del revival del Neapolitan Power? Hai contatti con i progetti del giro o con i dj di Napoli Segreta e affini?
Ho degli amici del settore come Renato Marengo e Giorgio Verdelli, che si danno molto da fare in tal senso. Ma io penso che quando scaturisce il revival è sempre dovuto al voler colmare una carenza. Ogni tanto, però, è meglio ricordare alla gente che il nostro livello culturale è stato un bel po’ più alto di adesso.

Che cosa secondo te serve oggi per rinnovare la scena napoletana?
A Napoli la musica non smette mai di suonare. Ci vorrebbe solo qualcosa che aiuti a farla emergere in modo corretto, altrimenti restiamo in mano ai soliti rapper/trapper che pur avendo un loro perché sono comunque espressioni che troppo spesso nulla hanno a che vedere col mondo musicale e con il nostro prestigioso passato. Escono dei progetti molto validi, che ne so, come La Maschera, i Foja, e qualche singolo cantautore, come il vincitore del Premio Recanati del 2019, Francesco Lettieri, un grande che non è ancora riuscito a trovare uno spazio decente. La lancio lì… forse c’è bisogno di un Festival di Napoli, appoggiato dalla RAI e dal Ministro alla cultura Sangiuliano, napoletano di Soccavo, come quello che si faceva negli anni ’60, ma con una direzione artistica “cosciente” che sappia evidenziare la buona musica che nasce ancora sulla nostra terra.

Del resto, quando anche Pino Daniele diceva “Napule è mille culure…”
Penso che volesse proprio denunciare le evidenti contraddizioni della nostra terra. Come il bianco e il nero, appunto.