Damien Rice: «Perché puntiamo alla ricchezza e non alla felicità?» | Rolling Stone Italia
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Damien Rice: «Perché puntiamo alla ricchezza e non alla felicità?»

Non pubblica dischi dal 2014 e con il Covid ha pensato di mollare il mondo della musica. Ora promette nuove canzoni e sta per partire per un nuovo tour in barca a vela in Italia. L’intervista

Damien Rice: «Perché puntiamo alla ricchezza e non alla felicità?»

Damien Rice

Foto: Alexander Blair

«Ah, bene, funziona!». Sono le prime parole che sentiamo pronunciare da Damien Rice su Zoom e non è qualcosa che capita spesso, che un artista si entusiasmi per la riuscita connessione in occasione di un’intervista. Il songwriter irlandese fa parte di una razza in estinzione, basti pensare a come gestisce la sua carriera praticamente da sempre, fottendosene dei diktat del mercato, dei social e delle piattaforme e sparendo e ricomparendo quando gli pare. «Da tempo ho base in una riserva naturale sull’isola di Maiorca, ho affittato un edificio lì ma non ho linea telefonica né wi-fi, per cui per collegarmi devo guidare fino a su in cima alla montagna», spiega Rice prima di raccontarci del nuovo tour in barca a vela che a luglio lo porterà in Italia per otto concerti.

Dopo i sold out primaverili a Milano e a Udine, il cantautore di The Blower’s Daughter, classico del suo repertorio che molti ricorderanno nella colonna sonora del film Closer, è dunque pronto a tornare sul palco affiancato dalla spagnola Sílvia Pérez Cruz che – oltre a cantare con lui alcuni pezzi – aprirà le sue date. Sono nove anni che non pubblica un disco e dopo l’acclamato O del 2002 ne ha realizzati solamente altri due. L’ultimo, My Favourite Faded Fantasy, prodotto con Rick Rubin e frutto di un esilio in Islanda dopo la rottura artistica e sentimentale con Lisa Hannigan, è un gioiellino che conferma la capacità di Rice di scrivere canzoni cariche d’intensità che scavano nei sentimenti e ti entrano sotto pelle talvolta con suoni scarni, talaltra con arrangiamenti più ricchi che muovendosi tra folk e rock ricercano toni epici.

Brani tristi, si è detto, ma è un aggettivo che tende a semplificare qualcosa di ben più stratificato, frutto di una ricerca di autenticità che il 49enne considera vitale. «Una canzone è bella se non provi a scriverla‚» è il motto di Damien che alla richiesta di qualche anticipazione sul suo prossimo album risponde: «Al momento non esiste nessun nuovo disco, ho solo molti suoni e frammenti registrati. In parte lo devo alla pandemia, durante la quale non ho quasi suonato, così che le mie dita si sono rammollite e la mia voce si è scaricata. È stato il mio tour manager a consigliarmi di mettere in piedi una serie di live per rammentare a me stesso che sono un musicista semplicemente suonando, suonando e ancora suonando».

Stai dicendo che ti sei dimenticato di essere un musicista? Non ci credo.
Sì, in un certo senso è così. Negli anni del Covid era tutto talmente calmo, non accadeva quasi nulla che per tutta quella fase sono sempre stato a Maiorca, sui monti, facendo poca vita sociale, al punto che alla fine è come se mi fossi completamente immerso in quella nuova vita nella natura. A un certo punto mi ero anche fatto spedire della strumentazione per registrare, ma in casa non avevo l’aria condizionata e in quel periodo ogni volta che mi mettevo alla chitarra iniziavo a sudare, faceva troppo caldo. Così le mie giornate sono diventate altro: trascorrevo la maggior parte del tempo a piedi nudi fuori casa, camminavo sulle rocce, andavo al mare per qualche tuffo. Non avevo mai suonato così poco in vita mia ed era strano vedere la maggior parte dei miei colleghi darsi tanto da fare, fare dirette su Instagram dai loro appartamenti, condividere canzoni online, creare dischi comunicando via Zoom: io sono andato in tutt’altra direzione.

