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Darryl Jones: «Se non c’è caos non sono i Rolling Stones»

Il bassista racconta la sua avventura con Mick e Keith in giro per il mondo: il provino per sostituire Bill Wyman, l'organizzazione dietro la band, quel che rende speciale la musica del gruppo, «le manette dorate», il futuro degli Stones e la volta in cui lo spirito di Charlie Watts gli ha fatto visita

Foto: Kevin Mazur/WireImage/Getty Images

Darryl Jones suona il basso coi Rolling Stones dal 1993. Ha passato nella band tanti anni quanti il bassista originale Bill Wyman, ma non è mai diventato un membro effettivo del gruppo. «Non sono nei Rolling Stones, ma suono coi Rolling Stones», dice in collegamento Zoom da casa sua, a Los Angeles. «E il mio commercialista mi conferma che, senza albun dubbio, non sono uno degli Stones».

Commercialista a parte, per Jones è la realizzazione di un sogno coltivato fin da giovanissimo. «Gli altri ragazzini volevano essere Michael Jackson, io desideravo suonare con Michael Jackson. Ho sempre voluto suonare coi migliori».

I fan degli Stones riconoscono l’importanza del contributo di Jones, sia sul palco che in studio, ma il grande pubblico sa poco di lui o del suo lavoro con altri nomi leggendari come Miles Davs, Madonna, Sting, Peter Gabriel. Ora le cose stanno per cambiare grazie all’uscita del documentario Darryl Jones: In the Blood. Diretto da Eric Hamburg, racconta la storia della sua vita e contiene interviste a Mick Jagger, Keith Richards e Charlie Watts.  

«È decisamente elettrizzante», dice Jones. «Ed è anche bizzarro, perché non sono abituato a vedermi e a sentirmi parlare. Ovviamente come tutti i musicisti sono dotato di una buona dose di narcisismo, ma non al punto da farmi amare il suono della mia voce».

Eri un fan degli Stones da ragazzino?
Non particolarmente. Le radio di musica nera che ascoltavo a 4, 5 anni coi miei passavano Satisfaction, ma la canzone che mi ha fatto drizzare le antenne è stata Angie. Facevo le elementari quand’è esplosa. Però gli Stones sono entrati veramente nel mio radar grazie a una donna con cui uscivo in Italia. Adorava Steel Wheels e quand’ero con lei me lo faceva ascoltare di continuo. Lei pensava fosse grandioso, io all’inizio lo trovavo ok. Ma più lo ascoltavo e più mi dicevo che, per com’era il mio modo di suonare, avrei potuto lavorare con loro. Parlo di parecchio tempo prima che Bill Wyman lasciasse il gruppo. Era il 1989.

Cos’aveva di unico il modo di suonare di Bill nei vecchi dischi?
Non suonava come i bassisti che avevo ascoltato crescendo, parlo di gente come James Jamerson. Ha un background diverso dal mio. C’è una certa eccentricità nelle sue parti. Ascolta come integra in Miss You l’elemento disco. La maniera in cui fa quel su e giù nel pezzo è incredibile.

Come hai saputo che cercavano un bassista?
Tramite il mio amico Sandy Torano. Viene dal giro di quelli che poi hanno messo in piedi l’Average White Band, ha fatto parte di un gruppo che si chiamava Niteflyte. Adesso sta a Chicago, si occupa di jingle con la sua ditta e in molti suono io. Comunque, avevo conosciuto Mick durante la lavorazione di Bring on the Night (il doppio live di Sting del 1986, ndt). Keith invece l’ho incontrato tramite i miei amici Charley Drayton e Steve Jordan, quando mi sono trasferito a New York per suonare con Miles Davis: loro mi hanno presentato Keith più o meno nel periodo in cui stavano iniziando le prove per Talk Is Cheap (il debutto solista di Richards del 1988, ndt). Charley e Steve erano al basso e alla batteria. A volte il basso lo suonava Ian Neville. A un certo punto Charley ha lasciato la band e io speravo di iniziare a suonare con Keith: sarà stato il 1989 o il 1990. Volevo davvero fare quel tipo di musica e quando ho ascoltato Talk Is Cheap mi sono detto: «Se questo è il rock’n’roll, allora voglio suonarlo con questi tizi». Ma non è andata bene e il posto l’ha ottenuto un altro amico, Jerome [Smith].

