«Dopo essere stato a tutte le feste del mondo, Bowie voleva tornare a casa» | Rolling Stone Italia
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«Dopo essere stato a tutte le feste del mondo, Bowie voleva tornare a casa»

Intervista a Ivo van Hove, regista di 'Lazarus', che oggi è possibile vedere online. L’artista osservato da vicino, le idee dietro alla trama, la prima del musical, i progetti a un passo dalla morte

«Dopo essere stato a tutte le feste del mondo, Bowie voleva tornare a casa»

Una scena del musical 'Lazarus'

Foto: Krzysztof Zatycki/NurPhoto

David Bowie è uscito di scena in modo unico, lasciando dietro di sé quel 10 gennaio 2016 alcuni dei suoi lavori più affascinanti. Anzitutto il capolavoro estremo Blackstar, uscito due giorni prima della morte. E poi Lazarus, il notevole spettacolo off-Broadway inaugurato un mese prima.

Lo show riprende trent’anni dopo la storia di Thomas Newton, l’alieno interpretato da Bowie in L’uomo che cadde sulla Terra, mescolando canzoni vecchie e nuove. Lo spettacolo è online nel giorno del quinto anniversario della morte di Bowie. Ecco quindi la versione integrale dell’intervista realizzata nel 2016 con il regista dello spettacolo Ivo van Hove.

Era un bel po’ di tempo che Bowie voleva fare del teatro musicale. Perché ora e perché questa storia?

Difficile dirlo. So che quando abbiamo fatto il workshop a New York nell’aprile del 2014, mi ha detto: «È il mio sogno». Non credo che abbia mai usato la parola musical. Lo chiamava teatro musicale. Anch’io la penso così, è proprio teatro musicale.

In un certo senso, giacché contiene alcune delle sue canzoni più celebri, lo si potrebbe anche definire un jukebox musical, anche se ovviamente è lontano anni luca da cose tipo Mamma Mia.

(Ride) A sentire questa cosa Bowie si rivolterebbe nella tomba. La prima volta che ci siamo incontrati mi ha detto: «se c’è una cosa che non voglio è fare un jukebox musical, una sequenza di belle canzoni. Voglio raccontare una storia. Ci deve essere una storia forte». E la storia c’è.

Mi ha colpito il modo in cui le vecchie canzoni sono state rincontestualizzate. Funzionano benissimo nel contesto della storia, come se Bowie avesse avuto tutto quanto in mente già 40 anni fa.

È bello che tu lo dica, perché il musical combina in modo audace canzoni nuove e altre leggendarie come Life On Mars? o All the Young Dudes. Enda [Walsh, il commediografo autore del libretto] e David hanno selezionato le canzoni e deciso a quali personaggi abbinarle. Hanno fatto un gran lavoro.

Forse la solitudine del personaggio di Thomas Newton rappresenta la solitudine percepita dal pubblico dello stesso Bowie durante i dieci anni in cui non si è esibito e non ha fatto dischi. Sapeva di giocare con queste idee?
È stato fatto un gran lavoro per mettere in piedi una trama che non ha nulla a che spartire con David e allo stesso tempo è la sua storia. È sorprendentemente profondo. Quando scopri che era malato, una frase del tipo “sono un uomo morente che non può morire” assume un altro significato, eppure David non sapeva di essere malato in quel momento, ovvio che non lo sapesse nemmeno Enda. Quella frase era già lì.

Fin dal primo giorno c’è stata una voglia impellente di fare lo spettacolo. Io volevo rinviarlo a causa di sovrapposizioni nel calendario, David ha detto di no: “dobbiamo farlo adesso, dobbiamo farlo accadere”. A quel punto sapeva di essere malato e sentiva l’urgenza di metterlo in scena. È per questo che lo ammiravo tanto: a 68 anni, aveva dentro di sé ancora un fuoco e un’ambizione – parlo di vera ambizione artistica, della necessità di far accadere qualcosa. Era convinto che fosse importante.

Lazarus è uno dei pezzi di Blackstar, ma è stato scritto appositamente per lo spettacolo, giusto?

Una delle prime cose che gli ho detto è che avevamo bisogno di una canzone che stabilisse i tratti del personaggio di Newton, nella sua totalità, e il pubblico doveva sentirla subito, all’inizio dello spettacolo. E lui ha scritto il pezzo, che in origine aveva un altro titolo, non so quale. Ha detto subito che il titolo doveva essere quello dello spettacolo e che l’avrebbe messa nel suo disco.

Changes è semplicemente sbalorditiva. Non l’avrei mai immaginata abbinata a quel tono emotivo. È trasformata, completamente.

Dopo averla vista rappresentata la prima volta, David ha detto che era felice di averla scritta (ride). Si adatta perfettamente allo spettacolo e Cristin Milioti la interpreta in modo personale. È straziante.

