Dentro le session di ‘Gigaton’ dei Pearl Jam: intervista al produttore Josh Evans | Rolling Stone Italia
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Dentro le session di ‘Gigaton’ dei Pearl Jam: «La regola era: niente regole»

Esperimenti, strumenti scambiati, la ricerca del suono perfetto: il produttore Josh Evans racconta com’è nato l’album, un collage realizzato nell’arco di due anni in ‘casa’, provando nuovi metodi di scrittura

Dentro le session di ‘Gigaton’ dei Pearl Jam: «La regola era: niente regole»

I Pearl Jam nel 2020

Foto: Danny Clinch

C’è una fotografia di Lance Mercer che i fan dei Pearl Jam conoscono bene. È contenuta nella confezione apribile di No Code. Al centro della stanza c’è un tavolino con sopra sei candele accese. Tutt’attorno ci sono i musicisti coi loro strumenti e per terra le spie per sentirsi: Stone Gossard è in piedi, Eddie Vedder, Mike McCready e Jeff Ament sono sugli sgabelli, Jack Irons è seduto dietro alla batteria. Quella fotografia e altre simili scattate nelle sale prove del gruppo sono il simbolo di come s’immagina nasca la musica dei Pearl Jam: un suono intenso e vibrante prodotto da cinque musicisti che suonano assieme, dal vivo, in cerchio. Le canzoni dei Pearl Jam sono quel che accade all’interno di quel cerchio.

Gigaton non è stato registrato così. L’album che uscirà venerdì 27 marzo (qui la nostra recensione) è frutto di sedute di registrazioni quasi casalinghe spalmate in un lungo periodo di tempo durante il quale i musicisti hanno spesso lavorato sulle canzoni singolarmente o in coppia. Il collettore e garante di queste session si chiama Josh Evans, collabora coi Pearl Jam da una quindicina d’anni, è il loro fonico di fiducia e per la prima volta co-produce un loro album. «Sono sempre stato un fan dei Pearl Jam, ma questa cosa non gliel’ho mai detta per non farli impaurire», mi racconta ridendo al telefono da Seattle. Nato a Tokyo da madre giapponese, Evans ha passato l’intera sua esistenza, tranne il primo anno di vita, nella città del grunge. «Sono al Lincoln Park, sul Puget Sound», spiega. «C’è gente che passeggia, ci sono i cani, c’è un bel sole ed è un piccolo sollievo in questi giorni». Aggiunge subito, per non dare l’impressione d’essere insensibile agli appelli a mantenere la distanza sociale: «Ma sto lontano da chi incontro».

Quest’anno Josh Evans compirà 42 anni. Quando i Pearl Jam pubblicarono il best seller Ten ne aveva 13. Chiese alla madre di comprargli il CD. Lei andò ai grandi magazzini Fred Meyer. Siccome di quell’album sapeva poco, gliene acquistò anche un altro che sicuramente era buono, il primo dei Led Zeppelin. «Prova a immaginare. Ero un ragazzino. Era il 1991. Era Seattle. C’ero dentro». Evans non poteva immaginare che un giorno avrebbe fatto parte del ristretto club dei produttori della band, una lista di nomi piuttosto breve che comprende Brendan O’Brien (sei album), Adam Kasper (due), Rick Parashar e Tchad Blake (uno ciascuno). «Non era previsto che entrassi in quella lista. Semplicemente è successo», racconta. Il fatto che il gruppo non abbia chiamato un produttore di grido, e nemmeno una persona fidata come O’Brien, è un indizio del fatto che Gigaton più di ogni altro album dei Pearl Jam è stato realizzato in un contesto quasi casalingo. E non è nemmeno la fotografia di un momento specifico della band, com’erano Ten o Vitalogy, ma un puzzle che è andato componendosi nell’arco di due anni.

