Dardust: «'Storm And Drugs' è la mia 'Born Slippy' neo classica» | Rolling Stone Italia
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Dardust: «’Storm And Drugs’ è la mia ‘Born Slippy’ neo classica»

Dario Faini ha scritto il nuovo album dopo un terremoto, reale ed emotivo, ispirandosi a ‘Trainspotting’ e a 'I dolori del giovane Werther'. «La musica è catartica. Ti aiuta ad affrontare la vita e ti fa vivere momenti di estasi»

Dardust: «’Storm And Drugs’ è la mia ‘Born Slippy’ neo classica»

Dario Faini, in arte Dardust

Foto: Alessio Panichi

Lo conosciamo per le collaborazioni come autore e produttore con alcuni importanti esponenti del pop e del rap italiano, da Jovanotti a Tommaso Paradiso, da Rkomi a Mahmood, con cui ha scritto l’hit che ha trionfato a Sanremo nel 2019, Soldi. Ma Dario Faini è anche Dardust – questo il nome del suo progetto musicale come pianista e compositore – ed è in queste vesti che venerdì pubblicherà S.A.D. Storm And Drugs, ultimo capitolo di una trilogia avviata nel 2015 con 7, esordio scritto a Berlino, e proseguita nel 2016 con Birth, ispirato all’Islanda. Per questo terzo disco – il primo in uscita sul mercato internazionale per Sony Music Masterworks e Artist First – Dardust ha viaggiato tra Londra ed Edimburgo, dove ha confezionato un album che fonde il pianismo minimalista di Nils Frahm, Ólafur Arnalds e Ludovico Einaudi con atmosfere electro-ambient in cui il mondo di band quali Underworld e Chemical Brothers riecheggia e s’intreccia con rimandi al britannico Jon Hopkins. Il tutto puntando su crescendo emozionali e su un’accentuata componente melodica. «La sfida» dice lui, classe ’76, in tour dal prossimo 30 gennaio «è portare questo tipo di musica strumentale a un pubblico pop più ampio».

Ti ritroveremo a Sanremo come co-autore dei brani di Rancore ed Elodie e produttore per gli Eugenio in Via Di Gioia.
Questa volta non sarò sul palco come direttore d’orchestra, l’ho già fatto con Mahmood, abbiamo vinto, basta. Se tornerò all’Ariston sarà al massimo per un’ospitata nella serata dei duetti.

Ormai hai due carriere, ma Dardust che posto occupa nella tua vita rispetto al Dario Faini autore, arrangiatore e produttore nell’ambito del pop italiano? Fino a qualche tempo fa dicevi che era la tua vera identità.
Devo capire come gestirla, questa cosa, perché Dardust rimane la mia identità creativa a tutto tondo, ma dopo la vittoria di Mahmood a Sanremo hanno iniziato a cercarmi in tanti come produttore, più di prima. Lavorare in quel mondo, del resto, mi ha un po’ influenzato nella composizione di S.A.D. Storm And Drugs: sul singolo Prisma ho lavorato con Stefano Riva, già con MYSS Keta, e l’idea dell’effettistica vocale, che nei precedenti dischi non c’era, si lega a una fascinazione per le voci che ho sviluppato quando mi mi sono avvicinato all’universo urban.

S.A.D. Storm And Drugs è un’opera strumentale, ma questa volta hai introdotto degli inserti vocali. In una traccia, Sturm I (Fear), c’è un momento in cui ti sentiamo quasi rappare. Ti sei divertito?
Mi sono sentito abbastanza ridicolo (ride, nda). Ma va bene così, è stato pure divertente, in effetti, è davvero solo una frase.

Si sentono voci anche in S.A.D. e Storm And Drugs
Lì per le liriche mi ha affiancato il mio insegnante d’inglese John Bernard, che tra l’altro viene dalla Scozia, dov’è nato l’album. La voce campionata come fosse quella di un bambino in Storm And Drugs è la sua, racconta a mo’ di spoken word e con un linguaggio favolistico la mia storia. Dentro c’è la mia adolescenza negli anni ’90 scolpita dall’immaginario di Trainspotting e da tutta la scena elettronica che ho amato a partire dagli Underworld. È la mia Born Slippy neoclassica.