Ma eri felice o ti mancava qualcosa?
Mi sentivo molto bene, anzi, ero così felice che a un certo punto mi sono chiesto se davvero avevo voglia di rientrare nel mondo della musica. E dico mondo della musica, e non musica e basta, perché si tratta di due cose estremamente diverse. Fammi chiarire cosa intendo.

Prego.
Quando parlo di mondo della musica non mi riferisco allo scrivere canzoni, al suonare con gli amici, al comporre. Questa è la parte bella, mentre quando sei in tour puoi vivere dei momenti stupendi, certo, ma la maggior parte del tempo la passi tra aeroporti, hotel, taxi, aerei, camerini. Il tempo per suonare e condividere la propria musica è minimo. È un po’ quel che accade a chi lavora nel cinema e deve aspettare ore sul set senza fare nulla prima che arrivi il suo turno per recitare e magari solo per pochi minuti. Per questo ho deciso di organizzare un breve tour, sì, ma in barca a vela nel Mediterraneo: faremo tappa in Sardegna per caricare alcuni amici per poi navigare verso la Sicilia e tutto il resto.

Damien Rice - Sunrise Boat Session - Instagram live streaming

Lo hai già fatto in passato, un tour in barca a vela: sai guidarla tu stesso? Perché ti piace così tanto?
Non mi definirei un velista, ma sono capace, ho la patente nautica base per la vela. Però per il tour abbiamo un capitano esperto. Mi piace perché mi permette di vivermi il meglio dell’essere in tour: la natura, i paesaggi, gli amici. Tra una data e l’altra si sta sulla barca in compagnia, in mezzo al mare, con lo sguardo verso l’orizzonte, godendo della bellezza delle albe, dei tramonti: è tutto più poetico, no? Mentre i tour tradizionali sono funzionali, ok, ma possono uccidere lo spirito.

Ascoltandoti mi viene da pensare a quando, alla fine degli anni ’90, hai deciso di lasciare la tua band di allora, i Juniper, poco dopo aver ottenuto i primi successi in Irlanda con i singoli Weatherman e World Is Dead e un contratto con la PolyGram. Ai tempi ti eri rifugiato in Toscana: come mai lì? È vero che facevi il contadino?
Contadino è una parola grossa. Sono andato in Toscana per vivere in campagna, avevo l’orto per coltivarmi le verdure in autonomia. Era un esperimento, ai tempi avevo pochi soldi, sul serio. È stato il film Io ballo da sola di Bertolucci a ispirarmi e a spingermi a venire in Italia, in quella zona. Lo guardavo e pensavo: ma questo è il mio sogno. Desideravo vivere in una grande casa di campagna con altri artisti e amici dove tutti potessimo dedicarci all’arte, alla fotografia, alla scultura, alla musica, ciascuno seguendo la propria vocazione, dove cenare in compagnia, stare insieme, creare. Così decisi di mollare il gruppo e me ne andai in Toscana, nonostante non sapessi nulla di quella regione e tutti mi dicessero che era un posto costoso. Anzi, fu proprio la mia ingenuità a rendermi così determinato: quello era il mio piano ed ero determinato a trasformarlo in realtà.

Ti mancava una casa, però.
Quella la trovai tramite amici di amici di amici. Per vie traverse venne fuori che una persona che non conoscevo direttamente, ma con cui avrei potuto mettermi in contatto, aveva un grande casale con cavalli, asini, galline, oche, a Pontessieve, in provincia di Firenze. Ci ho vissuto per 8-9 mesi, ma non avevo con me nessuno e mi sono reso conto che non mi piaceva portare avanti quel progetto di vita contadina da solo. Per cui sono tornato in Irlanda e nel 2002 ho pubblicato il mio primo album solista.

