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Dargen D’Amico è la variabile impazzita di Sanremo 2022

O meglio, è quel che ci auguriamo noi, che un po’ tifiamo per questo cantautorapper anomalo, dalla vena ironica e surreale che all’Ariston porta ‘Dove si balla’. «È un autoscatto del periodo che viviamo»

Foto press

Per la serie “uso privatistico del mezzo”: Dargen D’Amico è il capitano della mia squadra del Fantasanremo, di cui vi parleremo più diffusamente in altra sede. Nei minuti che hanno preceduto l’accensione del registratore per questa intervista ho cercato inutilmente di convincerlo a denudarsi sul palco (+10 punti se l’artista si esibisce indossando solo indumenti intimi), nonché di invitarlo a rinunciare ai suoi iconici occhiali da sole (-5 se l’artista si esibisce indossandoli, -10 se indossa anche un cappello). Pare che io non sia l’unica, tra l’altro, perché intorno a lui un sacco di gente lo ha scelto come il Francesco Totti di questa fantacompetizione. «Più Totti per tutti!», esclama a metà del mio discorsetto motivatore cercando di sdrammatizzare, visto che i miei tentativi di corruzione e persuasione sono vani, così come quelli di tutti gli altri.

D’altra parte, se c’è qualcuno capace di accettare con enigmatico ma sinceramente incuriosito aplomb le scommesse di noialtri esaltati, quello è proprio Dargen. Rapper dall’ironia folgorante e dalla vena surreale ipertrofica, è una delle penne più brillanti e argute che l’Italia abbia mai ricevuto in dote, ragion per cui la notizia della sua partecipazione al Festival è una signora notizia, anche per chi non segue né lui né il Festival. Già l’anno scorso ci aveva dato un assaggio delle sue velleità sanremesi, co-firmando i brani di Fedez e Francesca Michielin (Chiamami per nome) e Annalisa (Dieci). Quest’anno, del tutto a sorpresa anche per il diretto interessato, è in gara con Dove si balla, ed è una di quelle prime volte che non ci scorderemo. Vuoi anche solo per il cortocircuito comunicativo che rischia di provocare.

A proposito di questo: domenica sera, a Che tempo che fa, c’è stata una piccola diatriba che ha coinvolto Fabio Fazio e Michele Serra circa la pronuncia del tuo nome. In un siparietto comico sui “bizzarri” nomi dei partecipanti di quest’anno, sono riusciti a sbagliarlo due volte su due, prima dicendo “Darghen” e poi “Dargèn”. Vogliamo agevolare i giornalisti un po’ meno sul pezzo con un tutorial?
Per quel che so io, Dargen è un’abbreviazione di “D’argento”, perciò lo pronuncerei “Dàrgen”, anche se non mi capita spesso di farlo in prima persona. Ma va bene anche con la G dura, un po’ sassone, o con l’accento sulla e finale, alla francese. Lasciamo spazio alle varie interpretazioni.

Tornando al motivo per cui siamo qui: che ci fai a Sanremo? Tutti ce lo chiediamo e ci diamo una risposta diversa…
Tu che idea ti sei fatta?

Mi sono chiesta perché tu non l’avessi fatto prima. E mi sono detta che forse, in questi tristi tempi post pandemici, avevi voglia di darci un motivo in più per guardare a Sanremo e al futuro con entusiasmo e fiducia.
Sul perché non l’ho fatto prima, in realtà ci avevo già provato, qualche anno fa, ma i miei pezzi, nello specifico Il ritornello e Modigliani, non erano stati selezionati. Forse non era il momento giusto o il brano giusto, o forse erano tempi diversi e la musica italiana era ancora votata alla tradizione, ma credo che tutto avvenga a tempo debito. Negli ultimi tempi avevo messo in pausa il mio progetto – perché di fatto da un lato c’è la vita vera, dall’altro il progetto discografico – perché si era rotto quell’equilibrio tra musica in studio e musica live che avevo trovato negli ultimi dieci anni. Con il Covid, era impossibile fare un disco per poi suonarlo in giro. Avevo bisogno di rimettermi alla prova, di dimostrare a me stesso che ero disposto a dare ancora uno spazio al progetto Dargen. Aspettavo un’occasione forte, ed è capitato questo.

