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Daniele Silvestri: «Siamo allo sbaraglio, e facciamo il selfie con il morto»

Con ‘Argentovivo’ porterà a Sanremo una generazione di adolescenti disillusi, e il rap di Rancore. «Volevo dare voce ai sentimenti più bui di un sedicenne di oggi, perché in parte li ho conosciuti»

Non si è mai preso sul serio, continua a divertirsi e, soprattutto, a ricercare. Daniele Silvestri è uno di quegli artisti che, prima di tutto, sono esseri umani. Uomini, persone vere, curiose, attente. Silvestri è un vigile osservatore dell’oggi, non si piega alle logiche discografiche, ma le piega al suo volere. Ha raggiunto, ormai, una capacità di scrittura impressionante. Non si è seduto sugli allori, non è che ha capito cosa funziona per vendere dischi e ha seguito quella scia. Lui sperimenta, continuamente, nei suoni e con le parole. Viviseziona i nostri tempi e, con sagacia, ce li sbatte in faccia. Ridiamo di noi, riflettiamo su di noi. Grazie a Silvestri.

Prima della bagarre sanremese, il buon Daniele ha tirato fuori Complimenti ignoranti e Tempi modesti. Due brani che faranno parte di una trilogia di 45 giri tematici che anticipano l’uscita del nuovo album. Il primo è il Dance Pack e inserisce queste due canzoni che prendono di mira (provocatoriamente e) con molta autoironia il mondo e le relazioni nell’era dei social network. Dopo la cinque-giorni al Teatro Ariston dove presenta Argentovivo (che abbiamo già avuto modo di recensire nelle pagelle). Si prepara per i nuovi progetti che prevedono, in autunno, il suo primo tour nei palasport che parte da Roma il prossimo 25 ottobre. Lo abbiamo incontrato prima che inizi il festivalone. E si è confermato il grande cantautore che è: onesto e con una cosa che, negli ultimi tempi, sembra mancare: il talento.

Daniele, partiamo da Complimenti ignoranti. Ci vai giù duro con i social network…
Ci vado un po’ duro, spero con ironia. In realtà è stato facile farlo.

Perché?
Siamo tutti un po’ carnefici e vittime di un gioco che ci è stato dato, ma del quale non conosciamo le istruzioni. È facile trovarci, dentro, una parte delle spiegazioni degli errori culturali che facciamo, ma non è che mi scaglio contro una categoria, perché ne faccio parte anch’io. Cerco di stigmatizzarla in maniera divertita. Poi gioco sul mio stesso ruolo.

Cioè?
Sul mio essere obiettivo di un certo modo di utilizzare i social, i famosi leoni da tastiera. Anche se, in realtà, mi ritengo fortunato da questo punto di vista.

Ah sì?
Rispetto ad altri non ho una vita particolarmente condizionata dagli insulti che posso ricevere. A parte che ne ricevo anche pochi, me ne meriterei di più (ride, ndr). Però c’è un’assurdità e la canzone la tratta in maniera divertita e, spero, autoironica. Mi sono anche molto divertito a parlare male di me, a dirmi che predico bene e razzolo male, no? Che poi alla fine è anche vero quello.

Be’ si può dire che lo facciamo tutti.
Ma sì, vale per tutti. Però mi sono sempre molto divertito ad auto-sputtanarmi. Non è un problema e, allo stesso tempo, racconto quel modo che, in alcuni contesti, come Twitter, ha insegnato un gusto perverso all’utilizzo di quel mezzo, l’insulto gratuito e la ricerca della violenza pura. Poi le parole possono essere estremamente violente. Ed è una cosa più o meno firmata, tanto lì conta poco il fatto di avere un nome.

Come mai?
È talmente gigantesca la cosa, che sì, sei una goccia nel mare, ma in realtà sono tante gocce che scavano molto bene. Ed è facile essere d’impatto e provocare qualcosa. Che sia proselitismo – nel senso peggiore del termine – o azioni che spostano la discussione da un argomento serio e profondo a qualcosa di assolutamente irrilevante, ma che poi si prende tutto lo spazio. Perché l’insulto funziona così, soprattutto quando è gratuito. E quindi mi ci scaglio un po’, perché ne sono parte anche io. Non perché lo faccia anche io, ma perché vivo il mondo attraverso quelle piattaforme lì.