Josh Evans ha conosciuto i Pearl Jam durante le session del loro disco omonimo del 2006, il cosiddetto Avocado. Era assistente fonico allo Studio X di Seattle dove il gruppo registrava. «Significa che sistemavo le cose, facevo le pulizie, portavo panini e caffè». Quando i Pearl Jam hanno trasferito il loro quartier generale e sala prove che chiamano Warehouse dalla zona di South Lake Union, non lontano dalla house boat di Tom Hanks in Insonnia d’amore, al quartiere di Georgetown si sono ricordati di Evans. L’hanno chiamato prima per piccoli lavori di imbiancatura e trasloco, poi come fonico. «Lavoro a tempo pieno per loro dal 2008», racconta. «Negli ultimi anni ho avuto un ruolo nei progetti solisti di Mike e Jeff. Sono diventato il fonico di casa, per così dire». Nel frattempo, ha lavorato come ingegnere del suono e mixer per altri artisti, dai Soundgarden di King Animal alle Thunderpussy dell’esordio.

È stato perciò naturale affidargli la registrazione dei demo di Gigaton. «A un certo punto quei demo sono diventati l’album e io mi sono ritrovato nel ruolo di co-produttore. Nessuno l’ha detto apertamente. Nessuno mi ha chiesto: ehi Josh, lo vuoi produrre tu quest’album? Ero lì, ci stavo lavorando, è successo. Magari Matt mi chiedeva il mio parere sul suono della batteria. Oppure Stone mi diceva: ho quest’idea, come possiamo metterla giù in modo che piaccia anche a Ed? E così, lentamente, ho cominciato a collaborare con la band anche dal punto di vista creativo».

Pur avendo lavorato con artisti di primo piano come Brandi Carlile e Dave Matthews Band, e pur avendo messo le mani su progetti importanti come l’antologia di Chris Cornell del 2018, Evans non aveva mai co-prodotto un album in vita sua. «Onestamente? Cercavo di non pensarci. Chinavo la testa e lavoravo. Se la band era felice, anch’io ero felice. Alla fine del 2019, quando ho mixato le canzoni, ho realizzato che avevo co-prodotto l’album di un gruppo con trent’anni di storia e un gran catalogo. E allora sono andato a risentirmi i loro vecchi dischi, per essere sicuro che il mio lavoro non sfigurasse».

Le session di Gigaton erano iniziate quasi due anni prima, nel gennaio 2017. «All’interno della Warehouse è stata ricavata una piccola sala d’incisione, i GT Studios. Niente di particolare, giusto la cabina per la batteria, la stanza di controllo. È come se fosse uno studio casalingo. Qualche registrazione è stata fatta prima del gennaio 2017, il pump organ di River Cross è del 2015 ad esempio, ma è stato allora che hanno iniziato a fare sul serio. Per un paio di mesi si è lavorato tutti i giorni. Non tutti assieme, ma qualcuno c’era sempre. Ci sono state pause per il tour. E la morte di Chris Cornell in maggio ha fermato tutto. Era un amico e una fonte d’ispirazione per tutti quanti. Ci ha sconvolti. C’è voluto un anno per riprendersi ed elaborare il lutto». Si dice che Comes Then Goes sia dedicata a Cornell. «Non lo so nello specifico. Ma sono sicuro che in tutte le canzoni di Gigaton c’è un po’ di Chris. Ed è così: nei suoi testi cerca di dare un senso a quel che vive, crescere le figlie, il cambiamento climatico, Cornell».

Foto: Danny Clinch

La band non ha fornito a Evans delle linee guida, ma fin dall’inizio è stato chiaro che Gigaton sarebbe stato diverso da qualunque altro album dei Pearl Jam sul fronte della scrittura. «Volevano comporre in modo diverso dal solito. Non volevano più mettersi tutti assieme in sala, accendere gli ampli, suonare e registrare, anche se qualche pezzo nato così c’è, ad esempio Who Ever Said che di base sono loro che suonano assieme nella stessa stanza anche se poi Mike ci ha messo delle strane atmosfere sperimentando con l’E-Bow. Magari due membri del gruppo venivano in studio e registravano una bozza di canzone. Il giorno dopo, altri due venivano e riarrangiavano radicalmente quel che era stato fatto il giorno prima. E il terzo giorno arrivava qualcun altro e ci metteva del suo. L’importante era avere una mentalità aperta e non avere paura di incasinare scrittura e registrazioni. La regola era: nessuna regola».

