Dai Bud Spencer Blues Explosion aspettatevi l’inaspettato | Rolling Stone Italia
Libertà e furore

Dai Bud Spencer Blues Explosion aspettatevi l’inaspettato

Il nuovo album del duo ‘Next Big Niente’ che uscirà domani è un «prodigioso disordine» che stordisce per le canzoni destrutturate e la quantità di suggestioni

Dai Bud Spencer Blues Explosion aspettatevi l’inaspettato

Bud Spencer Blues Explosion

Foto: Simone Cecchetti

Come si capisce un disco come Next Big Niente, nuovo album dei Bud Spencer Blues Explosion, in uscita stanotte? Innanzitutto serve un po’ di contesto: Adriano Viterbini e Cesare Petulicchio non hanno mai nemmeno lontanamente sfiorato la banalità e hanno sempre cercato una loro personalissima rotta, irricevibile per il mondo del mainstream e comunque unica anche rispetto al panorama alternativo italiano. Significa poco o nulla, ma è sicuramente un buon motivo per far sì che l’unica cosa che ci sia da aspettarsi da loro è l’inaspettato.

Ma non è sufficiente: Next Big Niente è molto più che inaspettato, è un disco senza braccia e senza gambe, a tratti rintronante, che quasi stordisce e lascia confusi per la quantità di suggestioni, inversamente proporzionale alla solidità delle strutture. Tolta forse Come un raggio, che tra l’altro è firmata, per il testo, da Umberto Maria Giardini, non c’è un singolo brano in cui sia possibile identificare una qualche struttura familiare e confortante. La metà dei brani è strumentale e le parti cantate degli altri cinque sono piccoli inserti rarefatti all’interno di contesti ben più ampi. Tutto succede, tutto viene creato e viene distrutto, e le cose raramente sono al posto in cui ci aspetteremmo di trovarle. Le batterie non sempre si comportano da batterie, le chitarre non sempre si comportano da chitarre, e il disco è pieno di suoni e accostamenti che dio solo sa da dove siano stati partoriti.

L’album arriva a cinque anni di distanza dal precedente lavoro ed è stato anticipato da un numero insolito di singoli: prima l’ideale 45 giri Vandali / Stranidei, poi i viaggi Medioriente e Miku五 e infine Insynthesi. L’impressione è che i BSBE abbiano caricato questo disco di un significato e di un peso inedito persino per loro, che pure si sono sempre contraddistinti per una spiccata predisposizione a ragionare in termini di dischi e progetti di ampio respiro. Un percorso che è iniziato più di due anni fa, e che è stato fatto e disfatto più volte, fino a ottenere il «prodigioso disordine» (parole loro) che lo contraddistingue.

«Fondamentalmente» racconta Cesare Petulicchio «questi pezzi sono frutto di un lungo lavoro che abbiamo fatto per la prima volta completamente da soli, nel senso che ci siamo autoprodotti e autoregistrati. Il disco è frutto di registrazioni su registrazioni, pezzi completamente stravolti più volte nel corso degli anni di lavorazione. Tutto questo crea diverse sfumature, ma soprattutto crea quello che per noi un ordine fatto di disordine: un disordine di frequenze e di colori, che cerchiamo anche di trasmettere da un punto di vista grafico nella comunicazione visiva del disco».

Da questa libertà e da questa furia, che comprende anche un lato più mondano, ovvero quello del rifiuto esplicito e irriverente dei dettami del mercato discografico, quello dei singoli di tre minuti che sta così stretto al duo, prende forma in maniera più chiara l’idea del big niente che ci viene offerta come filo conduttore del disco: «Il niente è il foglio bianco da cui siamo partiti per realizzare il disco». Un foglio che è bianco per davvero, in cui tutto può succedere e in cui tutto è, come direbbe Battiato, sganciato dalle regole comuni, in cui i musicisti si occupano di organizzare con cura gli slanci compulsivi di infiniti momenti creativi: «A volte» dice Adriano Viterbini «mi capita di fare lunghe camminate tutto il giorno per poi tornare a casa e appuntare in un’ora, in modo furioso, tutte le idee che mi vengono in mente. Anche quello che facciamo quando siamo in studio è sostanzialmente qualcosa di compulsivo, che non necessita di tantissimo tempo per essere espresso, e al contrario ne richiede molto per essere elaborato, capito e approfondito».