Poi, un paio d’anni dopo, Sandy mi ha telefonato: «Amico, Bill Wyman se ne va dagli Stones». Sono rimasto in silenzio. Mi fa: «Vuoi che ti trovi il numero del manager di Mick? Ti va di chiamarlo?». Alla fine ho parlato con qualcuno negli uffici di Mick: «Ho saputo che forse farete delle audizioni per un bassista. Nel caso ci fosse una lista di candidati, mi piacerebbe farne parte». Più avanti ho saputo che, siccome avevo già conosciuto Mick, probabilmente già facevo parte dell’elenco. E il nostro stage manager non molto tempo fa me l’ha confermato.

Cosa ricordi dell’audizione? Che pezzi hai suonato?
Ho iniziato a suonare la linea di Licking Stick di James Brown e non mi aspettavo che loro mi seguissero, invece Charlie ha cominciato a venirmi dietro. Poi abbiamo fatto Brown Sugar, Miss You, Honky Tonk Women e credo una decina dei loro pezzi più noti. È successo a New York, all’epoca vivevo a Los Angeles con Kenny Kirkland, mi hanno pagato loro il biglietto aereo. Dopo l’audizione mi sono detto: a me è parso bellissimo, se anche loro lo pensano si faranno risentire.

Qualche mese dopo si sono effettivamente rifatti vivi. Erano stati via a scrivere la musica di Voodoo Lounge: «Vogliamo che tu venga a casa di Ronnie, in Irlanda, per suonare un po’ con noi», m’hanno detto. Ci sono andato e mi hanno chiesto di tornarci, dopo qualche settimana, per incidere Voodoo Lounge.

Hai capito di esserti conquistato il posto durante le session di Voodoo Lounge oppure era ancora una situazione provvisoria?
L’idea era che registrando con loro dovevo dare il massimo per convincerli a portarmi in tour. Abbiamo inciso dal 4 novembre fino alla seconda settimana di dicembre del 1993. Poi a gennaio loro sono venuti a Los Angeles per registrare altra roba e mi hanno chiamato per passare un po’ di tempo assieme. In studio ho incontrato Keith: «Amico, hai incrociato Charlie? Mi ha chiesto se ti avremmo portato in tour e io gli ho detto: “Ma certo che lo prendiamo”. E Charlie: “Non credi che dovremmo comunicarglielo?”. E insomma, te lo dico ora io: vogliamo che tu venga on the road con noi». È così che ho saputo che sarei andato in tour.

Dev’essere stato pazzesco. E loro non suonavano con un bassista che non fosse Wyman dal 1962.
Esattamente. Era il mio sogno: suonare il basso coi più grandi. Quando ho ottenuto il lavoro con gli Stones ho pensato a quelli con cui avevo già suonato, Miles Davis, Sting, Peter Gabriel, Madonna, Herbie Hancock e un sacco d’altri. Mi sono detto: sto davvero facendo ciò che sognavo.

Il tuo primo concerto con loro è stato a Toronto, in un piccolo club.
Sì, l’RPM.

Com’è stato?
Bellissimo. Il volume era alto: non avevo mai suonato con qualcuno che teneva quel volume… ed eravamo in un club! Comunque avevamo provato molto, circa nove settimane, anche perché nessuno di loro aveva risuonato quei pezzi dall’uscita di Steel Wheels, parliamo di quasi quattro anni prima.

Il concerto seguente è stato all’RFK Stadium, dev’essere stato impressionante.
Lì ci avevo già suonato con Sting e Madonna, per cui non ero nuovo a concerti enormi come quello, ma a essere memorabili sono stati i fan. Mi era già capitato di suonare di fronte a fan accaniti di altri artisti, ma quelli degli Stones sembravano i più infervorati. E la penso ancora così. Tante band hanno fan fedeli, ma la gente prende davvero sul serio gli Stones. Con loro è diverso.

E così ti sei trovato, improvvisamente, in questo mondo fatto di hotel a cinque stelle, jet privati e scorte della polizia.
Ne avevo già avuto un assaggio con Sting e Madonna. Ti racconterò una delle cose che più mi hanno colpito durante le prove con gli Stones. Ho chiesto dell’acqua al mio roadie e lui mi ha passato un bicchiere. In quel momento la band ha chiamato un pezzo da provare. Ho appoggiato il bicchiere per terra, mi sono girato e abbiamo suonato per un’altra trentina di minuti. Quando mi sono voltato nuovamente, il falegname del tour mi aveva costruito una mensola da attaccare al mio amplificatore, dove potevo appoggiare quattro bicchieti. E l’aveva pure dipinta di nero in tinta con l’ampli. Stupefacente. Questo è il livello del gioco di squadra che c’è quando mettono in piedi i loro spettacoli. Qui si gioca in un campionato diverso, ho pensato. Voglio dire, hanno un tipo che ti costruisce una mensola per i drink in 20 minuti.

