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Dolore e magia: David Crosby racconta ‘If I Could Only Remember My Name’

«Ero immaturo, strafatto, in preda a un dolore che non sapevo gestire. È incredibile che sia riuscito a registrarlo», dice il cantautore del debutto solista del '71 che rievoca qui canzone per canzone

Foto: Robert Altman/Michael Ochs Archives/Getty Images

David Crosby ne ha vissuti di momenti difficili, pochi però sono paragonabili al periodo successivo alla morte in un incidente stradale nel 1969 della fidanzata ventunenne Christine Hinton. «Non sapevo come affrontarlo», ricorda. «Era una cosa più grande di me e ha finito per schiacciarmi. Seduto per terra nello studio, piangevo senza sosta».

L’enorme successo di Déjà Vu di Crosby Stills Nash & Young e del realtivo tour gli hanno dato modo di distrarsi dai suoi dolori, ma nel luglio 1970 il gruppo è imploso e Crosby è andato a vivere su una barca a Sausalito, California, dove non faceva altro che mangiare, dormire e affogare la disperazione nell’alcol e nelle droghe.

Da quel periodo è venuto fuori un disco solista, esattamente come capitava in quei giorni a Stephen Stills, Graham Nash e Neil Young. Loro avevano registrato dischi che non si discostavano più di tanto dal folk di CSNY, lui invece voleva qualcosa di più potente e decisamente meno commerciale. Alcuni pezzi non avevano nemmeno un testo, il significato era racchiuso in armonie dense e stratificate.

Ad assisterlo durante la gestazione dell’album c’era Jerry Garcia, che si era preso del tempo lontano dai Grateful Dead per dare una mano all’amico agli Wally Heider Studios di San Francisco. I due hanno messo assieme un gruppo fuori dall’ordinario di musicisti, tra cui Joni Mitchell, Neil Young, Graham Nash, Phil Lesh, Grace Slick, Paul Kantner, Mickey Hart, Bill Kreutzmann, Gregg Rolie, Jack Casady e Jorma Kraukonen.

È stato Garcia a infondere vita all’album. «Aveva un gran cuore, era divertente, strafatto, gentile. E quando era in giornata, suonava come un dio», dice Crosby. «Ogni volta che ci mettevamo lì con le chitarre succedeva una magia. Zero stronzate. Magia».

Insieme hanno scritto il disco in circa tre mesi, tra la fine del 1970 e l’inizio del 1971. Lavoravano seguendo uno schema. «Mi svegliavo in barca verso mezzogiorno, andavo in città a fare colazione, vivevo alla giornata», dice Crosby. «Di solito, verso ora di cena, andavo in studio e ci restavo tutta la notte».

«Era una situazione strana. Mi sentivo come se m’avessero dato un pugno e una volta finito a terra coi denti rotti mi fosse passato sopra un trattore. Però poi, magari lo stesso giorno, ero al settimo cielo. Facevo musica che adoravo, ci credevo, mi commuoveva. Provavo la massima gioia e la massima tristezza possibile, contemporaneamente».

Il risultato finale è If I Could Only Remember My Name, arrivato nei negozi il 22 febbraio 1971 e accolto tiepidamente (nei casi migliori) dalla critica. «Difficile che passi alla storia, ma non è un brutto disco», scriveva Lester Bangs su Rolling Stone. «È un perfetto aiuto sonoro alla digestione per chi ha ospiti a cena, sempre che siano abbastanza intimi da starci dietro. Le esecuzioni sono dannatamente approssimative… la voce di Crosby è più blanda e monodimensionale di quella che ha Stills nel suo disco solista».

«La critica non l’ha capito», dice Crosby. «Volevano che seguissi i trend. Promuovevano la musica chitarristica. Noi siamo andati in una direzione che non capivano».

Negli ultimi cinquant’anni il giudizio critico sull’album è cambiato radicalmente. Ora il debutto solista di Crosby è considerato un capolavoro, al pari dei dischi migliori di CSNY e Neil Young. Per celebrare il 50esimo anniversario dall’uscita, il 15 ottobre l’album è tornato con un’edizione deluxe ricca di demo, versioni alternative e outtake.

Crosby è combattuto. «Non volevo farla», dice della nuova edizione. «Sapevo che c’erano quelle incisioni e se non le ho messe nel disco è perché non erano buone abbastanza. Ma hanno voluto farlo lo stesso, così ho dato l’assenso, ma le canzoni non le ho scelte io».

Nonostante le sue riserve, Crosby ha accettato di raccontare a Rolling Stone tutte le canzoni della scaletta originale. Ecco cosa ci ha detto.

1Music Is Love

«È nata per caso. Era un po’ che suonavo la melodia che apre il pezzo. A Neil e Graham piaceva, soprattutto a Neil. Per me era divertente, ma dovevamo trasformarla in qualcosa di più serio. Loro invece dicevano che era meglio di quanto pensassi e che dovevo dare loro il nastro. L’hanno preso e hanno aggiunto basso e percussioni. Quando l’ho riascoltata me ne sono innamorato. E così è diventato il primo pezzo del disco».

2Cowboy Movie

«È la storia di CSNY raccontata come se fosse un film western. Sapevo che sarebbe stato divertente suonarla. Io e Garcia l’avevamo suonata un sacco di volte con Kreutzmann e Mickey Hart. L’abbiamo provata con tanti batteristi diversi. L’abbiamo fatta anche con Lesh, con Casady e Kaukonen. La suonavamo al Matrix, per ridere».