Hai sempre seguito il Festival, quindi?
Lo seguivo da giovanissimo, poi ho smesso – diciamo dal periodo delle Sacre Scuole in poi – e ho ricominciato di nuovo negli ultimi quattro anni. Lo guardo con grande curiosità, perché è sempre stato un termometro della situazione musicale e culturale in Italia.

L’annuncio dei cantanti in gara in diretta al TG1 è stato una sorpresa anche per voi concorrenti, perché non vi avevano avvertito prima. Tu dov’eri quando l’hai saputo?
Ero su un volo con Gianluigi Fazio, che è co-compositore di Dove si balla. Eravamo seduti lontanissimi, però, lui in prima fila e io nell’ultima. Quando siamo atterrati abbiamo acceso il telefono ed entrambi siamo stati travolti da una valanga di messaggi di amici. Ciascuno dei due ha cercato di comunicare all’altro la lieta novella, ma tra di noi c’erano tutti gli altri passeggeri che si alzavano e si accalcavano per scendere dall’aereo. Una bellissima metafora, direi.

Come descriveresti la tua canzone a chi non l’ha ancora sentita?
Parla della necessità di movimento dell’essere umano. Necessità di spostarsi da un posto all’altro, da un rapporto all’altro, e continuare con un’esplorazione che da una parte porta alla scienza e dall’altra all’amore. È una sorta di autoscatto del periodo che io e i miei simili viviamo in Italia, ma esprime anche l’amore per la musica italiana, che ho tanto amato e tanto bistrattato.

Un collega giornalista mi ha raccontato così la tua canzone: “è la nuova ‘vecchia che balla’”, con riferimento a Una vita in vacanza de Lo Stato Sociale. Condividi?
Beh, prima di rispondere farei fare una perizia, poi con l’avvallo degli esperti possiamo metterci a chiacchierare anche noi… Però il fatto che entrambi i brani contengano un invito a ballare, un invito educato ma forte, sicuramente richiama suggestioni.

Sono previste call-to-action dell’orchestra o del pubblico, o entità terze che interagiranno sul palco con te?
Questo non lo so: io cercherò semplicemente di smuovere le energie di quel teatro, vedremo cosa succederà.

Al momento prevale più l’emozione positiva o il terror panico che coglie molti artisti al cospetto del palco dell’Ariston?
Credo che in un’annata come questa, panico e timori siano riservati ad altro: in questi due mesi è stato veramente difficile non prendere il Covid, abbiamo tutti cercato di isolarci completamente, e questa assenza di rapporti al di fuori del mondo discografico ha sicuramente influito su di noi, ben più dell’ansia da prestazione.

Come hai vissuto questo lunghissimo stop ai live?
Tutti quelli come me, che hanno progetti piccoli o medio-piccoli, l’hanno vissuta male. Siamo una maggioranza silenziosa, chiaramente, ma se sei nelle nostre condizioni va a finire che devi trovarti anche un altro lavoro, bloccare i concerti ha un impatto notevole sulla tua vita.

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Tornando a Sanremo, nel 2021 sei stato co-autore di due dei brani in gara.
Quando scrivo per altri, devo trovare un minimo comune emotivo sindacale per operare conto terzi; quando invece scrivo per me, devo scavare dentro me stesso e capire quali sono i confini entro cui opera la mia linea. Il cervello lavora in maniera diversa a seconda del caso, insomma. Forse è la stessa differenza che intercorre tra partecipare a Sanremo come autore o partecipare in prima persona.

Hai ricevuto dei consigli da Fedez e Annalisa?
Guarda, non mi sento di accettare dei consigli da Federico su questo argomento. Anche lui è uno che soffre molto la pressione. Annalisa, dal canto suo, ha fin troppa esperienza: in confronto a lei sono un neofita totale, i suoi consigli sono di un altro livello.