Sono sicuro che tante persone ti hanno chiesto dei biglietti oppure di incontrare Mick o di venire nel backstage.
Ho comprato tanti biglietti per amici che altrimenti non sarebbero riusciti a venire a vederci. A volte mi capitava di uscire con dei vecchi amici di scuola e Keith mi telefonava: «Andiamo a cena nel tal posto». E io: «Sono con degli amici». E lui: «Portali». Una volta mi sono portato a cena un amico che suonava il corno nell’orchestra della scuola: si è seduto e ha parlato con Mick. La volta seguente che siamo passati in città, Charlie e Mick mi hanno chiesto: «Ci sarà anche Gavin?». Hanno sempre trattato benissimo i miei amici. È bellissimo.

Hanno mai messo in chiaro che, anche se suoni il basso, non sei un membro effettivo?
Non parlano mai di cos che riguardano l’organizzazione. Comunque non è che mi vengono a prendere in hotel con la limousine, salgo sul van con gli altri della band che si portano dietro in tour. Ma come ho detto a Keith una sera: «Quando sono sul palco con voi, suono come se fossi uno degli Stones. Non saprei fare diversamente».

Ho parlato con Bernard Fowler qualche mese fa. Mi ha detto che quando entri nella touring band degli Stones paradossalmente non ti chiama più nessuno, perché tutti danno per scontato che costi troppo. A te è capitato?
Sì, tutti iniziano a pensare che le tue tariffe sono altissime. Gli Stones non hanno fatto tour dal 2007 al 2012; ricordo che nel 2009 sono andato a una session e qualcuno mi ha detto: «Amico, hai finito il tour?». E io: «Guarda che non mi muovo da due anni». La gente crede che, anche se non si sente parlare di un tour americano degli Stones, loro saranno di sicuro dall’altra parte del mondo a suonare. Si convincono che sei occupatissimo e non ti chiamano. C’è un nome per questa situazione, golden handcuffs, le manette d’oro: hai un lavoro d’altissimo profilo che però rischia di cancellarti dalla scena. Ti ci abitui e finisci per fare molte meno cose, ma ho imparato a trovare un equilibrio. Quando sono a casa non me ne sto lì ad aspettare, continuo a fare cose, studio. Ho anche provato a tornare a recitare. Mi cimento in altre cose, visto che con la musica c’è poco spazio.

Però deve essere meno faticoso, ora che l’era dei tour da 18 mesi è finita. Ormai gli Stones fanno una quindicina di concerti all’anno.
Sì, ma a me piacerebbe fare un altro di quei tour lunghissimi. Una volta abbiamo suonato per 22 mesi.

Parliamo di Charlie Watts. Devi avere stretto con lui un bel legame musicale e umano in tanti anni passati a suonare insieme.
Assolutamente sì. Quando ho cominciato a suonare con Charlie lo sentivo fare certe cose e pensavo: «Ok, adesso farà quella rullata, ma non finirà precisa, è un po’ in anticipo. Ci penso io». E quindi cercavo di aggiustare la parte di basso, ma finivo per sbagliare quando lui rientrava. Così ho imparato la lezione: «Non provare ad aggiustare niente».

Ho imparato che nel rock’n’roll c’è una certa qual irriverenza. E in questa band, in particolare, c’è sempre un pizzico di caos nella mescola. E non te ne rendi conto finché non ascolti dei bravi musicisti a un matrimonio. Davvero, mettiamo che un amico si debba sposare, ovviamente al rinfresco ci saranno dei bravi musicisti che suonano. Quando fanno un pezzo degli Stones senti che qualcosa non va. È perché deve esserci un pizzico di caos. Bisogna sempre avere un po’ l’impressione di dover far entrare un paletto quadrato in un foro rotondo. Dopo tanti anni che suonano certi brani, agli Stones viene naturale e non diventa mai routine. Come dice Bernard: «Possiamo provare i pezzi in un certo modo, ma poi sul palco non importa più, suoniamo e basta». È il sound degli Stones. Keith Richards non suona mai lo stesso pezzo uguale per due volte.