Arriviamo a Tempi modesti. C’è un verso che dice: «Che se va bene a un ministro figurati a me». Non so perché, ma quel ministro mi sembra tanto Salvini.
È evidente che possa venire in mente lui, per primo. Sarei bugiardo se dicessi che non è venuto in mente anche a me, quando l’ho scritta. Però, in realtà, quel pezzo l’ho composto in varie fasi e in vari momenti. Di altri ministri, che potrei inserire nello stesso ruolo, me ne vengono in mente più di uno. Mi basta una funzione più che un cognome. Vederci Salvini è la cosa più facile, perché vive la sua esperienza di Governo – ancora più che politica – passando una percentuale del suo tempo piuttosto alta a fare attività sui social, con un tipo di linguaggio e semplificazione estrema dei messaggi. Lo fa anche bene, dal suo punto di vista. Così come l’ha fatto bene Renzi, anche se l’epoca storica, in termini di comunicazione e tecnologia, vanno a una velocità mostruosa.

E questo cosa comporta?
Che sembra di parlare di preistoria se guardiamo le slide di Renzi. In fondo sono facce di una medaglia simile. I riferimenti sono meno importanti dell’umore più generico della canzone, che vuol raccontare un mondo, forse più dark, più scuro.

Effettivamente dici «E dai facciamoci un selfie col morto al mio tre».
E ho già visto che hanno tirato fuori la foto di Salvini che fa un selfie al funerale. In realtà il punto non è quello. Se mi fossi trovato a discutere di quello avrei detto che è una cazzata, che ci sono cose più gravi di una che chiede il selfie e lui se lo fa. Possiamo discutere sull’opportunità, ma non è quello il punto. Ci sono altre cose su cui si può valutare lo spessore e la qualità del disegno politico e del modus operandi di un ministro, per altro vice Presidente del Consiglio.

Quindi cosa volevi sviscerare con questo pezzo?
Qualche tempo fa è uscita la moda di farsi i selfie più macabri possibile, come la modella che si è fatta la foto col padre appena morto. O i gruppi di ragazzi che si fanno autoscatti negli obitori. Sono estremizzazioni e di questo mi interessa la mancanza di limiti. Se vuoi è un moralismo anche questo. Non abbiamo il confine del rispetto verso l’altro, di educazione nel senso più nobile del termine. Siamo un po’ allo sbaraglio. È un terreno che cerca di darsi delle regole, ma di regole non ne vuole avere.

Spiega un po’, la cosa mi interessa.
Internet è coinciso con un’esplosione di libertà, eppure ci riporta a cose di cui i nostri avi hanno discusso prima di noi. Cos’è la libertà? Qual è il confine tra la libertà personale e quella altrui? In che modo la libertà è qualcosa da guadagnarsi e difendere con la qualità del proprio comportamento, piuttosto che la facoltà di fare qualsiasi cosa.

E che idea ti sei fatto?
Che il web e internet sono un terreno molto importante, forte. Senza che si sia formata una cultura che ci dà gli strumenti. In fondo anche la canzone di Sanremo, in un modo più profondo e drammatico, c’entra con questo.

Ecco, Argentovivo. Com’è nata la volontà di dare voce a questa categoria.
Ci sono due motivi contemporanei molto evidenti. Il primo è che sono genitore di tre figli, di cui due adolescenti, di 15 e 16 anni. Ci sono entrambi, in quella canzone, anche se il brano è iperbolico ed estremo. Nel mio ruolo di padre mi sono trovato in difficoltà e con la sensazione di rapportami con una generazione che vive in un mondo molto diverso da quello dove sono cresciuto io. In quest’epoca il distacco generazionale è più netto. Rispetto ad altri momenti storici, però, è più labile da individuare.

Cioè?
Non è il ’68, dove c’era qualcosa per cui lottare. Qui c’è molta più negazione, autodistruzione, rassegnazione. Ovviamente non c’è solo quello, ma volevo dare voce ai sentimenti più bui di un sedicenne di oggi, perché in parte li ho conosciuti.

