Deryck, dicci tutta la verità, ti preghiamo, sulla fine dei Sum 41 | Rolling Stone Italia
This Is The End

Deryck, dicci tutta la verità, ti preghiamo, sulla fine dei Sum 41

Abbiamo intervistato Deryck Whibley per farci raccontare cosa c’è dietro l’ultimo album ‘Heaven :x: Hell’ e il tour finale della band e fare un bilancio di oltre 25 anni di musica. «Io sono felice, faccio un salto senza rete»

Deryck, dicci tutta la verità, ti preghiamo, sulla fine dei Sum 41

Sum 41

Foto: Travis Shinn

È l’estate del 2001 quando esplodono i canadesi Sum 41. Il video di Fat Lip è in rotazione massima su MTV: a riguardarlo adesso è difficile non farsi prendere dalla nostalgia, è praticamente un bignami del mood e dell’immaginario pop-punk dell’epoca. La cornice inevitabile delle suburbs di qualche grande città, i pantaloni larghi che arrivano al polpaccio, le scarpe da skate, magliette Shorty’s a profusione e pancali di noia da tagliare con la motosega.

Il suono, però, era diverso da certi altri loro contemporanei che egualmente impazzavano nella tv della musica: prima di tutto, questi ragazzi sapevano suonare, chiedete a chiunque li abbia mai visti dal vivo. Non mancavano inoltre le influenze metal, anche parecchie esplicite a volte, basti pensare a cosa combina il chitarrista Dave Brownsound nell’altrettanto iconico video di In Too Deep, dove si permette addirittura di infilare un assolo dopo essersi tolto una maglietta dei Maiden. In più, erano canadesi. Niente California a tutti i costi. È proprio questo loro mischiare elementi punk ad altri pescati dal metal a rendere la band unica e interessante nel plastificato mondo del pop di inizio millennio. Alla voce c’è Derick Wibley: secco come un chiodo, maglia perennemente smanicata, capello biondo sparato al cielo. Nella vita non si è fatto mancare nulla: da un chiacchieratissimo ma breve matrimonio con la conterranea Avril Lavigne a un fegato collassato a poco più di 30 anni per una dipendenza da alcol che lo ha quasi ucciso.

Dal 2001, anno di pubblicazione dell’esordio All Killer No Filler ne è passata di acqua sotto i ponti ma i Sum 41 hanno sempre avuto una grande qualità: non hanno mai svaccato. Niente pezzi inascoltabili per compiacere le radio, TikTok o che altro regoli il mercato musicale in questi tempi confusi, niente featuring imbarazzanti, niente ospitate inutili nei salotti buoni. Hanno sempre portato avanti il proprio percorso, a volte spingendosi in territori più pesanti (quello che la band e i fan chiamano il Sumtallica sound, citando Hetfield e soci), altre tornando invece alle radici pop-punk. In quasi 30 anni di carriera c’è anche il momento sliding doors: è il maggio del 2004 quando i canadesi si recano in Congo assieme a un’associazione umanitaria del loro paese. L’albergo dove si trovano finirà al centro di un conflitto a fuoco con i Sum 41 chiusi in camera in attesa del proprio destino. Dopo due giorni verranno tirati fuori da Chuck Pelletier, un operatore delle Nazioni Unite a cui la band dedicherà il terzo disco in studio, intitolato semplicemente Chuck.

Fast forward fino al maggio dello scorso anno, colpo di scena: la band annuncia lo scioglimento, nonostante l’amore da parte del pubblico non sia mai realmente scemato, nonostante siano perennemente presenti nelle scalette dei più grossi rock festival del mondo, nonostante Landmines, singolo estratto dall’ultimo album, sia diventato #1 nelle radio di rock alternativo in America, ulteriore testimonianza di un amore mai finito fra le band e il proprio pubblico. Ma la percezione di se stessi a volte fa brutti scherzi e Heaven :x: Hell, l’ottavo album in studio dei canadesi, ne segna anche la fine. Per ora. In ballo rimane un ultimo tour mondiale, da headliner, che passerà anche dall’Italia (il 9 luglio all’I-Days Festival, a Milano), oltre a un’autobiografia di Whibley in uscita questo inverno.