«La registrazione che c’è sul disco è nata in modo spontaneo. L’abbiamo suonata un po’ di volte. La take che ascoltate è spettacolare. C’era una grande intesa tra me, Garcia e Lesh. Credo che alla batteria ci fosse Mickey Hart. Avevo una bella intesa anche con lui. Era libera, funky e aveva il piglio giusto. La adoravo».

Non è difficile capire che Eli è Stephen Stills, The Duke è Graham Nash e Young Billy è Neil Young, mentre Croz è Fat Albert. Il corvo sarebbe Rita Coolidge, la donna che si è messa tra Stills e Nash prima dello scioglimento? «Sì, certo», dice Crosby.

3Tamalpais High (At About 3)

«Tamalpais è una montagna a Marin County, dietro la baia di San Francisco. La chiamano anche Sleeping Lady. Tamalpais High non parla della montagna, ma della Tamalpais High School. Avevo una fidanzata che la frequentava. E quindi no, non parla di droga e nemmeno di una montagna. Però è bella. Il sottotitolo At About 3 indica l’orario in cui finivano le lezioni».

«Non avevo un testo, così l’ho cantata usando la voce come una sezione di fiati. Per come la vedo io non ci sono regole, quindi si può fare anche una canzone così. Non so se altro l’avrebbero fatto. Ma la adoravo».

4Laughing

«Ho incontrato per la prima volta George Harrison quando coi Byrds abbiamo suonato a Londra, nel 1965. Per qualche ragione mi ha subito colpito. Era molto gentile con me. Mi ha ospitato a casa sua. Abbiamo cenato assieme e fatto serata. In valigia avevo un disco che mi aveva appena dato Ravi Shankar. Così l’ho regalato a George. Il gesto ha avuto delle conseguenze: George ha poi detto a Ravi che è stato grazie a me che si è appassionato alla musica indiana. Non credo sia vero, credo volesse solo essere gentile con me, farmi stare bene».

«Detto questo, apprezzava la musica indiana, così è andato in India. Lì si è divertito un mondo. Ha incontrato un insegnante che gli piaceva, un guru. Mi ha poi raccontato tutto e io avrei voluto dirgli: meglio essere scettici, prendi tutto con le pinze. Se qualcuno ti dice di aver parlato con dio dopo aver fatto colazione, probabilmente è una stronzata. Questo avrei voluto dirgli. Ma non ho avuto il coraggio perché era George. Lo ammiravo. Non avevo le palle per dirgli che quel tizio raccontava stronzate. Non potevo farlo».

«Così ho scritto questo pezzo. Racconta delle persone che ho incontrato e che credono di aver intravisto la verità. Ma non sono loro che sanno cosa è reale e qual è la verità, sono i bambini. Un bambino che ride di fronte al sole conosce dio meglio di me. Ecco di cosa parla questo pezzo. Ero io che cercavo di dire a George che gli volevo bene e che speravo che prendesse i Marahishi e tutti gli altri guru con un po’ di scetticismo».

5What Are Their Names

«È incredibile quanto What Are Their Names sia attuale. Sembra che l’abbia scritta la settimana scorsa. L’ho cantata a tutti i miei concerti. Credo sia un pezzo pieno di verità, di cose in cui credo. La musica è improvvisata. Siamo io e Jerry che cazzeggiamo. Si sentono gli altri che entrano nella stanza, prendono gli strumenti e si uniscono a noi. Ho scritto il testo mesi dopo, su un aereo. Le parole ci stavano alla perfezione. Le ho provate e funzionava».

6Traction in the Rain

«Credo sia uno dei pezzi più belli che abbia mai scritto. La adoro. C’è un verso che fa “è difficile passare un altro giorno in città senza aver voglia di scappare”. Già allora non mi piacevano le città. Io però abitavo sulla mia barca a Sausalito. Ero felice così. Avevo già la testa in campagna».

7Song with No Words (Tree with No Leaves)

«Ecco un altro pezzo senza testo. Avevo una melodia in un’accordatura che mi piaceva. Mi piacevano tutti i cambi, pensavo fosse bella. Ma non avevo le parole, così ho pensato di usare la voce come uno strumento a fiato. Quando l’ho riascoltata mi sembrava completa. Non mancava nulla. Anche a David Geffen non piaceva, ma lui aveva un’idea limitata della musica. In altri campi è davvero intelligente. Mai giocarci contro a poker. È un tipo brillante. Ma non ha mai capito la musica e forse mai ci riuscirà».

8Orléans

«Un pezzo tradizionale che ho imparato da Paul Kanter. Pensavo fosse meraviglioso. Sapevo cosa sarebbe successo se avessi sovrainciso tante voci. Ce ne sono nove una sopra l’altra. Era troppo bella per ignorarla, così l’ho messa nel disco».

9I’d Swear There Was Somebody Here

«Una delle mie cose migliori. Passavo un periodo emotivamente forte. Forse la notte più difficile che avessi mai vissuto. Piangevo senza sosta. Ero devastato, distrutto. Poi, all’improvviso, quel pianto ha acquisito coerenza. Sapevo che dovevo registrare un’altra voce. Ci avrò messo 15 minuti ed è una delle cose migliori che abbia mai fatto. Sono sei voci, una dietro l’altra. Non le ho neanche riascoltate dopo averle registrate. Ho ascoltato il risultato finale ed è rimasta così».

«Col senno di poi, ero immaturo, strafatto, in preda a un dolore che non sapevo gestire. È incredibile che sia riuscito anche solo a entrare in studio e registrare il disco».

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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