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Dorso nuota controcorrente

Ex promessa del nuoto, ex musicista punk-pop, esordisce con un album di canzoni intime e ansiogene il giusto intitolato 'Post Benessere'. «Scrivo in cameretta, ma cerco di tenermi lontano dagli stereotipi»

Dorso nuota controcorrente

Dorso

Foto: Antonio Gentile

La storia di Dorso – cioè Alessandro da Policoro, Matera, 22 anni e un disco appena uscito – è di quelle che, raccontate, funzionano talmente bene da sembrare finte. In sintesi: in adolescenza è stato una promessa del nuoto, «a buoni livelli agonistici» mi dice, ed è stato allora che il suo istruttore gli ha spiegato il valore della cosiddetta acqua ferma, quella che sta sotto di un metro, dove «gli agenti esterni non interferiscono e ti puoi muovere più veloce e meglio»; un insegnamento, questo, utile a livello artistico come pure di vita, facendogli capire che ciò che conta e vale davvero sta sotto gli strati più superficiali, dove nessuno vede, e bisogna fare sempre uno sforzo ulteriore per trovarlo. Ma è andata così, non l’avrà un po’ romanzata? «Niente affatto», sorride, «per me è fondamentale tutto ciò. Allora stavo già da solo a Matera, per coniugare sport e liceo, e nessun professore, per dirti, approfondiva realmente quanto fosse faticosa per me quella vita. Oggi faccio pop in italiano, sì, ma nuoto lontano dagli stereotipi facili del genere. O almeno ci provo».

E dire che a 14 anni suonava la chitarra in una band pop-punk, con tanto di album registrato. Sala prove «che puzza di muffa», cantato in inglese, scarsa cura per i dettagli «perché non ce ne fregava niente, l’importante era farlo e basta» e tutta intorno la Basilicata, non certo il contesto più invitante per giovani che si approcciano al rock per la prima volta. «Ero innamorato dei Green Day, almeno all’inizio», racconta. «Li avevo scoperti tramite MTV: American Idiot subito, poi Basket Case. Mi sembravano liberi, mi piaceva quell’attitudine». Poi? «Poi ho approfondito il genere nelle sue espressioni più dure, finché non ho sentito il bisogno di cambiare. Volevo muovermi in proprio, prendermi complimenti e critiche da solo, insomma metterci la faccia come non avveniva in gruppo, e questa è un’altra cosa che mi porto dietro dal nuoto, che è uno sport individuale. E poi i miei ascolti nel frattempo erano andati altrove, principalmente verso il pop-rock inglese».

Ed è così che negli ultimi cinque anni sono nati i pezzi di Post Benessere, il suo esordio dopo i singoli biglietto-da-visita di rito, pubblicato da poco per 42 Records, l’etichetta – tra gli altri – di Cosmo, Colapesce e I Cani. «Non so cosa li abbia colpiti della mia musica. Credo perché fosse credibile, pertinente alla mia persona», mi racconta. «Certo è che è stato un attestato importante, quando hanno sentito i miei provini si sono subito convinti a fare un disco. E pensare che in principio, cioè negli ultimi tempi in cui militavo nel punk, quasi mi vergognavo di queste nuove canzoni». In mezzo, ovviamente, c’era stata anche la scoperta dell’italiano, specie con Calcutta e Niccolò Contessa, che «mi hanno insegnato la bellezza di scrivere nella nostra lingua, che non è facile da maneggiare ma al contempo ha delle parole che ti si sciolgono in bocca».

E quindi eccoci, all’incrocio dei riferimenti su cui è difficile e un po’ inutile mettere etichette: da una parte gli Arctic Monkeys, i Blur, gli Oasis, per arrangiamenti e melodie; dall’altra, i testi dell’it-pop che ha iniziato ad appuntarsi sulle note del telefono già al liceo. «Del resto questo disco è quasi un greatest hits di quanto composto dal 2017 fino a pochi mesi fa. Ma non sono su un terreno facile: molti artisti della scena sembrano copie dei grandi. Io provo a sottrarmi al gioco. Devo dipingere i miei quadri, non gestire una mostra di quadri altrui».

Come? Con un pop personale, scuro, su cui ha le idee chiarissime. Il gioco funziona, lui ce le dice meglio: «Creare un muro di suono, che poi è l’aspetto che più mi resta del punk, pure perché ritengo ci sia bisogno di strumenti “veri”, da noi sono merce rara; porre le chitarre in primo piano, fino a soffocare un po’ l’ascoltatore; metterci del “sangue”; e comporre un disco che non sia semplice ma al contempo contenga storie che parlino a tutti, parlino per tutti». E quelle di Post Benessere, infatti, collezionano ricordi in serie: amici, fidanzate, delusioni, addii, corriere in ritardo. L’adolescenza, quella di provincia, rivista con gli occhi dei vent’anni. Tutto è autobiografico, intimo, ansiogeno il giusto. In cerca di un senso più profondo del ricordo stesso. Fra le avventure da spiaggia di Acqua ferma, che è un notturno agile-agile come la voce di Dorso su amici e alcool, il Brit pop da manuale pieno di frammenti della memoria di Claudia, i rimorsi di Rifare. Racconta: «Ogni testo che scrivo è una fotografia di come stavo, un modo per rifletterci su, per esorcizzare ciò che è accaduto. Nelle mie canzoni il “fatto” è sempre già successo, è un tornarci su. Da qui il “post” del titolo».

Già ma il Benessere della quasi-title track invece? «Racconta la voglia che avevo di andarmene dal posto in cui sono nato: ma è più una consapevolezza che altro, quasi una presa bene». E poi c’è la conclusiva 21, «registrata al primo take», smorzando la muraglia innalzata per le precedenti dieci canzoni in favore di una dimensione più intima, introversa, riflessiva. Solo chitarra e riverbero. Scorci: “Non ci resta che aspettare che le scarpe un po’ bagnate si asciughino per rindossarle ancora”. «L’ho scritta che avevo quasi 21 anni, ma in generale quel numero mi ha seguito in tantissime occasioni per un periodo della mia vita. Non a caso, è il pezzo più personale dell’album».

Dorso - 21 (Video Ufficiale)

Un album che, se magari non vince sempre per i testi, lo fa nella compattezza degli arrangiamenti, nel loro coraggioso spessore pop-rock. Perché alla co-produzione, con Dorso, c’è Andrea Suriani (I Cani, Calcutta, Cosmo), ed è particolare: in genere un esordiente affida in tutto e per tutto la regia a un professionista per garantirsi una chiave per sfondare, mentre lui ci lavora fianco a fianco, col grande nome. Chiude: «Come da copertina, i pezzi sono nati in cameretta. Poi li ho portati a lui, che è stato fondamentale specie nella prima fase, oltre che a livello strettamente tecnico. Ma – ed è bello così – al suono abbiamo lavorato insieme».

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