Intervista a Devendra Banhart per 'Flying Wig' |Rolling Stone Italia
perché definirsi?

Devendra Banhart ha riscoperto la libertà in un abito da donna blu

Il vestito lo ha rubato alla produttrice del suo nuovo album 'Flying Wig' in uscita il 22 settembre e registrato in una baita di cui fu proprietario Neil Young: «Suona come qualcuno che spaccia droga in un vicolo buio». E aggiunge: «Perché definirsi? Domani potrei essere un’altra cosa»

Devendra Banhart ha riscoperto la libertà in un abito da donna blu

Devendra Banhart

Foto: Dana Trippe

Lo ha raccontato tante volte, Devendra Banhart, che da bambino ha iniziato a cantare un giorno in cui, in casa da solo, ha trovato un vestito della madre sul letto e d’impulso lo ha indossato. Aveva 9 anni, fu una folgorazione di cui il cantautore oggi 42enne non si è più liberato, tanto che a distanza di tempo, dopo 20 anni di carriera, confida di avere scritto e registrato il nuovo album Flying Wig, in uscita il 22 settembre, sfoggiando spesso un abito da donna blu preso in prestito dal guardaroba di Cate Le Bon, sua compagna di etichetta alla Mexican Summer e qui al suo fianco come produttrice.

«È stato come tornare là dove avevo cominciato da piccolo», spiega Banhart, che con questo disco dimostra ancora una volta, come da sempre, di non avere intenzione di ripetersi e di affidarsi alla musica come a un’amica pronta a dischiudergli strade ancora da esplorare: «Volevamo un suono nuovo, elettronico, ma al contempo caldo e organico; volevamo tirare fuori ed enfatizzare l’aspetto emotivo di un sintetizzatore». Con questa premessa Flying Wig, realizzato con collaboratori di vecchia data quali Nicole Lawrence alla pedal steel e alla chitarra, Todd Dahlhoff al basso, Greg Rogove alla batteria ed Euan Hinshelwood al sax, immerge l’ascoltatore in un mondo di melodie dolci e malinconiche, un mondo dalle atmosfere notturne e ipnotiche in cui sapori quasi lynchiani si intrecciano con echi di David Byrne e Brian Eno. «Credo che Cate abbia portato davvero qualcosa di nuovo nella mia musica», afferma Devendra, dal vivo in Italia il prossimo novembre (il 21 all’Auditorium di Milano, il 22 al Teatro Politeama di Trieste).

Com’è andato questo sodalizio?
Diciamo che insieme io e Cate abbiamo provato a re-immaginare completamente lo spazio fisico e l’atmosfera in cui ci trovavamo immersi.

Avete lavorato nel Topanga Canyon, in uno studio ricavato in una baita circondata da sequoie e pini, un tempo di proprietà di Neil Young: mi racconti?
In quel posto Young ha scritto After The Gold Rush, il suo album del 1970. Ma c’è di più a legarci, ossia che il mio manager Elliot Roberts, morto nel 2019, è stato anche il manager di Neil. Per cui sì, siamo stati a lungo in quello studio in mezzo ai boschi, in un’atmosfera molto Grateful Dead, band che ho ascoltato tanto in quel periodo . E il risultato è questo disco che suona come qualcuno che spaccia droga in un vicolo buio! (ride, nda).

Il mood è decisamente notturno.
Ha qualcosa che rimanda a uno scenario urbano futuristico, come se avessimo avuto in mente Blade Runner o un immaginario di quel tipo. In realtà lo abbiamo scritto nella natura, sotto il sole della California, lontani dalla città, ascoltando un sacco di musica felice e dallo spirito hippie, e meditando. Ma abbiamo tradotto quest’ambientazione così calma, pastorale, naturale, in qualcosa di più scuro, malinconico, dolente. Che poi è come ci sentivamo effettivamente, si trattava di trovare un equilibrio tra la pace del paesaggio circostante e l’inquietudine interiore.