Hai fatti tanti grandi concerti negli anni, ma scommetto che una serata come quella a Cuba nel 2016 rimane come una cosa speciale.

Sì. Ricordo che quella sera me ne stavo sul palco e sentivo un’ondata di gratitudine per il fatto di essere lì a suonare questa musica, con loro, davanti a quel pubblico. È stato decisamente speciale. Uno di quei momenti in cui mi sono detto: «Niente male per un poveraccio che viene dal ghetto».

Nel 2012 gli Stones hanno avuto Bill Wyman come special guest.
Abbiamo suonato a Londra e lui ha fatto un paio di pezzi.

Com’è stato parlargli e passare del tempo con lui?
Divertente. Lui è un grande, come tutti loro del resto. Mi spiace non avere avuto la possibilità di conoscerlo meglio. Ma è una brava persona e con me è stato gentilissimo.

Bernard e Steve mi hanno raccontato delle prove effettuate quando Charlie stava male e poi del momento in cui hanno saputo che era morto. Non posso neppure immaginare come sia stato brutto.
Credo che peggio di così sarebbe stato solo se non avessimo avuto un tour da fare, se non ci fossimo tenuti occupati. La musica è davvero un rifugio per i musicisti: anche se attorno a te succedono le cose peggiori, hai ancora la chance di salire sul palco e non pensarci. Poi capita di voltarti e realizzare che Charlie non c’è. È straziante, ma devi andare vanti, c’è della musica che va suonata.

La tristezza per la sua perdita si è manifestata in modi strani. Quest’anno ero a Madrid, era il secondo tour che facevamo dopo la sua morte ed era il giorno del suo compleanno. Mi sono messo lì a scrivere. Non ero sicuro di voler postare quella roba, ma ho iniziato a scrivere cose su di lui e mi sono intristito. Sono scoppiato a piangere. Non ero certo di postare quelle parole e le ho fatte leggere a Tony Russell, l’assistente di Keith. Gli ho chiesto: «Credi che Charlie avrebbe da obiettare se lo postassi?». E lui: «Darryl, qui non c’è nulla che non piacerebbe a Charlie». Alla fine ho fatto il post e Tony in seguito mi ha detto che, quand’eravamo a Madrid, ero nella stanza destinata a Charlie. Ecco da dove veniva quell’ondata di emozioni. Lui mi ha fatto visita.

Conosci Steve Jordan da decenni, immagino vi siate subito trovati bene a suonare asssieme.
Chiaro. E le cose continuano a migliorare. Steve ci lavora tantissimo: ascolta con grande attenzione, molto più di quanto non faccia io. A volte arriva e dice: «Senti questo e dimmi che ne pensi». Facciamo aggiustamenti di continuo. Di norma non leggo le recensioni. Però mi piace quando le persone mi dicono tipo che «le recensioni di Londra erano ottime». Non ho bisogno di sapere altro. Ma, da quello che ho sentito dire, pare che i critici non si aspettassero che il tour del 60° anniversario andasse così.

Vedendo Mick sul palco mi chiedo come può essere umanamente possibile. Come fa un uomo della sua età a cantare così e a ballare per due ore?
Lui è davvero fantastico. Una volta mi ha detto: «Mio padre insegnava educazione fisica. Quando rientravo da scuola non mi domandava mai cosa avevamo fatto in classe. Mi chiedeva sempre: “Hai corso oggi? Hai camminato?”». Molte persone dimenticano gli insegnamenti dei genitori, ma se siamo saggi di solito li recuperiamo. Lui l’ha fatto. Gli piace far festa come a chiunque, ma si prende cura di sé.

Speri di fare altre date il prossimo anno?
Lo spero, amico. E mi pare che anche il pubblico sia della stessa idea. Quando, dopo uno show, ci facciamo un giro o andiamo in hotel, incontriamo i fan più accaniti e loro non sembrano per niente pronti a mollare. Credo che le cose andranno avanti.

Quando penso a Mick e Keith, non vedo una sola ragione per cui non possano continuare a fare concerti anche a 80 anni e passa di età.

È quel che fanno i bluesman. Suonano finché non ce la fanno più. E loro due non hanno alcun motivo per fermarsi.

E tu sarai al loro fianco fino all’ultimo, immagino.
Sì, vorrei arrivare fino in fondo.

Tradotto da Rolling Stone US.

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