Non a caso hai scritto questo disco nel Regno Unito.
Avevo deciso di farlo a Londra, il primo brano l’ho scritto nel gennaio 2018, ma poi ho cominciato a pensare a un concept e sono arrivato all’idea di un alter ego in cui identificarmi mentre scrivevo. E lì mi sono venuti in mente due personaggi: Mark Renton di Trainspotting e il giovane Werther di Goethe con il movimento culturale da lui rappresentato, lo Sturm und Drang. Quindi il concetto di tempesta e impeto, e quello di sublime, da cui il singolo omonimo.

Come mai quei due riferimenti? 
In quel periodo avevo appena chiuso una relazione, a livello personale stavo vivendo una sorta di tempesta. Simbolicamente era come se stessi dicendo a me stesso: se vuoi superarla hai due possibilità, o ti fai fuori come il giovane Werther (ride, nda) oppure puoi scappare con in tasca il bottino che ti ha lasciato quest’esperienza e diventare una versione migliore di te stesso. Erano anche successe altre cose brutte: a causa del terremoto con epicentro ad Amatrice avevo perso la casa di famiglia, l’abitazione di Piagge, il paese vicino ad Ascoli Piceno dove sono nato, cresciuto, dove ho vissuto fino ai 18 anni e dove tornavo sempre perché ci abitavano i miei genitori. Puoi immaginare…

Quindi hai scritto il disco in un flusso di emozioni, con in testa il Werther di Goethe e il personaggio di Trainspotting interpretato da Ewan McGregor. 
Sì, e se ho iniziato a Londra successivamente sono stato a Edimburgo, principale ambientazione di Trainspotting. A quel punto volevo immergermi davvero nelle atmosfere del film. Non per riprodurle, ma per usarle come fonti d’ispirazione al fine di tracciare un mio mondo. Parlando di Goethe, ho anche pensato alla sua teoria dei colori come frutto dell’incontro tra luce e oscurità, al suo studio del prisma, vedi l’altro singolo che è uscito, Prisma appunto. Mi è sempre piaciuto riprendere il passato e decodificarlo a mio modo.

Infatti l’album s’intitola S.A.D. Storm And Drugs, dove “S.A.D.” sta per “sad”, triste, parola che ti sei anche tatuato sul collo, e per Seasonal Affective Disorder, leggo nella cartella stampa. Puoi spiegare?
Mi piaceva che il titolo rimandasse a qualcosa di visionario, anche di lisergico, perché sin dalla nascita di Dardust il pensiero che ho sempre avuto in testa è stato quello del pianista che dal passato si proietta sul futuro. Poi la tristezza, le droghe… il riferimento è alla dipendenza affettiva dalla quale stavo uscendo e a degli psicofarmaci che ho assunto in quella fase così difficile. C’è anche dell’ironia, naturalmente.

Anche perché parliamo di una fase in cui, se sul fronte sentimentale stavi soffrendo, sul lato professionale ti stava andando bene, no?
Assolutamente, è successo tutto insieme in sostanza. Ma sai, la faccenda del terremoto è stata dura, ho perso un punto di riferimento importante, la casa dove ho trascorso infanzia e adolescenza, e per i miei è stato pesante, da un punto di vista psicologico un trauma. Tant’è che non appena ho potuto gli ho comprato una casa nuova nel centro storico di Ascoli Piceno, un modo per riparare quel che è accaduto.

