Rolling Stone Italia

Da Faust’O a Fausto Rossi, sempre fuori dagli schemi: «Battiato falso, De André fascista»

Più che un’intervista, un j’accuse contro il sistema retto da «discografici asini». E poi: gli Afterhours che non sanno suonare e i Litfiba «fintissimi», i viaggi coi funghi e la dittatura sotto cui viviamo

Foto: Dania Gennai

Quella che state per leggere, più che una intervista, è un J’accuse – dal titolo di uno dei suoi album più noti – verso tutta la musica italiana e non solo. Perché Fausto Rossi, in arte Faust’O, nonostante i 68 anni suonati, ancora non accetta le regole del “sistema”. Cioè quelle imposte da altri, che si parli di mercato discografico o della vita di tutti i giorni. Da un decennio non pubblica un disco, Blank Times è del 2012, eppure a cadenza fissa qualche collega lo ricorda come uno dei cantautori da cui ha tratto più ispirazione. Un vero autore di culto, ma sfuggente, sempre al limite, dissacrante, indignato e ribelle ai limiti della sfrontatezza. Anarchico? Nemmeno, preferisce definirsi uno «che vuole essere lasciato in pace». Con noi ha fatto una eccezione e lo abbiamo incontrato a Milano, dove è tornato di malavoglia («perché le città non sono un bel posto») dopo aver passato anni sulle colline brianzole a sperimentare nuove musiche e vecchi “viaggi” psichedelici. E in fondo, a guardalo bene – con quei lunghi capelli bianchi e un maglione dolcevita che ne accentua la magrezza – sembra di avere di fronte un novello Williams Burroughs, lo scrittore che, tra l’altro, stima in modo sconfinato: «Lui ha sempre ragione, ricordatelo».

Scegliamo un bar nella zona di Piazza Lodi dove appartarci e, appena apre la porta, esce una signora che lo incalza con un motivetto: «Con 24 mila baci…» e lui prosegue il ritornello: «così frenetico è l’amore…». Poi spiega: «È un’amica e questo è il nostro giochino quando ci incontriamo». Ne seguirà una lunga chiacchierata dove ripercorrerà tutta la sua carriera, dal rifiuto di apparire in tv («è un mezzo di propaganda») all’abiura dello show business («i discografici sono tutti dei somari»). In mezzo una pausa di riflessione in eremitaggio in mezzo alla natura, tra funghetti allucinogeni ed elettronica ispirata dai laboratori di ricerca, che lo ha portato ad avere pronti due album di inediti. Nel mentre demolirà alcune icone della musica italiana. De André? «Un fascista camuffato da anarchico». Battiato? «Finto, falso e anche decisamente rompicoglioni». O di giovani in ascesa: «I Måneskin sono un prodotto della casa discografica». Ma anche verso certi stranieri non sarà più tenero: «Ed Sheeran non sa suonare la chitarra». E se un tempo pensava alla morte come a qualcosa di eccitante, ora che si è avvicinato alle filosofie che predicano la reincarnazione ha solo una speranza: «Ritrovarsi ancora sulla Terra sarebbe deludente. Molto meglio sulla Luna!».

Chi è oggi Fausto Rossi dopo aver abbandonato il nome d’arte Faust’O?
Non mi sento molto cambiato da quando a un certo punto ho deciso di lasciar perdere il nome d’arte e di uscire dal mondo dello spettacolo. Ho sempre creato musica, anche quando ero lontano dal mercato. Ho composto, studiato, sono soltanto passati gli anni.

Quel nome d’arte era opera tua?
No no, di Oscar Avogadro, il mio primo produttore.

Che rapporto hai con la musica di oggi?
Faccio veramente fatica ad ascoltarla. Non guardo la televisione. Sul web qualcosa mi passa davanti, leggo qualche notizia. Ma adesso soprattutto della guerra in Ucraina. Già trent’anni fa mi sono ripromesso di uscire da tutto, di non prendere posizione, tanto sono sempre i soliti a decidere. Quelli di cui non si parla mai…

Chi sarebbero?
Le famiglie Rothschild e Rockefeller, la regina Elisabetta d’Inghilterra e altri quattro e cinque. Loro decidono tutto. Sai che i loro nomi per certi argomenti non possono uscire sui giornali?

Ti prometto che riporterò i loro nomi.
Ma sì, tanto sono tutti dei… meglio che non prosegua…

Non c’è mai stato un periodo in cui hai avuto fiducia nella politica?
Quando sono entrato nel mondo della discografia mi è stata chiara da subito la spartizione. Il Partito Socialista si era accaparrato tutta la musica giovanile e il Partito Comunista tutta la cultura, quella più di élite. Una vera schifezza! Oggi è uguale, con altre persone che hanno sostituito i partiti. Non decide certo il “rettiliano” Draghi, ma stiamo vivendo una dittatura. Non come in Russia o in Sud America, però quando ce n’è bisogno emerge, si smaschera… a proposito di mascherine…

Sei critico sulla gestione della pandemia?
Il tribunale di Pisa tramite una sentenza ha ritenuto illegittimo lo stato d’emergenza per il Covid 19. Hanno trasgredito ogni norma, con il presidente della Repubblica Mattarella che ha avallato tutto. Io a questi politici tirerei solo bastonate in testa.

Sei no vax?
No, però mi sono vaccinato solo perché mi hanno rotto i coglioni per fare qualche concerto. Ma la mia dottoressa se mi chiede ancora di pungermi la inchiodo: mi fai la prescrizione o no? Perché non la fanno? Hanno calpestato la Costituzione. Io sono uno che vuole essere lasciato in pace, come Eric Clapton. Ma non pensare che sia uno di destra, assolutamente.

