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Dua Lipa, la nuova iconcina del pop

La sua "Be the One" sta spaccando in radio, ma è sincera e dice di non essere pronta per un album vero
Foto Nicola Favaron

Foto Nicola Favaron

Siamo tutti un po’ in trepidazione sul set, mentre sta per arrivare Dua Lipa. Siamo ormai abituati a queste giovini pop star, che – dopo avere sfornato una o due canzoni che passano in radio (anche parecchio, a dire la verità) – si credono chissachi, e si presentano a shooting-appuntamenti-conferenze portandosi dietro addetti stampa, addetti all’immagine, addetti a un sacco di cose, oltre che un ego spropositato. Quando arriva Dua, entra da sola e saluta tutti, stringendo mani e distribuendo sorrisi. Gli addetti ci sono, ovvio, ma arrivano dopo di lei. Curiosa, sbircia in giro, si siede a farsi fare le unghie (dorate) e chiede un tè caldo per colazione. Dua Lipa è nata nel 1995 a Londra e quel nome vero ma che sembra d’arte lo deve alle origini kosovare della sua famiglia. È sempre stata una di quelle inserite nei “giri giusti”. È andata a vivere da sola a 15 anni e si è arrangiata in ogni modo: ha lavorato nei club, ha provato a fare la modella («Mi dicevano che dovevo dimagrire, ma sono matti se pensano che io sia disposta a mangiare meno!»). Poi è arrivata la musica, e lì nessuno ha avuto niente da dirle. Prima con Be the One e dopo con Last Dance, si è fatta conoscere in fretta in tutto il mondo. Ecco, se non fosse per questo dettaglio, sarebbe proprio come parlare con le mie compagne di liceo. Quando ero al liceo.

Stavo sbirciando sul tuo Soundcloud, l’altro giorno. Ti ringrazio pubblicamente per la cover di Chance the Rapper (Cocoa Butter Kisses, del 2013, ndr)…
Ahahah, ti è piaciuta?

Molto. Però adesso mi devi spiegare: cosa c’entra l’hip hop con te?
dua lipa Sono ossessionata dall’hip hop! Sono cresciuta ascoltando cose diversissime, grazie a mio padre: da David Bowie agli Stereophonics, ai Radiohead, ma a me piacevano tipe toste come Nelly Furtado e Pink. Adesso ascolto un sacco di hip hop. Una sorta di evoluzione… Lentamente, ma ci sono arrivata.

Quanto hanno pesato i musicisti che hai appena nominato sulla musica che fai oggi?
Ascoltare la musica attraverso mio padre mi ha insegnato a riconoscere le cose di qualità, i classici. È quello che succede quando ascolti Sting e i Police… Certi pezzi non invecchiano mai. Oggi spesso tutto si basa sulle mode, invece pensa a gente come Kendrick Lamar o J. Cole, nelle loro canzoni ci sono messaggi veri. Il loro rap puoi ascoltarlo tra dieci anni e dire: «Oh, che figo questo pezzo!». Come con Missundazstood di Pink, per me è un classico, anche se magari lo dico perché ne ero ossessionata.

Sta parlando la Dua adolescente, adesso!
Perché mi hanno segnato davvero! Ascoltavo Pink e Nelly Furtado, ma anche Christina Aguilera o le Destiny’s Child: davano un certo potere alle donne senza addolcire la realtà. Ho cercato di imparare il più possibile dalle loro canzoni, per non correre dietro a nessuno e non soffrire troppo per i ragazzi.

Però nei tuoi pezzi ci sono spesso temi come delusioni e cuori spezzati…
Non mi sono mai vergognata di piangere. L’importante è vedere il lato positivo e trovare insegnamenti per il futuro. Cerco sempre di dirmi che, un giorno, tutto andrà bene.

Per ora hai pubblicato solo singoli e video. Non aspiri a un album vero e proprio?
Scrivo di continuo, ma ho ancora tanto da dire e non voglio uscire con qualcosa di incompleto. Ce n’è solo uno di debutto nella vita e vorrei che davvero mi rappresentasse. Vorrei che, quando uscirà, ci fosse tutto quello che sono io lì dentro, per non avere rimpianti.

Però, zitta zitta, ti sei portata a casa dei super produttori (Emile Haynie, che ha collaborato con Lana Del Rey, e Andrew Wyatt, ndr).
È un grande privilegio per me. Abbiamo una chimica perfetta. Chi lavora in studio con te conosce tutto di te. Quando hai una canzone pronta, chiami e loro ti dicono: «Hey, cos’è successo questa volta?». È come essere in un confessionale! È terapeutico, in qualche modo.

Quindi tu sei una di quelle che parla di vita vera e di esperienze personali?
Sì, tutti i miei pezzi sono storie che mi sono successe, oppure che sono successe ai miei amici o a gente che conosco… In generale, parlo sempre di quanto possono essere cattive le ragazze!

Compi 21 anni quest’anno: piaci principalmente alle tue coetanee?
Uhm, penso di avere un pubblico un po’ più ampio. Almeno lo spero. Questo è sempre stato il mio obiettivo, in realtà: volevo che le storie delle mie canzoni arrivassero a persone diverse, e che tutti potessero dare la propria interpretazione. Magari possono essere d’aiuto per qualcuno che è in difficoltà.

Hai definito il tuo stile “dark pop”. C’è una sorta di accettazione del pop adesso, anche negli ambienti che prima lo evitavano?
Penso che prima il pop fosse, come dire… (sospira)… ‘fanculo, ci sono solo canzoni di merda come Barbie Girl degli Aqua!

Ma tutti l’ascoltavano, però!
Anch’io! Adesso te la ricordi, perché ha rappresentato un momento in qualche modo iconico. Ma non andavi in giro a dire: «Hey, che figo che sono, ascolto gli Aqua!». Ora ti può piacere anche Justin Bieber e non hai problemi a dirlo. Anzi, qualsiasi età tu abbia puoi ascoltarlo e sentirti ok.

E quando c’è stato questo cambiamento?
Penso che sia successo quando gente come Diplo si è messa a produrre pezzi da classifica. E di conseguenza la musica che faceva prima è diventata qualcosa che tutti ascoltano. Anche Skrillex, secondo me, è uno che ha contribuito molto. Credo che adesso tutto il pop sia decisamente più accettabile, che l’asticella della qualità si sia alzata. Pensa a I Kissed a Girl di Katy Perry: è un pezzo super figo! Oggi non ci sono più limiti, il pop degli ultimi anni ha abbattutto tutte le barriere.

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