Devendra Banhart - Sirens (Official Video)

Perché inquietudine?
Perché con la pandemia è cresciuta l’ansia, come se il Covid avesse ingigantito una realtà già in atto, ma ancora non così evidente. Tutto è sempre stato incerto, però d’un tratto è diventato chiaro quanto quell’incertezza ci riguardi e quanto sia forte in ogni ambito. Una lezione importante, da assimilare e ricordare per sempre, per apprezzare ciò che abbiamo. Dopo quanto accaduto, anche solo pensare di poter nuovamente pubblicare dischi e andare in tour a suonarli live mi ha riempito e mi riempie di gioia.

Per gran parte della stesura e della registrazione hai indossato un abito di Issey Miyake che era di Cate Le Bon, oltre alle perle di tua nonna. Ma è noto che anche da bambino ti divertivi a travestirti e a giocare con indosso gli abiti di tua madre. Come mai quel gesto è rimasto così importante?
È vero, ho iniziato a vestirmi da donna da piccolo, avevo 9 anni. A quell’età indossare i vestiti di mia madre sbloccò qualcosa in me, quella parte creativa che mi ha poi portato a diventare un cantautore. Ma ho sfoggiato abiti femminili anche dopo, alle superiori e durante i miei primi concerti. Era un modo per farmi forza. Era ed è un gesto confortante, l’ho compiuto di recente anche in occasione del mio primo show in Venezuela, nel dicembre 2022: volevo mostrare quella versione di Devendra, riportare sul palco quel bimbo di 9 anni che è ancora dentro di me, l’ho fatto per lui. Gli ultimi tre anni sono stati incerti, ho perso tante persone care, il Covid si è portato via alcuni miei amici, altri sono morti nello stesso periodo per altre ragioni. Di fronte a questi lutti ho sentito il bisogno del supporto di quelle qualità materne, protettive, insite nella parte femminile che vive dentro ciascuno di noi.

Ma perché ti dà forza un gesto del genere? Ti sei dato una spiegazione più precisa?
Se me lo chiedi da giornalista, la risposta è che si tratta di mettersi in contatto con l’energia femminile che ci appartiene indiscriminatamente, ma che nel mondo è stata soppressa. E qui ciò che intendo dire è che alle donne è stato insegnato a soffocare la propria energia maschile e agli uomini è stato insegnato a soffocare la propria energia femminile. Se, però, mi domandassi questa cosa come lo farebbe una terapista, allora la mia risposta sarebbe diversa: non avevo mia madre con me quando ero bambino, mettermi i suoi abiti era un modo per darmi la protezione materna che mi mancava.

Assurdo che in 20 anni di carriera tu sia riuscito a suonare in Venezuela, dove hai trascorso l’infanzia e hai ancora parenti, soltanto adesso…
In effetti ho aspettato quel momento per 20 anni. È stato emozionante e al tempo stesso doloroso perché in Venezuela c’è una dittatura, molta gente soffre la fame e vive sotto la soglia di povertà. Eppure c’è resistenza, ci sono tanti giovani artisti indipendenti che senza alcun tipo di supporto statale – perché là la cultura non è finanziata; al massimo finanziano le orchestre che suonano per il governo – registrano dischi, mettono in piedi la loro linea di abbigliamento, scrivono libri e film. E lo fanno da soli, autoproducendosi e distribuendo le loro opere su Internet. È un territorio molto indie da questo punto di vista, il che mi ha sorpreso.

Foto: Dana Trippe

Hai dichiarato che tra i tuoi maestri uno è sicuramente il venezuelano Simón Díaz. Che ricordi hai del periodo trascorso in Venezuela e, parlando di musica, quanto ti è rimasto dentro?
Moltissimo: la musica che ascoltiamo da bambini ci condiziona per tutta la vita, anche inconsciamente, è impossibile evitare quel tipo di influenza. E io sono cresciuto con salsa, merengue, cumbia e joropo nelle orecchie. Quando ho iniziato a cantare ero ancora in Venezuela e ricordo che la mia famiglia mi pregò di non farlo mai più. È che avevo scritto una strana canzone sulla chirurgia veloce ; mi dispiacque, ma la verità è che nel profondo ero contento di quella reazione. Poi quando approdai negli States mi dedicai alla chitarra, oltre che allo skateboard, che divenne una grande passione legata comunque alla musica: è guardando i video di skate che mi convinsi che volevo diventare un cantautore.