Dall’altro capo del telefono c’è proprio Deryck Whibley cantante e fondatore della band, felice come un bambino a Natale, pronto a spiegare le ragioni dello scioglimento della band. O, per lo meno, le sue ragioni.

Quindi ci siamo, questa è la fine dei Sum 41.
Ci siamo.

Che è successo?
È l’inizio della fine.

Come ti senti?
Beh, abbiamo ancora un tour mondiale di un anno e un disco fuori adesso, quindi sembra più l’inizio di qualcosa che non la fine. È difficile rendersi conto che siamo alla fine del viaggio perché ci sono ancora tantissime cose da fare. Credo che comincerò a realizzare il tutto quando il tour sarà entrato nel vivo.

Perché chiudere ora?
La decisione è stata presa una volta che la musica era stata scritta, a disco ormai finito. Da un bel po’ penso che vorrei provare a fare altro nella vita, anche se non mi era chiaro il momento in cui sarebbe successo. Poi ho sentito il disco, ho pensato che ne sono davvero orgoglioso e che dovrebbe essere questo il punto in cui staccare la spina. Sono quattro o cinque anni che penso che non vorrò fare i Sum 41 per il resto della mia vita. Ripetermi, continuamente. Andare in tour un anno, poi fare un disco. Poi di nuovo tour e di nuovo disco. Il mio problema è che non riesco a fare due cose in contemporanea: dedico e ho dedicato tutto me stesso a questa band, non sono mai riuscito a fare altro, come un side project ad esempio. Non è così che funziono. Non riesco a non dare tutto me stesso in quel che faccio e, per poter fare altro, ho dovuto lasciar andare i Sum 41.

È stata una tua decisione o una scelta collettiva?
È stata principalmente mia. Sai, ho provato a ignorare questo sentimento a lungo, ho anche pensato che, forse, non ero l’unico nella band a pensarla a questo modo. Mi sono sentito anche in colpa per aver avuto questi pensieri. Mi ripetevo che non dovevo avere questa idea, che la band è ciò su cui ho investito tutta la mia vita, che siamo un famiglia e che ci sono tante persone coinvolte nei Sum 41. Ho ignorato tutto questo finché non ho detto ai ragazzi «credo di esser pronto per fare altro».

Come hanno reagito?
Inizialmente sono rimasti tutti sorpresi. «Sei così coinvolto in quello che fai, come fai a dire basta»? E sì, amo quel che faccio, ma sento anche il bisogno di fare altro. C’è stato anche tanto amore e comprensione. Sai, siamo adulti adesso, ne abbiamo passate tante insieme. Si sono comportati più come una famiglia che come una band: nonostante non volessero la fine del gruppo, non vorrebbero mai vedermi infelice. È stato un bel momento di scambio, è andato nel migliore dei modi.

Cosa c’è quindi nel tuo futuro?
Come ti ho detto prima, metto tutte le mie energie in un progetto alla volta, per cui, per ora, c’è l’ultimo tour.

Ok, questo me l’hai già detto. Dovrai pure avere un qualche tipo di piano.
No, non ce l’ho. Non ce l’ho davvero. Il giorno in cui mi sveglierò senza aver nulla da fare ci penserò. Non riesco a funzionare quando non ci sono rischi. Offro il meglio di me quando metto tutto in gioco, quando sento la paura, quel tipo di tensione. Solo salti senza rete per me.

Fammi provare una domanda diversa. Nel futuro, ti vedi ancora come un musicista o hai voglia di esprimerti in altri campi dell’arte?
Sono ossessionato dalla musica. Ho un amico che lavora nel cinema e nella tv e spesso ho pensato che mi piacerebbe fare quello, ti parlo del lato creativo come scrivere sceneggiature. La musica penso che ci sarà sempre, ma ho svariati interessi in altre cose: non so cosa farò finché non mi troverò davanti al fatto che dovrò fare altro.