Immagino sia stato un peso saperlo malato. Ha dato ulteriore importanza alla produzione.
Sì, ma il peso era sulle sue spalle, non sulle mie. Non dire nulla sulla sua condizione non è mai stato un problema. Era normale.

Bowie è stato un mio eroe giovanile, e pure nella vita adulta. Sapevo che non cercava né un amico, né un fan, ma un collaboratore. Incredibile quanto fosse disposto a collaborare. Non metteva soggezione. Sapeva ascoltare. I suoi commenti erano precisi e coincisi, era un uomo di poche parole. Le cose che diceva erano sempre taglienti e azzeccate.

A un certo punto gli ho detto: “ci sono tanti punti in cui la musica è troppo alta”. E lui: “il dialogo è la cosa più importante”, una frase semplice, ma fondamentale. Ha supportato la produzione tutto il tempo concedendoci grande libertà.

Che cosa hai imparato su di lui standogli accanto tutto quel tempo?
Che adorava stare in famiglia. Gli piaceva tornare a casa, stare con la figlia, la moglie, i suoi cari. Era molto riservato. Amava la musica. Viveva attraverso la musica.

La sua musica era l’espressione profonda dei suoi sentimenti, delle sue paure, dei suoi desideri e forse ancor di più della sua visione del mondo. Molti suoi pezzi parlano della nostra società: All the Young Dudes, Life On Mars?, This Is Not America, la lista è lunga. E poi ci sono pezzi come The Man Who Sold the World che nascono da un’angoscia personale. Essendo un vero artista, la sua opera è espressione di quel che provava. La cosa importante non era centrare una hit. Le ha avute, eccome, ma non sono mai state la sua priorità.

So che alla prima non si sentiva granché bene.
Ce ne siamo stati nel backstage per 15, 20 minuti. Era eccitato. Molto eccitato. Era un sogno che si realizzava. Già pensava alla produzione successiva. «Facciamone un altro», disse.

Ho avuto l’idea del finale col lancio del razzo quando mancavano pochi giorni alla prima. Nella versione precedente il razzo non partiva. L’idea gli piacque. Tutta la produzione gli piaceva.

Come sono andati i provini degli attori?

È stato un momento decisivo, eravamo presenti entrambi. Gli attori dovevano cantare due canzoni e recitare una scena. Non guardavano me, ma Bowie che era al mio fianco: “cosa ne pensa il capo?” (ride). Eravamo sempre d’accordo. Quando è arrivata Sophia Anne Caruso [per fare il provino per la parte dell’angelo custode adolescente] non abbiamo avuto bisogno di sentire nemmeno una canzone per intero per dirle di sì. Ci siamo guardati e… boom, era deciso. Abbiamo scelto il cast nel giro di tre o quattro giorni.

Che cosa rappresenta il personaggio interpretato da Sophia?
Nella Bibbia Lazzaro risorge grazie a Gesù. Qui è la bambina che fa il miracolo al posto di Gesù. Risuscita Thomas, ma è una scena immaginaria, che avviene solo nella sua mente.

Bowie ha una figlia più o meno di quell’età, difficile non pensarci.
Chiaro che non si tratta di una coincidenza. Sua figlia ha 15 anni adesso, quando abbiamo scritto lo show ne aveva 13. E Sophia aveva proprio 13 anni quando l’abbiamo presa. È una delle condizioni che aveva posto per fare la cosa: doveva esserci una ragazzina e doveva avere un ruolo centrale.

Non è stato Bowie a creare il personaggio di Thomas Newton, eppure l’ha fatto suo. Com’è che ce l’ha avuto in testa per interi decenni?
Durante il volo che mi avrebbe portato al nostro primo incontro ho riguardato L’uomo che cadde sulla Terra. Mi ha colpito la modernità della sua performance.

Tutti i bravi attori recitano sempre la parte di sé stessi. Se fai Macbeth, devi trovare Macbeth dentro di te e David ha trovato Newton dentro di sé. Non è niente di strano se conosci la sua musica. È piena di personaggi fuori luogo, che non si sentono a casa su questo pianeta.

Non è perciò strano che sentisse vicino quel personaggio, né che l’abbia scelto come protagonista di Lazarus. Ha a che fare con domande esistenziali: perché siamo qui? Che cosa significa? Tutto ciò ha un significato? L’amore dà una significato all’esistenza o a volte la complica?

C’è un bel monologo alla fine dello spettacolo in cui Michael C. Hall parla della sua famiglia, anela a tornare dalla famiglia anche se sa che sono tutti morti, che non ci sono più. Ha una voglia disperata di quella sensazione di unione. Ecco, questo è profondamente Bowie.

Dopo una vita pazzesca si torna al semplice desiderio di famiglia. Interessante.

È di questo che parla Lazarus. Chi ha lavorato alla produzione mi ha chiesto: perché Bowie non c’è alla festa? Ho risposto che David era stato a tutte le feste del mondo e di un’altra non ne aveva bisogno.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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