Ora canti “I’m singing no longer for fun, but as a form of protection”: che cosa intendi?
In quel pezzo, Sight Seer, volevo dire che in questo nuovo album non canto e suono perché mi diverte o perché sono appassionato di musica, o perché, che so, sono innamorato e ho bisogno di urlare il mio amore. No, semmai canto e suono perché questo mi fa sentire al sicuro, mi fa sentire connesso non solo con gli altri, ma anche e in primis con me stesso. Perché fare musica mi permette di superare la distanza tra me e il mio cuore.

Di mezzo ci sono i lutti cui accennavi, il disco è dedicato alla memoria di diverse persone a te vicine che se ne sono andate d i recente, dalla commerciante di libri d’arte Cynthia Ferchak al produttore discografico Hal Willner, da Jeremiah Green dei Modest Mouse a Ryuichi Sakamoto. Che cosa si impara quando la morte ti tocca così da vicino?
Sai, Cynthia era la mia matrigna… In quell’elenco c’è anche Jamie Moon, che è stata una delle mie primissime amiche, suonava nei Women & Children. Cosa si impara dal lutto? Che di fronte alla morte non si può fare niente se non trasformare il lutto in ode e continuare ad amare. Non c’è altro che si possa fare. In questo la meditazione mi ha aiutato, è qualcosa di cui ho profondamente bisogno. Non medito perché sto bene, medito perché sono parecchio incasinato e ne ho la necessità.

È legata al buddismo, la via che segui?
Sì e no. Mi sento vicino al buddismo, ma non sono un predicatore a caccia di proseliti. Ho scelto il buddismo perché è la religione che mi ha parlato, che ho sentito affine, ma sono convinto che ciascuno debba trovare e poter scegliere la strada che più lo rappresenta. Ascoltare ciò che parla al tuo cuore, questo è il punto. La violenza, l’aggressività e l’omofobia che vediamo nella nostra società sono dovute al fatto che troppe persone non vivono come vorrebbero. È fondamentale che tutti possano fare il lavoro che desiderano, avere l’orientamento sessuale che vogliono, credere in ciò che sentono più consono; se ignoriamo ciò che parla al nostro cuore è un disastro. Quante persone che non possono vivere la loro vita liberamente, finiscono per guardare a quella degli altri con rabbia? Non è un problema individuale, ma sociale.

Hai scoperto un lato di te stesso che non conoscevi, grazie alla meditazione?
Ho scoperto dei lati di me stesso di cui era meglio liberarmi. Ho imparato a lasciare andare. È un processo lungo, passi un sacco di tempo da solo in una stanza a meditare, e man mano è come se quella stanza si riempisse di cose che capisci essere superflue o negative e di cui pian piano ti liberi. È come svuotarsi. Svuotarsi di ciò che non ha valore e conservare ciò che lo ha. Per riuscirci devi guardarti dentro, osservare la tua stessa mente, ed è dura, visto che nella maggior parte delle nostre menti c’è l’apocalisse. O perlomeno nella mia era così! (ride, nda).

Tornando al tuo percorso da musicista, sei stato tra i protagonisti dell’ultimo decennio in cui si dava ancora grande valore all’indipendenza artistica. All’inizio di quella fase eri il Devendra che suonava in piccoli club – la prima volta ti vidi a La Casa 139, a Milano – e che si presentava sul palco a piedi nudi, con barba e capelli lunghi, vestito come un fricchettone nel pieno degli anni Sessanta. Ricordi?
Forse sembravo diverso da oggi, ma non lo ero così tanto. Il look hippie nella mia testa era qualcosa di punk, all’epoca nessuno si vestiva così, non era di moda, ed è per questo che mi piaceva. Da un lato, la mia era una scelta anticonformista legata a un ‘ esigenza tipica di quell’età: avevo una ventina d’anni e volevo essere diverso. Dall’altro, c’entrava la volontà di affermare le mie origini, perché i miei genitori erano hippie, sono cresciuto in quell’ambiente. Dopodiché, a essere sincero, anche se adesso dall’esterno sembro più un terapista disoccupato o un giardiniere terribile, sono molto più hippie, nel profondo del cuore, di quanto lo fossi allora.