Quando sarà la reunion, quindi?
Ahaha, nessuna reunion. Amo la band, amo le canzoni ma voglio fare qualcosa di diverso.

Ti prendevo un po’ in giro, sai c’è questo trend di annunciare la fine della propria band per poi riunirsi poco tempo dopo
Lo so, lo so. Non voglio neanche dirti che non saliremo mai più su un palco assieme ma sono consapevole del fatto che nella vita possono succedere molte cose e quindi potrebbe anche capitare davvero che non suoneremo mai più insieme. Non lo so. Una possibilità vale l’altra, non ci penso. Se il mio nuovo viaggio mi porterò gioia, bene, altrimenti potrei tornare sui miei passi.

Foto: Travis Shinn

Quindi l’idea era di concludere il viaggio con una nota positiva? Perché il disco è davvero buono ed è un riassunto di 30 anni di carriera, c’è dentro il pop-punk ma pure il metal e tutto quello che ci sta nel mezzo che è sempre stata la caratteristica che ha reso la tua band interessante.
Ti ringrazio e sono d’accordo con quel che dici, questo disco ben rappresenta quello che abbiamo fatto. Se questo fosse stato il nostro primo album sarei stato davvero orgoglioso. Abbiamo fatto dischi che erano solo pop-punk, altri che erano solo metal e altri che avevano pezzi che avevano entrambi questi elementi. Tutto questo torna in questo doppio disco.

Sai, mi sono visto un po’ di interviste che hai fatto e in una di queste dicevi di non essere neanche sicuro che alla gente interessasse dello scioglimento della vostra band. Questa cosa mi ha colpito molto. Come vedi i Sum 41? Che percezione ne hai?
In 30 anni ci sono stati così tanti alti e bassi, cose che non sono andate come dovevano, che è difficile riuscire a capire cosa ne pensino gli altri. Ci sono stati momenti così diversi, specialmente a inizio carriera… Sai, ho in uscita un libro (la biografia Walking Disaster: My Journey Through Heaven and Hell, fuori a ottobre, nda) che racconta di come spesso ci siamo sentiti in cima al mondo per ritrovarci poi ridicolizzati dalla stampa pensando di non interessare più a nessuno. Questo gruppo ha vissuto tanti momenti, i trend vanno e vengono, quando succedono tutte queste cose è difficile avere una percezione su cosa la gente pensi di te e della tua band.

Ok, ma voglio dire: siete sempre in tour, fate tante date dal vivo. Finché ci sono ragazzi disposti a spendere i propri soldi per cantare le vostre canzoni direi che le cose vanno bene. Quello può essere un buon indicatore per capire se siete ancora amati e se avete ancora un seguito, no?
Sì e no. Voglio dire, immaginavo che i nostri fan ci sarebbero rimasti male. Non pensavo però che la cosa sarebbe interessata ai media o, comunque, alle persone al di fuori della nostra cerchia. Credevo che non sarebbe fregato niente a nessuno per cui sono rimasto sorpreso quando tutte le testate hanno riportato la notizia.

Girare il mondo con la forza della propria musica. Era questo che volevi fare da ragazzo?
Da quando avevo 6 anni sogno queste cose. E si sono avverate tutte e anche di più.

Questo era il tuo sogno e lo hai avverato. E quindi? Com’è stato? Deludente? Conosci quel vecchio detto che fa: attento a cosa desideri perché potresti ottenerlo?
Lo conosco, ma il viaggio è stato migliore del previsto. Ed è proprio per questo che voglio fare altro: perché la mia vita è grandiosa e voglio vedere in quali altre direzioni potrà portarmi. Fin quando ho seguito le mie sensazioni le cose sono sempre andate bene. E adesso il mio istinto mi dice di fare altro, solo che ancora non so cosa.