Ossia O, disco che ti ha regalato la fama da cui eri scappato. Paradossale, no?
Già!

Oggi la maggior parte degli artisti pubblica materiale di continuo, e non importa si tratti di dischi, basta una canzone, un progetto extra, un featuring, un album live, uno con l’orchestra, uno di cover, vale tutto pur di non sparire dai radar. Come ti vivi tutto questo?
Ogni volta che mi trovo davanti qualcosa che non mi piace provo a capire se posso fare in modo di dribblarlo o di trasformarlo in qualcosa che mi corrisponda. Quindi se mi fanno pressioni per essere performante e funzionale agli interessi dell’industria discografica, per esempio se mi viene fatto capire che dovrei fare tantissimi concerti uno dopo l’altro perché è così che va il mondo, semplicemente mi guardo dentro e mi domando se quella cosa è adatta a me, alla mia indole. E se la risposta è no provo ad approcciare quella stessa cosa a modo mio: organizzare un tour in barca a vela è parte di questo approccio, perché adoro andare in barca a vela e pazienza se così faccio meno soldi, ciò che conta è ben altro: vuoi denaro o gioia? Insomma, si ambisce alla ricchezza per comprarsi cose materiali che si pensa possano renderci felici. Ma perché non puntare direttamente alla felicità? È questo che sto cercando di fare.

Ti viene facile?
Non sempre ci riesco, ma ci provo. Mi sforzo di superare la paura che ho anch’io come tutti di rompere quella barriera, quei condizionamenti, quella voce che ho nella testa e che mi dice cosa dovrei fare e come dovrei lavorare. E mi dedico a vivere il sogno. Chiedendomi di volta in volta quale sia, il sogno che voglio realizzare. Non se un’offerta, un cachet o una proposta professionale sono validi, ma se posso fare ciò che desidero nel profondo. Penso derivi dal fatto che negli anni ’90, non appena la questione denaro è entrata nella faccenda, avevo smesso di sognare. Perché sentivo di non avere più il permesso di essere un sognatore, ero improvvisamente diventato un privilegiato. Capisci?

Sì, ma penso anche serva una grande onestà intellettuale per ammettere che non si può evitare di essere condizionati da pressioni esterne e dunque per provare a sottrarsi a tale influenza magari non del tutto, ma il più possibile. È così facile trovarsi alibi. Tu da dove sei partito?
Dai miei stessi errori. Hai presente quando sei su un sentiero in un bosco e a un tratto ti trovi di fronte un bivio e non sai dove andare? Vado a sinistra e punto dritto alla vetta della montagna o a destra e giro attorno alla montagna? Ecco, se la vetta è il sogno, io per un periodo della mia vita, ai tempi del liceo, dell’università che ho poi lasciato e della band da cui a un certo punto sono uscito, ho optato per la seconda opzione. Il che – per chi fa musica – significa entrare nell’ordine di ragionamento per cui tutto quel fai deve servire a crescere sempre più in termini di fama e popolarità. Ma benché con i Juniper non mi fossi ancora nemmeno avvicinato al vero successo, ho subito intuito che quel modo di pensare mi metteva in conflitto con me stesso. E l’ho intuito e poi compreso sbagliando. Dopodiché, dato che quegli sbagli non mi avevano fatto stare bene, ho deciso di cambiare rotta e di scegliere la via diretta per il mio sogno. Così quando sono rientrato dalla Toscana, visto che di canzoni su cui lavorare ne avevo, ho dettato le mie condizioni: realizzerò il mio primo album come mi pare, non mi va di ficcarmi in uno studio di registrazione per qualche settimana e uscire col prodotto pronto, non mi interessa quel modo di procedere, e non voglio un produttore al mio fianco, se avrò qualcuno con me lo sceglierò io e così via.