Si capisce come mai l’album è tendenzialmente malinconico, anche se questa è una tua caratteristica in generale quando da Dario Faini ti trasformi in Dardust. Fa eccezione il nuovo singolo Rückenfigur, più arioso.
Vero, quel pezzo è diverso da quel che avevo fatto finora. Poi nel disco trovi anche momenti un po’ inquietanti, spaventosi, e altri più estatici. Io lo vedo come un album di contrasti. Che è quel che ho sempre cercato nella musica: anche in Islanda, dove è nato il mio primo lavoro, Birth, ero andato per respirare un tipo di natura maestosa che può trasmetterti quiete, sì, ma anche paura. In fondo per me fare musica è un processo catartico, mi aiuta ad affrontare certi aspetti della vita e al tempo stesso mi permette di vivere un momento di estasi mia personale sotto il profilo creativo. 

Nei tuoi pezzi il ruolo della melodia è centrale.
Perché la melodia entra direttamente nello stomaco. Se poniamo la questione in ottica gestaltica – dato che sono laureato in Psicologia è una cosa che dico sempre –, la figura è la melodia e lo sfondo è il mood del pezzo. Nei pianisti minimalisti prevale il mood, mentre per me un brano ha dignità di essere quando c’è una melodia con un carattere forte. 

Parlando del lavoro sui beat ci sento tanto Jon Hopkins, le sue pulsazioni spezzate, irregolari.
Mi piace molto lui, è imprevedibile e si distingue per una cura per il dettaglio in cui mi ritrovo. Questo disco, in particolare, l’ho realizzato prendendomela con calma. Dei tre che ho fatto finora è il più ambizioso; capisco che porti in direzioni diverse, ma volevo mettere dentro tutti i colori che avevo.

Prima dicevi che sei laureato in Psicologia. Dopo aver lavorato come produttore per cantanti e rapper hai compreso com’è l’ego degli artisti?
Eh, che bella domanda, difficile… La verità è che quando un artista viene da me è per avere uno scambio, una visione che possa spostarlo da quanto ha fatto in passato, per cui l’ego viene meno, semmai si cerca un nuovo territorio comune. Forse degli artisti con cui collaboro ho più modo di osservare le fragilità, le insicurezze, le paure. Ne ho visti alcuni combattere una battaglia personale con se stessi, avevano bisogno di una sfida, di nuove traiettorie e prospettive. In tutto ciò io sono un po’ un compagno di viaggio. Poi ognuno è a sé: in Jovanotti, per esempio, quando l’ho affiancato per Nuova era, ho visto tutto tranne che l’ego; ho visto un viaggiatore entusiasta, curioso e persino umile, che mi ha sempre messo alla pari. Ero un suo grande fan, avevo visto tutti i suoi concerti a partire dal ’92, per cui lavorarci assieme è stato incredibile.

Oggi la scena musicale italiana è molto diversa da quella che hai amato da ragazzino, ma anche da quella di dieci anni fa. L’indie come lo si intendeva una volta, ossia come alternativa al mainstream, non esiste più.
Ma meno male che i vari ambienti hanno iniziato a parlare, quello più indie, quello mainstream, quello urban e hip hop… Così si è giunti a un terreno comune. Io mi ci sono trovato in mezzo e penso che se fai le cose con onestà e quando vai sul palco sei preparato puoi anche scrivere Calipso (singolo di Charlie Charles con Dardust e i featuring di Mahmood, Fabri Fibra e Sfera Ebbasta, nda). Però non è che consideri sbagliata l’attitudine che si aveva un tempo, sicuramente c’era dello snobismo ed era quasi un tabù oltrepassare il confine tra un mondo e l’altro, ma non è che fosse un errore vederla così. Semplicemente oggi siamo nell’epoca della contaminazione, anche perché con lo streaming gli stili si sono sempre più incrociati, è tutto più fluido, più liquido, quindi sopravvive chi si apre e collabora, non chi si chiude.

In questo momento da ascoltatore cosa ti piace?
Sto ascoltando un sacco di roba, mi sono affacciato sulla scena urban francese, mi sento cose come MorMor e Weyes Blood. Intanto aspetto il nuovo di Woodkid, oltre che di scoprire qualcosa di davvero nuovo che mi faccia innamorare. Il mio sogno è conoscere Ryūichi Sakamoto e collaborarci, per cui chissà, magari per il prossimo album di Dardust vado in Giappone.

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