L’altro motivo, il secondo?
Qualche mese fa ho chiesto a chi mi segue, su Facebook, parlando dell’album al quale stavo lavorando – lo chiamo ancora album perché so’ anziano – di cosa vorrebbero sentire parlare. Mi sono fatto un mio riassunto. Molti chiedevano un discorso rivolto all’adolescente di oggi o volevano sentir parlare dell’adolescente di oggi. La cosa che ho pensato fosse più forte era quella di entrarci dentro, nel momento più scuro. Guardo in faccia la parte più nera.

È stato difficile guardarla, questa parte più nera?
È più difficile trovare un compromesso che seguire un estremo. Nella canzone non parlo dei miei figli, ma da padre di due adolescenti ho vissuto momenti anche forti. È comunque una crisi genitoriale, in cui sei anche portato a pensare al peggio, perché preoccupato del futuro di chi hai messo al mondo. È stato difficile volerla fare ascoltare e farlo su quel palco, a quel festival. Io, i figli, ce li ho veramente e mi sono chiesto se stessi rubando qualcosa a loro per “commercializzarlo”. Adesso magari esagero, però è talmente intimo e vero, per quanto esagerato, che me lo sono posto il problema. E spero di farlo ascoltare, vivere, per quello che dice. Non per chi c’è dietro, per me stesso che faccio il cantante. Spero sia la canzone stessa, quel piccolo film scuro che è questo brano, a far succedere qualcosa, a facilitare quel confronto generazionale che, per quanto difficile e violento, può produrre e produrrà dei risultati. Speriamo siano di crescita e cambiamento in senso positivo. Ma non c’è dubbio che c’è qualcosa da affrontare.

Ad esempio?
C’è un mondo che è cambiato tantissimo, per certe cose in maniera fighissima, piena di possibilità, ma non abbiamo chiaro quello che facciamo e come lo facciamo, quali sono i confini. In questa canzone ci sono tante cose insieme. C’è l’immagine del bambino lasciato davanti allo schermo, perché fa capire a cosa opporsi, quali regole stabilire. E lo stesso vale per i telefoni che hanno in mano i nostri figli, ma anche noi. Non è per forza meglio, ma loro ci sono nati. Tutto questo è banale, se vuoi, ma spero di dare qualcosa da affrontare, cercando di entrare in una mentalità che non può non essere diversa dalla nostra.

I tuoi figli l’hanno ascoltata?
Sono parchi. Credo gli sia piaciuta, in modi diversi hanno apprezzato, per fortuna.

Negli ultimi pezzi, pure in quello di Sanremo, c’è una svolta rap.
L’album in generale non sarà così, ma i primi pezzi usciti hanno questa cifra. Anche il 45 giri che uscirà dopo il festival avrà, nel lato B, un rap dal titolo Blitz gerontoiatrico, un dissing divertito dal punto di vista di un anziano. Il resto del disco è ciccione e pregno. Si avvale meno di rap, anche se il rap cambia, mi affascina sempre ed era già presente – in modo completamente diverso – nelle Cose in comune. Quel modo di scrivere è affascinante e stimolante, permette di fare un bel lavoro sui testi.

E come sarà questo album, quindi?
Pieno di melodie e con canzoni anche in senso più classico, se vuoi. Oddio, di classico c’è poco.

Perché, tra i tanti rapper che potevi scegliere, hai scelto Rancore per il featuring di Argentovivo?
Rancore mi è stato suggerito da qualcuno sui social. Non sapendo che ci stavo pensando da un po’, perché mi piace molto come scrive. Quando ho finito di scrivere la mia parte di testo di Argentovivo, ho pensato si potesse dire ancora qualcosa, ma avevo bisogno di qualcuno che avesse un altro modo nel farlo. Mi piace molto come dice le cose Rancore.

Come mai?
Malgrado sia un trentenne abituato a fare le battaglie improvvisate del rap, quando scrive è molto più meticoloso, costruito ed ermetico di me, ma allo stesso tempo è pieno di energia. Credo che funzioni. È un racconto che si fa più astratto e regala un sacco di immagini. Come quando parla del suo zaino come della palla al piede di un carcerato. Ci sono tante immagini che saltano agli occhi, ma sicuramente è un modo di scrivere che richiede più ascolti perché tutto arrivi. Mi piace l’evoluzione del racconto.

