Deda ha fatto pace con il rap (anche se non tornerà più a rappare) | Rolling Stone Italia
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Deda ha fatto pace con il rap (anche se non tornerà più a rappare)

Da Isola Posse ai Sangue Misto ha fatto la storia del rap italiano per poi lasciare tutto e dedicarsi alla ricerca di nuovi suoni con Katzuma e Oké. A vent'anni da 'Melma & Merda', ricucita la ferita, torna al rap con 'House Party', un disco da producer: «Non volevo fare qualcosa di nostalgico, me lo sono imposto»

Deda ha fatto pace con il rap (anche se non tornerà più a rappare)

Deda

Foto: Enrico Rassu

La storia del rap italiano degli anni ’90 è un argomento delicato, e complicato. In meno di dieci anni il genere ha attraverso varie fasi di consapevolezza, da quella politica e immediata degli esordi (il periodo delle posse) a quella mainstream dei primi successi radiofonici, fino ad una drammatica caduta a cavallo del nuovo millennio che ha lasciato l’hip hop brancolare nel buio per 4-5 anni prima di tornare, in una nuova veste, e ad un rinnovato successo qualche anno più avanti.

In tutti questi momenti, Deda era presente. Era in prima linea nei vagiti dell’hip hop italiano con Isola Posse All Star, diventando colonna portante del disco rap italiano per antonomasia, SxM dei Sangue Misto, al fianco dell’amico Neffa e DJ Gruff, per farsi trovare ancora lì, a fine decennio, quando con Melma & Merda, progetto a tre con Kaos e Sean, si chiuse ufficialmente un primo e importante capitolo di una storia alquanto travagliata. Poi, come tutti coloro che chiusero con il rap in quegli anni, abbracciò un lungo silenzio sull’argomento, dedicandosi ad altri progetti (Katzuma, Oké), sempre legati al groove ma bel lontani dal mondo e dall’ambiente hip hop.

Ancora oggi, qui negli uffici di Universal, ad oltre vent’anni di distanza, Deda, nella sua gentile disponibilità, è reticente a riaprire certi capitoli. Cerca di non citare mai direttamente quel passato e, quando capita, il suo volto sembra leggermente contrito. Sa che dovrebbe parlarne, sa che arriveranno domande, ma probabilmente ne farebbe volentieri a meno. In particolare sembra davvero scocciato con chi in questi anni ha utilizzato SxM come album dogmatico del rap italiano, una sorta di soglia di entrata per decidere chi merita rispetto all’interno del genere.

Il suo focus ora è tutto sul suo primo disco solista a nome Deda, House Party, il suo ritorno al rap. Un ritorno, certo, ma da producer. Perché con sulle rime Deda ha definitivamente messo una pietra su.

Penso che questa prima domanda sarà la più gettonate nei tuoi round di interviste: come mai hai scelto di tornare – al rap e a Deda – proprio adesso?
Ho smesso col rap vent’anni fa, spostandomi su cose differenti, iniziando a produrre con gli strumenti e non più coi sample come si usava fare. Poi c’è stato un momento, qualche anno addietro, in cui le cose che stavo producendo – almeno in testa mia – si stavano avvicinando sempre di più ad un suono e un movimento che definirei ‘urban’, anche se trovo questo termine problematico. Rispetto a quando avevo lasciato, ho notato però che una serie di paletti stilistici erano stati abbattuti, riuscendo a portare il rap fuori dalla monotonia. In un certo senso è stato come ritrovarsi allo stesso punto dopo essermi mosso in direzione diverse. Il primo esperimento in questo senso è stato lavorare con Frah Quintale (in La calma, del 2020): se fino a quel momento i miei lavori erano diventati principalmente strumentali, quel brano è stato un ritorno alla parola. Un ripartire da capo.

E in effetti guardando il tuo profilo Spotify in questo momento, prima dell’uscita di House Party, hai solamente un brano, Universo, il singolo appena pubblicato con Neffa e Fabri Fibra. Considerando che hai oltre trent’anni di carriera sulle spalle, fa quasi sorridere, sembra un segno.
In un certo senso posso considerarmi un esordiente. E poi meglio così, ripartire da zero senza il bagaglio di canzoni pubblicate cent’anni fa.

In questi anni ti sei dedicato a vari progetti come Katzuma e Oké, intraprendendo varie sperimentazioni e ricerche. Come sei riuscito a riportare tutto questo in Deda?
Ho sperimentato molto anche in questo disco. Penso ad esempio al brano che ho fatto con Ensi (Voilà) che per me è un ibrido di generi differenti. Quando gliela proposi gli dissi «Questa è una base dove solo tu puoi spaccare». E così è successo. Con Al Castellana invece ho indagato il mondo del soul psichedelico. In altri brani si sente più l’influenza di Katzuma, penso alla traccia con Salmo e a quella con Ghemon e Frank Siciliano. So che è un disco che può suonare fin troppo vario, ma ho voluto assecondare varie indoli. Ogni produzione doveva essere calzare con il singolo artista. Cerco sempre di essere un po’ incosciente quando lavoro, senza interrogarmi troppo su quali risultati posso ottenere. In testa ho il pensiero di far bella musica, bella musica per me, a prescindere dai generi.