Il duo è attivo ormai da quasi 17 anni, e in uno dei brani migliori del disco c’è un esplicito omaggio al battesimo del progetto, un concerto al Sabroso Tapas Bar. «È un’enoteca di Albano Laziale, che è un paesino vicino Roma», spiega Cesare. «Adriano da poco più di un mese mi aveva chiesto di fare una band chitarra e batteria sulla scia di alcuni gruppi dell’epoca. Erano i primi tempi dei Black Keys, mentre i White Stripes esistevano già da qualche anno, ma stavano iniziando allora a raccogliere i primi frutti. Eravamo sotto Natale del 2006, e facemmo soprattutto cover perché, appunto esistevamo da poco più di un mese. Non ricordo se già allora, ma comunque già in quel periodo avevamo iniziato a scrivere i nostri primi brani e avevamo registrato una demo in un garage. Quello fu un anno abbastanza particolare per tutti».

I Bud Spencer fanno parte della generazione che ha vissuto in prima persona la rivoluzione digitale, cercando di capirci qualcosa mentre le cose succedevano a una velocità impressionante, senza senso apparente e senza il beneficio della rielaborazione. «Quando abbiamo iniziato» continua Cesare «eravamo agli inizi di MySpace, almeno in Italia. Quella fu davvero una rivoluzione per chi faceva musica: prima del player di MySpace bisognava spedire i CD e le cassette ogni volta che si voleva suonare fuori dalla propria città. In generale mi ricordo molta spensieratezza, ma anche tanta dedizione. Addirittura io e Adriano eravamo andati a vivere insieme per gestire il progetto in maniera più assidua: quando non eravamo in studio o in sala prove, stavamo a casa a gestire i social e a lavorare alle campagne per far conoscere la nostra musica».

E ancora: «Non facendo tantissimi dischi, è successo che praticamente a ogni disco dovevamo fare i conti con una nuova rivoluzione. Penso ad esempio all’arrivo dello streaming o ai vari social che si sono susseguiti e accumulati negli anni. Ora c’è TikTok, per esempio, che è uno strumento che io personalmente non riesco a usare perché non mi sento credibile nel farlo. Si è sempre trattato di cambiamenti che impattavano anche sulle dinamiche interne, sulla gestione dei tour, sullo stesso mondo indipendente che a un certo punto aveva alcune realtà che fatturavano forse più delle major».

Eppure, nonostante le vertigini di un mondo che cambiava e continua a cambiare senza sosta, i BSBE mantengono le anomalie di chi è sempre, per scelta, fuori rotta. I due, negli anni, hanno incrociato più volte il mondo del pop mainstream – basti pensare che Metamorfosi di Raf contiene le chitarre di Viterbini, così come alcuni brani del progetto Fabi-Silvestri-Gazzè. Eppure, spiega Viterbini, «noi personalmente, con i nostri progetti non abbiamo mai avuto la tentazione di affacciarci in prima persona in quel mondo, né ci è mai sembrato che per noi potesse essere qualcosa di naturale. Abbiamo sempre cercato l’intelligenza del pubblico, perché è la cosa che ci eccita di più. Facendo questo disco volevamo anche ribadire che per noi fare arte vuol dire fare le cose con un approccio libero e sorprendente. Diffidiamo sempre di chi fa musica come se fosse un dovere o una punizione».

Attitudine, ci piace pensare, maturata dalle origini provinciali di entrambi i membri del duo, orgogliosamente rivendicate in vari momenti della carriera dei Bud Spencer, fino a Camper, bellissimo momento del disco in cui Viterbini canta “caro amico, da qua non andiamo via”. 
«Stiamo parlando della provincia. Sia io, sia Cesare siamo nati in provincia: lui in provincia di Taranto, io in provincia Roma. Fin da subito abbiamo avuto una prospettiva delle cose molto diversa rispetto a chi nasce in città, e dobbiamo tanto a questa sensazione: se oggi siamo come siamo è perché abbiamo avuto la benzina che ci è servita ad innescare i nostri progetti. Diciamo che ci ha sempre mosso qualcosa di legato a un senso di inadeguatezza e di inferiorità che nel tempo è diventato il contrario: tutti i nostri difetti e tutte le cose che ci rendono sgrammaticati e incomprensibili per alcuni, sono le cose che ci rendono più fieri, e soprattutto quelle grazie alle quali possiamo esprimerci. Credo che se ci siamo guadagnati la possibilità di fare un disco come Next Big Niente sia anche grazie a questa sensazione. Per noi è importante ricordarci da dove veniamo, e anche se siamo proiettati nel nostro viaggio nel presente e nel futuro, non perdiamo mai di vista quello che c’è nello specchietto retrovisore».

Insomma, per capire Next Big Niente bisogna sforzarsi di entrare nella testa di chi lo ha creato e ripercorrere quei passi: a quel punto sarebbe chiaro che questo non è un disco da capire, ma a cui abbandonarsi senza farsi domande.