Damon Albarn racconta il nuovo album dei Gorillaz | Rolling Stone Italia
Interviste Musica

Damon Albarn ci racconta il nuovo album dei Gorillaz

Il compositore ha parlato delle guest di 'Humanz', del suo rapporto con Noel Gallagher e del futuro dei Blur

Damon Albarn ci racconta il nuovo album dei Gorillaz

Damon Albarn e i Gorillaz suonano dal vivo il nuovo album "Humanz". 24 marzo 2017, Londra. Foto di Joseph Okpako, WireImage

Damon Albarn potrebbe parlare per ore di come ha contattato e conquistato le armate di guest vocalist, musicisti e produttori che hanno collaborato ai dischi della sua band di cartoni animati post-apocalittici, i Gorillaz. L’abbiamo incontrato in un albergo di New York alcune settimane prima della pubblicazione di Humanz. Il compositore – che ha lanciato la band animata nel 1998 insieme all’illustratore inglese Jamie Hewlett – ha raccontato del suo incontro a Chicago con la regina del gospel Mavis Staples, suo il pianto disperato di Let Me Out, e di come De La Soul si sia “preso” Momentz, brano in cui la sua collaborazione non era
prevista.

Albarn, poi, ha confessato che l’apparizione a sorpresa di Carly Simon – nella traccia della deluxe edition Ticker Tape – è stata pensata e prodotta totalmente a distanza. I due non si sono mai incontrati.

Poi ci sono le collaborazioni saltate – alcune due volte, come nel caso di Dionne Warwick, che doveva partecipare anche a Demon Days. «Ha quasi-cantato anche in questo disco. Avevo appena finito di lavorare con Mavis Staples e mi sono ritrovato seduto al pianoforte, a Brooklyn, con Dionne Warwick. Mi sono reso conto di averle proposto un testo troppo estremo, l’abbiamo cantato ma non siamo mai arrivati a incidere il brano», ha detto Albarn un po’ rassegnato. «Ma sono riuscito a far cantare a Dionne Warwick una delle mie canzoni. È comunque un risultato».

«Non ce ne sono come lui», ha detto Hewlett di Albarn. «Lui è andato oltre a quello che hanno fatto tutte le band della sua epoca, gente come i Suede e gli Oasis. Se i Blur avessero proposto materiale come quello dei Gorillaz, i fan avrebbero detto: “Perchè stanno facendo hip-hop? E cos’è tutta quest’elettronica?” Questo era frustrante per Damon. Certo, non lo è per me, io posso disegnare quello che cazzo voglio. Per un compositore, però, rendersi conto di essere libero non è cosa da poco».

Albarn porterà i Gorillaz in tour quest’estate, e si farà aiutare da tanti più collaboratori riuscirà a contattare. In questa intervista ci ha raccontato anche dei suoi progetti futuri: il nuovo disco dei Good the Bad and the Queen e l’adattamento teatrale di Sundiata Keita, il poema epico sull’antico Impero Mali. Albarn ha già collaborato con musicisti della zona e sta studiando il Bamberra, la lingua principale del paese.

Non sapeva neanche una parola di Mandarino quando, insieme a Hewlett, ha lavorato alla sua versione pop di Monkey Goes to the West, un racconto popolare cinese. «Siamo riusciti a venirne fuori», dice sorridendo. «Imparare il Bamberra è molto impegnativo, ma voglio farlo. Devo dire di essere un ottimo studente, almeno quando si tratta di imparare cose che servono alla mia musica».

Ho visto i Blur dal vivo al Madison Square Garden nel 2015. Stavi già scrivendo – o pensando di scrivere – il nuovo disco dei Gorillaz?
Ho cominciato a pensarci in quel periodo. Accumulavo materiale sul mio iPad, al giorno d’oggi è così che faccio i dischi. Generalmente scrivo loop di otto battute con GarageBand. Scrivo giri di accordi, idee con una buona atmosfera. A volte registro delle linee vocali e a volte non riesco più a cantare così bene come in quei momenti.

She’s My Collar, per esempio, è stata scritta letteralmente sotto il piumone, in una sola notte. È una canzone che parla della solitudine che si prova navigando nell’etere. A volte un brano è lo specchio della situazione che stai vivendo mentre lo scrivi. Lavoro molto in metropolitana, sugli aerei. Mi capita anche di registrare suoni ambientali. Tutti mi dicono: “non puoi averlo fatto solo con l’iPad”. Beh, gran parte di questo disco è stata fatta solo con l’iPad.