Deryck, io non ti conosco, ti sto parlando adesso al telefono per la prima volta, ma mi dai la sensazione di essere proprio felice, in pace con te stesso.
Decisamente, ma lo sono sempre stato. Ovviamente passi attraverso tante cose, da un punto di vista emotivo sei triste e poi allegro, insicuro, arrabbiato… ma in assoluto penso di essere felice e positivo e di esser stato fortunato nella vita. La mattina quando mi sveglio sto bene, le mie giornate sono divertenti.

Come sta la tua salute?
Grandiosa, non sono mai stato meglio. Ed anche questo è un motivo per cui voglio fare altro, ho troppa energia per limitarmi a rifare sempre le solite cose. Non voglio far passare lo scioglimento della band come un qualcosa di facile per me, ma do il mio meglio quando devo combattere per le cose.

Nel vostro nuovo album c’è una canzone dal titolo in italiano Prepararsi a salire. Com’è nata la cosa?
Sai, abbiamo una relazione fortissima con la fanbase italiana, per cui ho sempre voluto inserirne una con un nome nella vostra lingua. Questo è il nostro ultimo album per cui il momento è arrivato.

C’è qualcosa che non sei riuscito ad ottenere?
Immagino di sì, nulla che mi venga in mente adesso però. Voglio dire, non c’è niente per cui abbia mai perso il sonno. Non abbiamo mai suonato al Madison Square Garden o non abbiamo mai vinto un Grammy, per dire. Abbiamo ottenuto quello che volevamo e anche di più. Poi, certo, si può sempre volere di più.

Vedi Deryck, io sto cercando di trovare un punto debole nella tua persona, ma tu sei così felice e in pace con te stesso che mi stai rendendo la giornata difficile e questa intervista risulterà noiosa.
Mi spiace essere così noiosamente felice (ride).

Sto scherzando, sono felice che tu stia bene. Detto questo, volevo dirti che il fatto che tu abbia parlato così apertamente della tua dipendenza e della tua riabilitazione è stato un atto di coraggio e generosità, sicuramente sarai arrivato a molte persone che stavano vivendo quello che hai passato tu.
È quello il motivo per cui ne ho parlato. Non mi ero reso conto di essermi ridotto così male, ma è difficile rendersene conto, per chiunque, finché ci si è dentro. Poi un giorno fai un passo indietro, come attraversare una linea invisibile, e ti rendi davvero conto di quel che è successo. Non c’è un giorno in cui pensi «fanculo, oggi mi sbronzo quanto mi pare», nessuno dice una cosa del genere, lo fai e basta. Perdi il controllo senza rendertene conto. E, voglio dire, io ero molto giovane, avevo 33 anni al tempo, e ho pensato di esser davvero troppo giovane per avere il fegato danneggiato: anche in ospedale sono rimasti sorpresi, mi hanno detto che danni di questo genere di solito si riscontrano in pazienti sui 60 anni. Ho pensato che, se è successo a me, sicuramente sarà successo ad altri, oppure potrebbe succedere ad altri. Persone che, come me, pensavano di essere invincibili per via della loro età. Non puoi aiutare tutti, ma se riesci ad aiutare qualcuno, beh, è già un risultato.

Hai mai avuto feedback da parte delle persone sul tuo racconto?
Ci sono persone che, ai concerti, mi son venute a parlare di come la mia storia li abbia aiutati. Però, alla fine, io non posso aiutare gli altri, tocca all’individuo: io posso provare ad essere di esempio, ma ognuno deve salvarsi da solo.

Foto: Travis Shinn

Tu, ormai da anni, vivi negli Stati Uniti. Quest’anno si voterà…
Non sono un fan di Trump, se è questo che vuoi sapere.

Lo sapevo, gli avete anche dedicato qualche canzone. Qual è il tuo commento sulla situazione politica americana?
Non mi piace nessuno. Seguo la politica pensando: qual è quello che odio di meno? Chi è, fra i due, il più malvagio contro il quale puoi votare? Perché io non ho mai votato a favore di qualcuno, mi son sempre ritrovato a votare contro qualcuno che semplicemente faceva troppo schifo. Non so se la cosa ha senso.