Si parla spesso del fatto che, per un rapper, scrivere per altri (o rappare qualcosa che un altro ha scritto per te) sia una faccenda inconsueta. Tu come la vedi?
Non trovo sia inconsueta, anche se l’ho sentito dire. È un genere musicale che in Italia abbiamo copiato paro paro dall’America, dove la possibilità di collaborare con ghostwriter o autori è cosa molto comune, da sempre. Certo, anche lì ci sono state delle polemiche, soprattutto all’inizio, ma poi si sono sopite. Credo che la stessa cosa accadrà anche da noi, visto che siamo un po’ indietro rispetto alla timeline. Le varie pagine di Instagram dedicate al rap italiano ne parlano solo per il gossip, non c’è nessun tipo di analisi. Anche dalle riviste musicali specializzate spesso è visto come un fenomeno di costume. All’estero, invece, i media indagano anche sul contesto e approfondiscono. Pensateci voi! Fatelo! È la vostra missione!

Ti consideri ancora un rapper? Uno dei grandi dilemmi degli autori di Sanremo (inteso come programma televisivo) sarà trovare un modo per definirti…
Non so come verrò presentato. Riagganciandomi a questo discorso dell’hip hop americano, che è sempre stato il mio l’unico riferimento per questo tipo di musica, mi sono sempre sentito molto più indietro e molto più in basso rispetto agli USA. Quindi sì rapper, ma mi sembrava sempre di fare un tentativo personale della musica che avevo ascoltato, di cui mi sono innamorato a 12-13 anni. Tutto ciò per dire che la definizione di un ruolo ormai mi interessa relativamente, soprattutto all’interno della forbice della musica italiana, ma che l’etichetta “rapper” mi va benissimo.

Siamo sempre più genderless anche dal punto di vista musicale, con buona pace del senatore Pillon.
Man mano che la velocità delle informazioni aumenta, tendono a cadere anche le classificazioni.

Hai creato una piccola playlist per i media generalisti che ancora non ti conoscono: contiene brani che spaziano in tutta la tua produzione, da Odio volare a Monte. Con che criterio li hai scelti?
Non li ho scelti io, mi sono fidato del criterio di persone che conoscono molto bene la mia musica. Alcuni brani magari non mi fanno neppure impazzire, col senno di poi, ma penso sia corretto dare la possibilità a persone che ancora non mi conoscono di farsi un’idea di ciò che ho fatto prima. Quando vai a Sanremo vige il diritto di cronaca, e soprattutto si devono fornire molte informazioni. Ad esempio ho dovuto dichiarare che non ho lontani parenti impiegati in Rai. Che poi, che ne so? Mi è toccato fare un giro di telefonate con la mia famiglia allargata: «Ma siamo sicuri che nessuno lavora per la Rai? Per favore, tu chiama il ramo di zio Marcello, io mi occupo di zia Ottavia…». Con tutto il rispetto per l’istituzione sanremese, mi pare una procedura un tantino complicata.

Spesso capita che chi va al Festival si prefigga un obbiettivo: arrivare primo, arrivare ultimo, salire sul podio, vincere il premio della critica… Qual è il tuo?
Arrivare alla fine senza aver preso il Covid. Mi sto già isolando allo scopo: sono già a Sanremo nel mio eremo, ma per fortuna casa mia ha un giardinetto e abbiamo perfino un camino per le sere invernali. Mi sento proprio bene, si respira un’aria diversa.

Mi raccomando. Soprattutto per il Fantasanremo.
Ora mi studio bene il regolamento, promesso.

Una cosa puoi farla fin da subito: dire la parola “Fantasanremo” in quest’intervista. Sono
+10 punti.
E se lo ripetessi più volte, sono +10 punti a ogni menzione?

Proviamo!
Fantasanremo. Fantasanremo. Fantasanremo! Fantasanremo!!!

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