Da San Diego all'Anatolia: intervista a Diamanda Galás | Rolling Stone Italia
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Da San Diego all’Anatolia: intervista a Diamanda Galás

Un incontro con la "Serpenta", la musicista e cantante che torna in tour con l'album "Death will come and have your eyes", come la poesia di Cesare Pavese

Diamanda Galas, foto di NoteFotografiche

Diamanda Galas, foto di NoteFotografiche

La voce di Diamanda Galás ha eviscerato l’Auditorium Manzoni di Bologna, la prima tappa europea del suo solo tour 2016, e ha scavato dall’interno una platea densissima, attratta, dissolta in lei. Ha cantato in greco, in italiano – su testi di Pasolini – poi in tedesco, in francese. Il suo ritorno lirico, Death will come and have your eyes, prende il titolo da una celebre raccolta di poesie di Pavese. Alcuni versi di quelle pagine sembrano essere già stati scritti per la cantante di San Diego, di origini greche: “Sei la vita e la morte./ Sei venuta di marzo/ sulla terra nuda -/ il tuo brivido dura.”

Tra Supplica a mia madre, Gloomy sunday, See that my grave is kept clean, Diamand Galás, classe 1955, l’11 marzo era a Bologna per un concerto per piano e voce (l’11 marzo) preceduto dalla prima italiana della proiezione del film Schrei 27 (2010) realizzato a quattro mani con il regista brindisino Davide Pepe. Nelle prossime settimane la cantante sarà protagonista di altre date in Europa: dal Roadburn Festival 2016, a Tillburg, dove condividerà il palco con Paradise Lost, Converge, Pentagram e Neurosis, ad un nuovo concerto italiano il 19 giugno, al teatro romano di Verona.

Diamanda Galas, foto di Stefano Masselli

Diamanda Galas, foto di Stefano Masselli

«Esibirmi in Italia è sempre e resterà sempre una delle più grandi gioie concesse alla mia vita,» premette la Serpenta, senza eccessi. «Il pubblico è così totale, così accogliente che ritengo un dono poter essere salita su quel palco a Bologna. Mi hanno dato il cuore e io questo l’ho sentito, l’ho creduto possibile. Ho passato gli ultimi cinque anni accanto a mia madre quasi morente. Io sono l’ultimo membro della famiglia e ho dovuto fino all’ultimo sapere di poter cambiare la sua situazione, al di là dei pareri medici. Ora che lei sta meglio posso tornare in tour e sentirmi nuovamente immersa, in dialogo con tutto questo.»

Una dimensione che in un certo senso le permette di mantenere il contatto con le sue radici, con i suoi maestri.
Mio padre e mia madre sono state due guide vere. Mio padre era un greco dell’Anatolia, un uomo all’antica, quando volevo uscire mi chiedeva: ‘Ma perché esci? Non c’è niente di cui tu abbia bisogno fuori da qui’. Lui, in casa, da musicista jazz, mi ha fatto conoscere e suonare i suoi Grandi. Ma sono anche cresciuta con mia madre che ha sempre creduto in me, anche nei momenti più bui della mia carriera. Poi ci sono stati i maestri di canto sperimentale, i più importanti sono stati i cantanti greci di Amanes di Smirne (Izmir), tradizione che ho ereditato molto presto. E non posso dimenticare gli scritti di Artaud, così come Roy Hart e il Laboratorio Grotowski.

Tecnicamente, invece, ha avuto numerosi preparatori.
Ho viaggiato molto e spesso sono cambiati negli anni, ma sono da citare maestri come: Ilana Mysior, pianista professionista e cugina di Gregor Piatagorsky, così come i miei maestri di canto Frank Kelly a San Diego, Vickie Hall a Berlino e Barbara Maier Gustern a New York, fino al 1989.

Nel tempo ha modificato la voce ma anche il suo corpo. Ma qual è la relazione tra carne e suono?
La voce per me è diventata la mente del corpo. Devo allenare quotidianamente tutti i muscoli che la accompagnano. Seguo da due anni la tecnica di Martha Graham, ho lavorato con molti ballerini. Inoltre ho una preparazione di Ashtanga Yoga, una disciplina concepita anticamente per i guerrieri. In questo momento ritengo, però, che la mia voce sia molto vicina al teatro Butoh, che sto studiando. Ma fin dall’inizio il mio lavoro sul corpo è nato a partire dal suono della voce e simultaneamente dalla gestualità. Quando canto devo respirare, risuonare con la voce, aprire la cassa toracica e spalancare la gola. Così, negli ultimi cinque anni ho imparato a cantare melodie sempre più difficili.
Che si attestano a livello melodico su una scala di produzione multifonica. Le corde vocali si incontrano, vibrando in tre differenti aree, quando suono, ad esempio, tre note. Incominciando dal suono del bel canto fino a risalire. L’opposto rispetto a tradizioni come quella tibetana e mongola-tuvana.

Tornando al Laboratorio Grotowski, come si è sviluppata la sua residenza in Polonia, nel 2014, e la ricerca sulla poesia di Georg Heym?
Il progetto su Das Fieberspital (attraverso i suoi polmoni, i versi di Heym risalgono fuggitive cacofonie taglienti, per arrivare a pianori di ululati mortiferi) è attualmente vivo e supportato dal Grotowski Institute, con il quale ho cominciato a collaborare nel 2013. Inoltre sono sostenuta anche dalla nymusikkOslo, la cui direttrice è Anne Hilde Neset.

Quali influenze ha riversato, questa esperienza, nel tuo prossimo tour Death will come and have your eyes?
Sicuramente la poesia è un comun denominatore. È la sua struttura che scompongo, che rendo mia e che lego alla musica del pianoforte. È il verso, la sua ritmica e la parola che lo fonda a far scaturire l’esperienza emotiva della voce.

Qual è un desiderio che accompagna Death will come and have your eyes?
Il mio primo augurio è quello di evolvere e di perfezionarmi sul palco. In particolare, sono molto orgogliosa di un brano a cappella: è la prima volta che lo presento e mi sta impressionando. Inoltre, non bisogna cercare di rappresentare mai la voce del futuro, ma quella del presente.

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