Ne ha fin troppo, purtroppo. Penso che i tuoi compagni di band ti odieranno.
Per cosa? Per aver lasciato la band?

Sì.
Magari odieranno la mia decisione ma non odieranno me.

Questa non era male. Se ti guardi indietro, come riassumi l’esperienza coi Sum 41?
Inferno e paradiso, che è il motivo per cui il nostro nuovo album si chiama così. Potrà sembrare banale, ma è così. Il titolo non rappresenta l’essenza del suono di quel disco, ma tutto il percorso dei Sum 41.

Raccontami il momento migliore e quello peggiore della vostra parabola.
Il migliore è adesso, rendersi conto di tutto quello che abbiamo ottenuto. Sorprendersi per l’interesse che ancora c’è attorno alla nostra band, quello che ti dicevo prima: se vuoi un momento è probabilmente quello. Il peggiore… non c’è un vero momento, perché anche i momenti negativi sono utili. Hai bisogno di avere un tour che non vende molto, di avere una canzone che le radio si rifiutano di passare, perché poi puoi godere di quando Landmines diventa il pezzo più suonato dalle radio alternative americane o di aver fatto sold out, per due giorni di fila, a Toronto per la data finale del tour in pochissimo tempo. Servono i fallimenti per crescere, evolversi e apprezzare quel che c’è di buono.

Deryck smetti di essere così saggio e positivo.
Ahahaha.

Per piacere, dovresti essere una rockstar.
Lo faccio da 30 anni, se non avessi imparato qualcosa sarei nei guai.

Forse il momento peggiore è stato quando eravate in Congo con un’associazione canadese e avete rischiato la vita perché attorno al vostro albergo c’erano dei combattimenti?
È stato spaventoso, non so dirti se fosse un momento brutto, del resto noi eravamo lì per un’operazione di beneficenza. Per cui non era un qualcosa che non dovevamo fare ma, sfortunatamente, ci siamo trovati in mezzo a una zona di guerra. È buffo che tiri fuori la cosa, non se la ricorda nessuno.

Ma come, avete anche intitolato un disco su questa cosa, Chuck.
Lo so, ma questa cosa nelle interviste non la tira fuori più nessuno.

L’ho fatto io.
Infatti, è fantastico tu l’abbia fatto. Beh, quando siamo rimasti chiusi per tre giorni in quell’albergo, pensando che le milizie sarebbero arrivate a ucciderci e a stuprare le donne del nostro gruppo, quello è stato sicuramente il momento peggiore. Poi però passa, anche se la cosa ci ha segnati: sicuramente abbiamo avuto tutti disordine da stress post traumatico, voglio dire, Dave (Brownsound, il chitarrista nda) ha lasciato la band dopo quell’evento ed è stato via per dieci anni. Alcuni di noi si sono immediatamente sposati, io me ne sono andato dal Canada, tutti abbiamo cercato di fare qualcosa.

Cosa ti è rimasto di quel momento?
Sfortunatamente devo dire che mi ha reso disilluso nell’aiutare le persone. Quando siamo andati lì, e abbiamo girato il documentario, eravamo sicuri che avremmo portato l’attenzione internazionale sulle atrocità che stavano avendo luogo, che le cose sarebbero cambiate: abbiamo intitolato il nostro disco Chuck e ne abbiamo parlato in tutte le interviste, siamo anche riusciti a far trasmettere il documentario su MTV in tutto il mondo e invece non è successo niente. Come se non fosse avvenuto. È per questo che sono rimasto stupito quando hai parlato del Congo, perché la gente non lo ricorda più è come se non fossimo neanche andati lì. Per cui mi ci è voluto un po’ di tempo per tornare ad aiutare le persone, perché non mi piace molto l’idea della beneficenza, preferisco essere coinvolto in prima persona. Ero molto triste per come erano andate le cose e ricordo che qualcuno mi disse «sei vecchio abbastanza per voler cambiare il mondo e giovane abbastanza per pensare di riuscirci». Questa cosa mi colpì molto perché era esattamente quel che ero.

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