Ora ho una curiosità: chi ascolti tra le nuove leve.
Partendo da quello che potrei considerare l’anello di congiunzione, tra la mia generazione e le nuove, penso a Willie Peyote che mi piace un casino come scrive. È più sul solco che viene da Frankie (Hi NRG MC, ndr) e passa per Caparezza, di tipo autoriale, ma più antico. Allo stesso tempo è aggiornato. Sono anche fan di Frah Quintale. Il rap lì è una parte, ma amo tutto quello che fa. Mi piace Franco 126, e lì andiamo verso la trap. E poi anche Salmo.

Sei stato subito solidale con Baglioni dopo le dichiarazioni sui migranti. Da quel momento in poi ne sono successe di cose.
Per fortuna l’umanità c’è anche solo per reazione. E comincio a vedere una reazione e degli appelli che si strutturano, con chiamate a raccolta. Un tentativo di opporsi dal tipo di politica, che non è solo proposta dal nostro Governo. Però ne è l’emblema l’atteggiamento con i naviganti in particolare, con la chiusura dei porti. Poi lì la politica c’entra poco.

E cosa c’entra?
Si tratta di concetto di umanità, prima ancora di obiettivi politici, quello con cui ci misuriamo. È una tendenza che c’è già da un po’ di anni, ma c’è un’estrema e pericolosa facilità nel far riesplodere ideologie – anche se a chiamarle così si fa loro un regalo – della negazione dell’altro, dell’affermazione della propria sovranità e del godere della violenza sull’altro, verbale o fisica.

Abbiamo avuto esempi recenti.
Il grappolo di estrema destra che va ad Auschwitz e cerca di entrare, sfondare, non so esattamente con quali obiettivi, durante la giornata della Memoria. Quel giorno ci dovrebbe ricordare il peggio dell’uomo per non ripeterlo. Invece viene voglia, da qualche parte, di cancellarlo perché viene considerato falso o per negarlo. Ed è la cosa più brutta che si possa fare: negare la sofferenza di persone che sono state bruciate nel senso sia metaforico che realistico del termine. E negare l’orrore che c’è stato è un’operazione violenta e ingiusta. Questa cosa sta attecchendo pericolosamente, anche in forme senza un pensiero dietro.

Dove le hai viste?
Tra gli adolescenti vedo che si usa la svastica in maniera molto incosciente, senza sapere a cosa corrisponde. Questo un significato ce l’ha, ed è pericoloso. Non penso che chi la usa a 15 anni, in un messaggetto, sappia realmente quello che sta facendo. Ma è grave non si faccia di tutto perché lo sappia.

Concordo. Ma torniamo alla musica. Sei uno che, qualitativamente, mantiene alto il livello delle sue produzione. E non si ripete mai. Quanto è difficile?
Abbastanza. Negli anni è risultata evidente – dal mio punto di vista – nei testi. Quando ho iniziato a scrivere canzoni, le parole, erano parte integrante del primo impulso. Ora mi viene molto più facile trovare qualcosa da fare, dire e sperimentare sulla musica. Molto spesso parto da quella, quando i testi sono ancora un’idea vaghissima. Lo stesso è successo per questo disco.

Come te lo spieghi?
Non tanto perché ho 50 anni, che potrebbe portare a raffreddare la fantasia, come minimo. Ma perché con la forma canzone mi sono confrontato talmente tanto, che la sensazione di stare lì lì per esaurire la possibilità di sperimentare e di avere ancora qualcosa da dire ce l’ho. E ce l’ho come monito. Se dovessi capire che c’è un disco senza cose da dire, spero di fermarmi prima.

E se succedesse?
Non mi spaventa. Prima o poi succederà e comincio ad avere la necessità di confrontarmi con altri modi. Scrivere mi piacerà sempre, ma è la forma canzone che, per fortuna, mi fa scoprire di avere ancora qualcosa. In questo disco, che finirò di registrare a metà marzo, mi sono acceso ed è stato bel feeling, per fortuna. Ma non sono sicuro che mi succederà anche la prossima volta. Non lo posso più dare per scontato, ma mi va bene così.

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