Ora non pubblichi nulla dal 2014, salvo una cover di Chandelier di Sia per la compilation benefica del 2020 Song For Australia e, nel 2021 con Jófríður Ákadóttir (JFDR) e Sandrayati Fay, una canzone intitolata Song for Berta dedicata a Berta Cáceres, attivista nota per il suo impegno nella lotta per la difesa delle popolazioni indigene dell’Honduras assassinata nel 2016 in circostanze misteriose e dopo un gran numero di minacce: perché lei? E in un’epoca di sedicenti attivisti tu come vivi l’impegno politico?
Di solito se in una causa ci metto la faccia è perché mi è capitato qualcosa che mi fa sentire umanamente connesso con la causa stessa. Oggi se ti metti al computer e guardi le news puoi trovare così tanti ambiti in cui impegnarti che diventa impossibile scegliere; le ingiustizie e i problemi sono così tanti che finisci per sentirti schiacciato. Da dove parto?, ti chiedi, dalla salvaguardia della foresta amazzonica?, dai rifugiati che naufragano vicino alle coste italiane? Per cui io se scelgo di sostenere una causa è perché un qualche accadimento personale mi ci porta.

Song for Berta (Live at the Cabin) - Damien Rice, Sandrayati Fay & JFDR

Nel caso di Song for Berta com’è andata?
Sono venuto a conoscenza della storia di Berta Cáceres grazie ad Amnesty International: un giorno mi hanno invitato a partecipare a un evento a Berlino e nel corso dello stesso è intervenuta Bertha Zúniga, la figlia di Berta, che nel frattempo era morta, per parlare della madre. Ciò che mi ha commesso è che alla fine della serata eravamo tutti fuori di fronte all’edificio dove si era tenuto l’evento a cantare in coro. Ma non solo: ricordo che a un certo punto ho osservato Bertha Zúniga, questa donna così apparentemente gracile eppure così forte, scendere le scale esterne dell’edificio per andarsene e lì ho pensato che sarebbe andata a dormire in un hotel come me, che come me il giorno dopo avrebbe preso un aereo, ma che a differenza di me durante il viaggio e una volta giunta a casa avrebbe rischiato di essere ammazzata come sua madre. Questo mi ha fatto sentire vicino a lei e alla sua battaglia.

Delle proteste ambientaliste, invece, cosa pensi? Credi riusciremo a salvare il pianeta?
La storia ci insegna che per cambiare davvero le cose bisogna essere tutti uniti e che questo accade almeno in una certa misura solo dopo emergenze e catastrofi. Pensa a quanto si è fatto dopo la seconda guerra mondiale. Il problema è che rispetto alla svolta ecologica ci sono ormai troppi interessi in ballo e ci sono multinazionali e politici che non fanno altro che proteggere il loro orticello fregandosene dell’ambiente e mentendo a tutti. Senza contare quanto è difficile oggi per tutti noi capire dove stia la verità. E anche accettare che a volte ci sono prospettive diverse tutte veritiere, visto che la stessa questione può essere inquadrata da più angolazioni. È tutto molto complicato, ma è importante parlare di certi argomenti.

Dopo questo Sailboat Tour che farai?
Da agosto in avanti mi concentrerò sul nuovo materiale. Tutto nella riserva naturale a Maiorca, registreremo in un granaio senza finestre, a contatto stretto con la natura.

Hai già navigato nel Mediterraneo: che effetto ti fa pensare che in quelle acque sono annegate tantissime persone mentre cercavano di fuggire da fame e guerre e di raggiungere un luogo dove costruirsi un futuro?
Mi fa l’effetto che fa a qualsiasi altro marinaio in mare: di fronte a persone in acqua o su una barca in pericolo si interviene per tentare il salvataggio, punto e basta. Tutti noi naviganti sappiamo che gli incidenti possono succedere e che nel caso l’unica possibilità che hai di sopravvivere è che qualcuno venga a prenderti. Altrimenti muori. Non è nemmeno una questione politica per me, è una questione di responsabilità e di umanità.

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