Questo per te è un disco prettamente rap o qualcosa di più ampio?
Non volevo fare un disco rap, ma un disco che rappresentasse il mio percorso. Non volevo fare qualcosa di nostalgico. Me lo sono imposto.

House Party, già da titolo e tracklist, porta in sé una certa familiarità. E in effetti sono presenti vecchi amici come Neffa, Sean, Al Castellana, Danno, Fibra e artisti più giovani come Coma Cose, Frah Quintale, Shorty, giusto per citare qualche nome. Come hai costruito questa scaletta?
Ho voluto coinvolgere amici, persone con cui avevo condiviso molto in passato, gente che stimo e di cui ho seguito la carriera in questi anni. E – soprattutto – non volevo che fosse un disco completamente rap. Questo è il motivo per cui trovi Al Castellana, Frah Quintale, Shorty, Coma Cose, persone prima di tutto brave con la melodia.

Mancano però le nuove generazioni, gli under 30, il mondo della trap. Come mai questa scelta?
Come primo lavoro era importante coinvolgere persone del mio mondo. Artisti che funzionassero con il mio suono. E forse i nomi della trap non erano molto coerenti qui, anche se la trap mi piace. Volevo fossero presenti artisti coerenti con la mia storia. Il suono della trap non mi appartiene, mi sarebbe sembrato fuori luogo provare a fare qualcosa in quella direzione. Magari però qualche trapper in futuro si avvicinerà e sarà disponibile a mettersi in gioco con il mio suono.

Hai scelto di tornare al tuo primo nome, Deda. È una scelta che, per forza di cose, si porta con sé un bagaglio, una storia. Avendo così tanti moniker, non ti è venuta voglia di provare con un nuovo nome?
Un giorno ho provato ad azzardare l’ipotesi di utilizzare un altro nome, ma i miei soci mi hanno fulminato con lo sguardo. Tendo a cambiare nome per ogni progetto, ma ho capito che qui non era cosa. Se ci pensi, un disco dove c’è Neffa e Al Castellana non poteva che avere questa firma. Oltretutto all’orecchio dei ragazzini è un nome nuovo come tanti.

Deda però non era solo un producer, ma anche un rapper. Immagino che siano in molti a sperare in un tuo ritorno alle rime.
Ovviamente sì, me lo chiedono in tanti e con regolarità dal 2000. Mi fa piacere, ma come ho detto tante volte quello è un capitolo chiuso. Non è un modo in cui riuscirei ad esprimermi e a raccontare me stesso adesso. Anche perché nel frattempo questi qua sono diventati bravissimi! Ci sono dei rapper mostruosi, cosa dovrei dire io di nuovo?

E in questo disco non ti è venuta nemmeno la voglia di mettere un po’ la bocca sui testi altrui? Qualche correzione, qualche consiglio, qualche input? O anche solo proporre certe tematiche?
Per me l’unica cosa che conta nel rap è che si vada a tempo e per fortuna nel mio disco lo fanno tutti (ride). Il rap è qualcosa di molto personale e se chiami qualcuno a rappare in un tuo disco ti affidi alla sua sensibilità, è un gioco 50-50, non riuscirei mai ad influenzare qualcuno per questo ragione. È una cosa che ho imparato collaborando con i musicisti strumentisti. Quando chiami qualcuno a suonare uno strumento per te sai come suona, sai che linguaggio usa e, soprattutto, significa che ti piace. Non puoi dirgli di suonare come se non fosse lui. Questo vale anche per i rapper.

Deda, Neffa, Fabri Fibra - Universo

Torni al rap dopo due decenni, come la stai vivendo? Hai fatto pace con quel passato?
Sono passati 22 anni da quando ho smesso di fare rap. Il rapporto con il mio passato ha subito mille variazioni in questi anni. Per me è gratificante che ancora oggi quel mio passato abbia una certa importanza, ma sono anche molto contento quando questa cosa viene scardinata. Da quei tempi sono passate tre generazioni, è parte del passato. Su quel periodo abbiamo raccontato tutto. Penso che ora il modo più sano di celebrarlo sia rendere quel racconto disponibile così che chi abbia voglia e interesse possa andare a cercarselo. Basta con sta storia del nome imprescindibile che devi assolutamente conoscere. Anche basta.