Mi verrebbe da chiederti: che ci fai ancora in tutte queste band?
In realtà sono molto fortunato. Sto facendo un altro disco con the Good the Bad and the Queen. Credo che lo faremo a Maggio. Ecco, lì non c’è niente fatto in questo modo. Siamo solo noi quattro e suoniamo tutto live.

Non mi sento incastrato nel mondo digitale. Mi piacciono entrambi i mondi, mi piacciono molti mondi. E sono sempre a mio agio, anche se in modo diverso.

Qual è il ruolo di Jamie nella produzione dei dischi dei Gorillaz? Riesce ad ascoltare la musica prima di lavorare alle immagini?
Siamo costantemente in contatto. All’inizio il suo studio era accanto al mio (lavoravano a un piano di distanza, in un palazzo londinese), passavo a salutarlo e gli facevo ascoltare cosa avevo combinato. Il giorno successivo lui era già al lavoro sulle immagini. Adesso la situazione è un po’ diversa, lui vive a Parigi. Il suo lavoro, però, è davvero importante. A volte, se devo essere sincero, penso: “Perchè lavoro ancora con questi cartoni animati?” La verità è che è un bellissimo contesto per la mia musica, è davvero importante.

Il disco si apre con la frase “I switched off my robot”, per poi lasciare spazio a tutti gli ospiti: De La Soul, Mavis Staples, Grace Jones. L’ultima traccia, We Got the Power, è un brano molto trascinante, caratterizzato dalla voce di Jehnny Beth dei Savages. È un disco circolare, pieno di messaggi di empowerment.
Assolutamente, per questo si chiama Humanz. Tutte le volte che ho parlato con uno dei collaboratori ho detto la stessa cosa: “Voglio che questo disco rappresenti il dolore, la gioia e la necessità. Vorrei usare i lati più oscuri della nostra immaginazione per inventare l’evento apocalittico che invaderà questa città, che farà ribaltare il mondo”.

Nessuno poteva usare le parole “Trump” e “Obama”. Quando è successo sono state nascoste. Non volevo nomi, perché il disco non parla di quel momento. Diciamo che è stata la miccia, il detonatore.

Quindi Humanz è un disco politico?
Anche io ho votato e non è servito a un cazzo (nel caso della Brexit). Benvenuti nel club (ride). Il disco è una risposta emotiva a eventi politici. Cerco di limitarmi a questo. Questo tipo di tematiche ha una data di scadenza precisa, e se non sei coinvolto a livello emotivo non ti esprimi mai veramente. È un disco politico ed emotivo allo stesso tempo.

Lavorare con cantanti diversi ti permette di scrivere più liberamente? Se dovessi cantare tutto tu come nei Good the Bad and the Queen cambierebbe qualcosa?
Per me il disco dei Good the Bad and the Queen è una sorta di versione soul di Parklife (il disco del 1994 dei Blur). Raccontiamo la Gran Bretagna per com’è adesso. Per scrivere materiale del genere siamo stati a Blackpool, lì ho trovato l’energia giusta per fare questo disco. Mi piace scegliere un posto e lasciare che la mia testa faccia il resto. Nel mio cervello è tutto molto cinematografico.

Anche io ho votato e non è servito a un cazzo. Benvenuti nel club. Questo è un disco politico ed emotivo allo stesso tempo.

Pensavi a delle voci specifiche mentre scrivevi Humanz? Per esempio, Momentz era già pensata per De La Soul?
In realtà no. Posdnous (il rapper) si è presentato in studio e ha detto “voglio fare qualcosa su questo pezzo”. In realtà volevo farlo cantare a Dave Chappelle, ma i due si conoscono ed è andata così.
Non mi piace dire alle persone quello che devono fare. Faccio sentire ai collaboratori decine di pezzi, poi scelgono loro su cosa vogliono lavorare. Se chiedi cose troppo specifiche non otterrai mai il meglio dagli artisti.

Ti è mai capitato di registrare un pezzo con due artisti diversi per poi scegliere in un secondo momento?
Si, è terribile e in questo disco mi è capitato parecchio. Ho dovuto deludere – con gentilezza – parecchie persone. Ho una storia molto bella su questa cosa, ma non voglio offendere la persona coinvolta.
Diciamo che c’era un musicista coinvolto in Charger. Quando sono andato in Jamaica per incontrare Grace Jones, le ho fatto sentire il pezzo. Mi ha detto: “mmm, c’è qualcosa che non va in questo pezzo, una specie di rumore”. “Quale rumore? La chitarra?”, le ho detto. “No, adoro quella chitarra”.
Non riusciva a dire che si trattava della voce di quest’altro artista. Una volta eliminata la traccia era pronta. (Scuote la testa) A volte due voci non sono fatte per stare insieme.