Devendra Banhart - Twin (Official Video)

«Un giardiniere giapponese»: ti eri definito così ai tempi di Ape in Pink Marble, nel 2016. Mentre ho letto nella cartella stampa che per questo disco ti sei ispirato al poeta Kobayashi Issa.
Il quale era anche un prete buddista e ha scritto una poesia breve diventata molto popolare nella comunità buddista: “This dewdrop world / is a dewdrop world / and yet, and yet…”. Durante la pandemia, in un momento in cui tutto mi appariva senza speranza, perché il pianeta era malato, i miei amici stavano morendo e così via, e in cui, però, mi sentivo anche pieno di speranza all’idea di un nuovo mondo dove cambiare, migliorarmi, esprimermi e continuare a fare arte, proprio in quel momento così contraddittorio e assurdo mi sono capitati sotto gli occhi questi versi e boom!, mi sono ritrovato a pensare all’incredibile potere della poesia e al fatto che qualunque cosa accada siamo qui, non molliamo, non ci rassegniamo: and yet, and yet… Volevo che in ogni traccia dell’album si sentisse questo sentimento: in quell’“eppure, eppure” c’è la nostra capacità di tramutare la disperazione in gratitudine, le ferite in perdono, il dolore in lode.

Sin dal titolo Flying Wig, letteralmente “parrucca volante”, questo tuo nuovo disco ruota attorno al concetto di libertà. Che cosa significa oggi per te questa parola, in un’epoca in cui uno dei termini più abusati è “sicurezza”?
È vero quello che dici. Attualmente il mio sentimento di libertà individuale si esprime perlopiù nell’essere grato di non vivere in Corea del Nord. Se vivessimo là, potremmo scegliere solo tra i tagli di capelli approvati dal governo e ci sarebbe vietato guardare film occidentali. Altro che La dolce vita di Fellini! È una fortuna non vivere sotto un regime come quello e mi dispiace per chi deve subirlo. Ma questo individualmente, appunto. Dopodiché da qualche tempo la libertà collettiva mi pare sotto minaccia. Basti pensare ai vari Trump e Bolsonaro; è pieno di politici ossessionati dal dominio, dalla soppressione, e questi elementi compongono il cocktail perfetto per approdare al totalitarismo. Per fortuna dall’altra parte c’è sempre gente che combatte per la libertà, quella libertà di cui parlo in questo album spinto anche da Isabelle Albuquerque (artista multidisciplinare con cui Devendra ha collaborato in più occasioni, nda), che sempre durante la pandemia mi ha regalato una parrucca rimasta su un’asta del microfono, in mezzo al mio salotto, per mesi. Ho iniziato a immaginare che mentre dormivo la parrucca volasse via e si mettesse a girare per le città, di notte, con le parrucche degli altri: un’immagine giocosa che nella mia mente è diventata un simbolo di libertà.

Sempre a proposito di libertà, il tuo indossare abiti femminili è particolarmente significativo in un periodo storico come quello attuale. Un’epoca in cui il discorso pubblico sulla comunità LGBTQ+ è diventato centrale, ma continua a essere controverso. Tu come la vedi?
Penso sia ancora complicato vivere per chiunque appartenga a queste minoranze, il mondo non è un posto sicuro per gay, lesbiche e per chiunque non sia eterosessuale. Io vivo in una bolla, la maggior parte dei miei amici sono transgender e sono cresciuto in un ambiente dove, da ragazzino, mi chiedevano se ero etero o normale. Ma so che la mia è una bolla e che in molti Paesi e contesti non funziona così. Ciononostante ho grandi speranze per il futuro: è un bene che di tutto questo si discuta sempre più anche in tv, sui giornali, anche nella musica, basti rammentare la battaglia portata avanti da Anohni con la sua meravigliosa voce. Com’è un bene che le nuove generazioni abbiano abbracciato la fluidità rifiutando il binarismo: è stato un passo importante e personalmente credo che la concezione non binaria dei giovani di oggi sia realistica e filosoficamente molto sana e bella. Dobbiamo solo stare attenti a non cadere nel dogmatismo, ma per il resto… Perché definirsi? Domani potrei essere un’altra cosa.

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