Ad inizio Duemila però c’è stato un momento dove nessuno di voi voleva più parlare di quei giorni. Dopo il tuo addio, e quello di Neffa, Fritz Da Cat, Fede, per dirne alcuni, era calato un silenzio abbastanza pesante e vistoso, come se ci fosse stata una ferita aperta che aveva bisogno di tempo per guarire e rimarginarsi.
La fase di cui parli, dal 2000 al 2003/2004, prima del ritorno di nomi come Dogo e Fibra, ha coinciso con un momento un po’ particolare dove le energie si erano esaurite in molti di noi. E che molti di noi abbiano smesso in quel periodo non è una coincidenza. Io racconto sempre che a me interessava esplorare altri mondi, assecondare le mie curiosità, – che è vero – ma è anche vero che in quel momento qualcosa è andato storto. Le aspettative, solo qualche anno prima, erano altissime, ma in poco tempo tutto si è sgonfiato. Alle serate veniva poca gente, i dischi vendevano relativamente poco. Probabilmente era solo una fase fisiologica di una scena che aveva bisogno di prendere le distanze da ciò che era successo per rinascere più potente e più gloriosa di prima. Nel mentre sono successe delle cose culturali importantissime, come ad esempio 8 Mile, il film con Eminem. Quello ha cambiato le carte in tavola.

Quest’estate ho stilato una lista di dieci dischi fondamentali del rap italiano anni ’90 e tu apparivi in quattro di questi (SxM dei Sangue Misto, Neffa & i messaggeri della dopa di Neffa, 950 di Fritz Da Cat e Melma & Merda di Melma & Merda). Nonostante quel vostro distacco, alcuni di quei dischi sono diventati comunque delle pietre miliari della musica italiana. E ora stanno trovando nuova vita negli ascolti delle generazioni più giovani. Che rapporto hai con quei dischi oggi?
Sono felice che ora quei dischi possano venir valutati in maniera differente dalle nuove generazioni. Mi capita spesso che ragazzini under-20 mi dicano che sono cresciuti con quegli album. Che dire, fa piacere. Se è un’attitudine spontanea, è bello che li stiano scoprendo. Se invece è una questione di costrizione, un obbligo da maestri, lo trovo pesante. Sai, quelli che ti dicono ‘devi ascoltare per forza quel disco se no non sai nulla’. Così non funziona. Il bello della musica è trovare ciò che ti risuona, che ti emoziona e ti fa vibrare. Non ciò che devi ascoltare come obbligo esterno.

Che quei dischi siano recuperati e ascoltati dalle nuove generazioni significa che hanno – al loro interno – qualcosa che suona fresco ancora oggi. Quale pensi sia il motivo per cui quel suono è ancora qualcosa di interessante?
In quegli anni eravamo alle prime armi e con le orecchie tese ad ascoltare cosa arrivava dagli Stati Uniti. Il rap era una musica con una componente underground molto forte, creata da poche persone in piccole stanze con certi metodi inventati, spontanei, capaci di creare un suono che ha influenzato la musica a venire. Era originalità e rottura, il risultato di una o due persone con un pensiero futurista capaci di passare dagli scantinati al pop mainstream.

E riportando questo discorso a noi, cosa pensi sia rimasto del rap italiano degli anni ’90?
Il rap italiano – e non è un problema ammetterlo – è un derivato di un’altra cultura. Ma ci sono stati momenti in cui il bagaglio culturale italiano è stato capace di fuoriuscire. A questo punto mi tiro la zappa sui piedi da solo e ritorno a parlare di SxM: quello è un disco che, per quanto in testa nostra avrebbe dovuto suonare come l’hip hop americano che ascoltavamo, risentito adesso è pieno di influenze che arrivavano dai nostri ascolti legati alla psichedelia, al rock, a cose molte differenti dai riferimenti dell’hip hop americano dei tempi. Sono le cose capaci di uscire da certi canoni a lasciare un’eredità.

Una componente fondamentale della tua storia è legata al rap politico e politicizzato. Questa caratteristica è sicuramente andata a perdersi negli anni, in parte a causa di uno scollamento tra le nuove generazioni e le tematiche sociali, in parte per un bisogno – forse di reazione alle crisi globali – di alleggerire la tensione. Che opinione hai a riguardo?
La musica è uno specchio di cosa succede nella società. Oro probabilmente c’è bisogno di altro, di leggerezza forse, e di certo non è colpa del rap. Sarà questo a risuonare negli artisti di oggi. Il rap è un genere molto sfaccettato, da sempre, e penso che ora in Italia ce ne sia davvero per tutti i gusti. Se le nuove generazione si spingono in territori che possiamo definire più leggeri è perché forse non hanno quell’aggancio sociale che avevano noi. E certamente ha anche a che fare con i tempi e con le dinamiche che coinvolgono i ragazzini ai giorni d’oggi. Non mi spaventa, non mi sento di giudicarlo; penso sia qualcosa di fisiologico all’interno del genere, magari tra cinque anni cambierà di nuovo tutto.

Continuerai a fare dischi a nome Deda o questa è stata una parentesi?
Credo che continuerò, ma portando avanti anche i miei altri progetti.

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