I Gorillaz suonano il nuovo “Humanz” dal vivo, in una location segreta a Londra, il 24 marzo 2017. Foto di Joseph Okpako, WireImage

Come fai a spiegare agli artisti più anziani – gente come Mavis Staples e Carly Simon – che in questo progetto ci sono anche cartoni animati?
Dico le stesse cose che ho detto a Ibrahim Ferrer, Ike Turner e Bobby Womack. Devo dire che sono sempre intrigati dall’idea: magari non è una cosa esaltante per loro, non saprei. A volte non ne parlo affatto.

Dev’essere bello per un compositore poter collaborare con tutti questi artisti senza doverli costringere a stare nella stessa stanza. Ti sentirai molto libero.
Poi si incontrano tutti quando suoniamo dal vivo. È un gran casino! (ride) Se tutti quelli che hanno partecipato a un disco dei Gorillaz fossero vivi sarebbe una lista di persone incredibile da chiamare. Una cosa davvero da fuori di testa.

E i Blur? The Magic Whip e il concerto al Madison Square Garden sono il tuo saluto alla band?
Non avevamo mai suonato lì, e mi sentivo in colpa per averlo già fatto con i Gorillaz nel 2010. Non era giusto. Ma insomma, per me i Blur sono sempre stati sottovalutati dal pubblico americano. Era davvero difficile capire perché i Radiohead e i Coldplay avessero successo e noi no. Per fortuna ho i Gorillaz, altrimenti sarei un cantante brit-pop invecchiato e nervoso.

Io e la band siamo ancora tutti grandi amici. Ho dato a quel gruppo i miei anni migliori e non me ne pento affatto. Non ho mai detto che non farei un altro disco con loro. Insomma, alla fine è sempre la stessa storia, sono i dettagli che rendono le cose diverse. Alla fine è solo altra musica da aggiungere alla montagna di musica che abbiamo già fatto.

I Blur sono sempre stati sottovalutati dal pubblico americano

Come hai fatto a convincere Noel Gallagher, la tua nemesi ai tempi degli Oasis, a suonare in We Got the Power?
C’è stato un momento in cui su quel brano c’eravamo solo io, Noel e Graham Coxon dei Blur. È stata l’apoteosi dell’autocelebrazione brit-pop. Il nostro momento di gloria, noi che cantavamo di tutto il nostro potere (ride). Alla fine ho deciso di arrangiare il brano come se fossero i titoli di coda di un film. La presenza di Jehnny Beth era assolutamente necessaria, i livelli di testosterone erano fuori controllo.

Come fate tu e Noel ad andare così d’accordo, dopo i problemi tra Blur e Oasis degli anni ’90?
Noel non è uno stupido e lo amo per questo. Ad un certo punto ci hanno messo contro e lui aveva il coltello dalla parte del manico. Insomma, lui e gli altri non venivano certo da famiglie ricche. È stato bravo a usare quella situazione a suo vantaggio. Cosa potevo rispondergli? È un po’ come quando quelli di destra ti chiamano “liberal elite”. Al massimo posso dire “chiamatemi liberal, ma non sono elitario”.

Adesso è facile lavorare con lui? Eravate i leader delle due band.
Lui è molto musicale. La sua voce ha un timbro molto bello e amo il suo modo di suonare la chitarra. Poi, cazzo, è un tipo divertente. È davvero piacevole passare il tempo con lui.

Riesci a tirare fuori il meglio anche da delle vere e proprie teste calde. Ho intervistato Lou Reed moltissime volte e mi sono sempre chiesto come tu sia riuscito a farlo cantare in Plastic Beach.
Ho i miei metodi (ride). Gli ho mandato alcuni brani e mi ha detto che era tutta merda. Alla fine ho trovato il pezzo giusto. Sono un corteggiatore infaticabile e non me la prendo se qualcuno rifiuta. “Posso fare tutto senza di te. Ti chiedo di collaborare solo perché penso che sarebbe bello”. È così che cerco di pormi.

Non mi faccio intimidire da chi è molto famoso. Cerco di guardarli negli occhi e spero che facciano lo stesso. Ero in studio con Lou, aveva scritto un testo. Mi ha detto: “Non pensare che seguirò la tua struttura strofa-ritornello. Io la canto, come viene è come sarà”.
Essere flessibile è fondamentale per lavorare con gente come Lou Reed. Ma è un approccio che vorrei mantenere sempre, mi piace quella sensazione di indipendenza, di scontro. La bellezza sta tutta lì.