Fra le canzoni nate in questa maniera ci sono Seven O’Clock e Dance of the Clairvoyants. «Non essendoci regole, in Dance si sono scambiati gli strumenti. In Alright c’è una chitarra 12 corde suonata da Matt e non è che Stone ha detto: mmm, questa parte l’avrei fatta meglio io. Hai un’idea? Fallo. È così che hanno realizzato questo disco. Magari si restava io e Mike a cercare un suono particolare per cinque ore. Il punto non era raggiungere un certo risultato. Contava il processo». Evans ha anche realizzato loop di batteria su cui costruire alcune canzoni. «Se senti bene Alright, sullo sfondo c’è una sorta di percussione elettronica alla Björk».

Nonostante l’apparenza, la parte ritmica di Dance of the Clairvoyants è interamente suonata da Matt Cameron. «È una delle cose di quest’album di cui vado più fiero in quanto fonico. Se fossi venuto a vedere la registrazione avresti sentito Matt suonare tutto quanto dal vivo esattamente come lo ascolti sul disco, ad eccezione del suono dei doppi piatti che è programmato. Ci abbiamo messo un intero giorno di lavoro a maneggiare con cuscini, nastro adesivo e altre cose per far sì lo strumento di Matt suonasse come una batteria elettronica». Il pezzo più difficile da realizzare è stato Seven O’Clock. «L’hanno tirato fuori il giorno in cui abbiamo cominciato a registrare, nel gennaio 2017. L’hanno suonato per due, tre ore. Nei due anni successivi ci abbiamo lavorato io e il fonico John Burton. Era una jam da cui siamo andati a pescare le parti che ci sembravano particolarmente forti. Il ritornello è stato suonato con quattro o cinque approcci ritmici diversi. Quello che sentite è un assemblaggio. Il fatto che nonostante tutto suoni come una canzone mi inorgoglisce».


Non c’è band nella storia del rock che abbia mantenuto intatta l’eccitazione per la musica dopo venti o trent’anni di carriera. I Pearl Jam non fanno eccezione. I Led Zeppelin hanno fatto album non all’altezza della loro fama come Presence e In Through the Out Door, gli Who Face Dances e It’s Hard. Loro, fatte le dovute proporzioni, hanno pubblicato Backspacer e Lightning Bolt. L’intensità quasi folle di certe canzoni ed esibizioni degli anni ’90, quando il gruppo sembrava perennemente sull’orlo del precipizio, ha lasciato posto a una nuova forma di consapevolezza e pacatezza. Per cercare di fare grande musica, o almeno qualcosa di eccitante, non basta più chiudersi assieme in una sala. Ci vogliono nuovi stimoli. E così ai GT Studios, Josh Evans ha rivestito non solo il ruolo di co-produttore, ma anche di motivatore. «A volte ho dovuto fare lo psicologo, fra nascite, morti, malattie, problemi famigliari, per non dire dell’elezione di Trump. Ma la maggior parte delle volte il mio ruolo è stato trovare suoni che appassionassero e ispirassero almeno uno di loro, per poi cercare di coinvolgere il resto della band, E sì, a volte sono andato a prendere i caffè, come ai vecchi tempi».

Sette anni separano Lightning Bolt e Gigaton. I Pearl Jam non avevano mai fatto passare tanto tempo da un disco all’altro. Al di là della morte di Cornell e degli impegni concertistici, le session sono durante tanto perché la band «non doveva pubblicare un disco a tutti i costi. Dovevano esserne soddisfatti, dovevano essere sicuri che fosse forte. E poi hanno sfruttato il lusso di avere il GT Studio e non dovere prenotare una sala d’incisione. Solo nel 2019 abbiamo capito che avevamo per le mani una collezione di canzoni solide».

Il carattere diciamo così casalingo di Gigaton è riflesso anche nel luogo in cui è stato mixato. Non in un grande studio di registrazione, ma in un posto più modesto, lo studio personale di Evans. «In pratica, nel mio giardino di casa».

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