Non ti sei mai schierato neanche negli anni ’60 o ’70?
Fino agli anni ’70 facevo parte dei vari movimenti della sinistra, quelli di contestazione e che portavano avanti gli espropri proletari.

Poi hai detto che, come ogni aggregazione umana, si era trasformata in una parrocchia.
Sì, anche se i ragazzi come me ci credevano. Poi crescendo siamo rimasti delusi. Già mi ero accorto a scuola che qualcosa non andava, quando un gruppo di estrema sinistra non voleva più farmi entrare in classe e mi sottopose a una specie di processo.

Qual era l’accusa?
Avevano deciso arbitrariamente che io spacciavo eroina nella scuola. Intanto loro portavano il fumo che gli manvadano dal Marocco… Allora ho tirato un po’ di legnate alle automobili dei professori e mi hanno riammesso.

C’era un clima piuttosto turbolento nelle scuole.
A quei tempi potevi permetterti di tutto. Una volta un professore voleva sospendermi e il preside gli ha risposto: «Lo sospendiamo al lampadario», ridendo. Il professore lo ha mandato a quel paese e sono tornato in classe. In quella scuola ci ero finito per caso.

Come mai per caso?
Io avrei voluto fare l’istituto alberghiero, non ricordo come mai. In quel periodo ero a Firenze e ho chiesto a mio fratello, che ha due anni più di me ed era a Milano, di iscrivermi. Quando sono tornato mi sono ritrovato iscritto all’Istituto tecnico statale per il turismo. Una scuola aperta da poco. Gli ho chiesto, ma perché? E lui: «Non è la stessa cosa?». Ma tanto allora non facevamo proprio niente.

C’era il famoso 6 politico?
Esatto, infatti sono passato agli anni successivi grazie al 6 politico. Non c’ero mai a scuola. Ero sempre al bar dove giocavo a biliardo.

La musica era già nella tua vita?
C’è sempre stata. A 6 anni avevo cominciato a studiare pianoforte.

Quando hai capito che la musica poteva essere la tua strada?
Nel ’64, ero a tavola con i miei genitori e, a un tratto, su Tv7 è passato un servizio su quattro fuori di testa. Erano i Beatles. Non seguivo la musica italiana, fino ad allora solo quella classica, studiavo pianoforte otto ore al giorno. Ho visto le ragazzine che urlavano, i poliziotti che le contenevano e sono rimasto folgorato. Cantavano Can’t Buy Me Love. Ma chi diavolo sono questi?

Quindi addio musica classica.
Stavo per dare l’ottavo anno di Conservatorio e avevo già studiato per il decimo. La mia insegnante ci è rimasta male che non abbia proseguito. Mi sono perso dietro ai synth. Uscivano dei dischi pazzeschi, allora li trovavi anche nei negozi di elettrodomestici. Ho iniziato a scambiarli con gli amici, un periodo davvero incredibile. Uscivano continuamente artisti fenomenali. Un giorno arriva uno e mi fa: «Hai sentito questo pezzo? È tostissimo». Cos’è? «Foxy Lady di Jimi Hendrix». Un capolavoro dietro l’altro.

La tua biografia riporta che hai origini friulane.
Da parte di mia madre, che per partorire tornava da sua mamma in Friuli. Mio padre invece era milanese e io ho sempre vissuto a Milano. Sono nato il 2 gennaio, mi hanno raccontato che quel giorno nevicava moltissimo.

Qual è il tuo primo ricordo da bambino?
Faccio veramente fatica a ricordarmi qualcosa. Ho solo dei flash dell’asilo o delle elementari. Non ho grandi ricordi, almeno fino ai 5-6 anni.

Mi sembra di capire che un po’ ribelle lo sei sempre stato.
Io ho due nomi, Fausto e Armando. In casa mi chiamavano Armando. Quando avevo circa 14 anni sono tornato a casa e ho detto ai miei genitori: «Da oggi mi chiamo solo Fausto».

Un bel caratterino…
Ero portato a essere così dalla situazione sociale e politica di quegli anni. Volevamo essere più liberi possibile e a volte accadevano cose folli. Un giorno al bar, avrò avuto 17 anni, un amico mi dice: «Vado a fare benzina alla moto». Quando torna è tutto elettrizzato: «Oh, l’ho ammazzato!». «Ma chi?», gli rispondo. «Il benzinaio». «Ma sei pazzo, e perché?». «Non avevo voglia di pagare». Gli ha sparato… Dopo dieci minuti sono arrivati i carabinieri, lo hanno arrestato ed è finito dentro per un bel po’ di anni anche se era minorenne.

Una adolescenza turbolenta.
Ho sempre fatto follie, anche dopo. Ma è meglio che non le racconti.

Poi ci torneremo. Intanto com’è nata l’idea di un disco considerato di culto come Suicidio, uscito nel ’78. Piuttosto forte come titolo per un esordio.
Non ricordo il perché del titolo. Tra l’altro non sono mai stato portato al suicidio. L’etichetta era la CGD (Compagnia Generale del Disco). Eravamo in pieno periodo di new wave, per cui il linguaggio doveva uscire dai soliti canoni.

Anche le ideologie stavano iniziando a perdere presa sulla gente e sugli artisti.
Vedo che tutti oggi cercano di stare alla larga dalla politica. Hanno ragione, bisogna averci meno a che fare possibile. Dobbiamo liberarci dai governi. Almeno fin dove te lo permettono.

Sei anarchico?
Mi sento soltanto me stesso. Non sono cambiato molto da quando ero più giovane. Soffro davvero tanto l’autorità, il governo, lo Stato, il sistema. Quando mi fermano le forze dell’ordine è quasi impossibile che se ne esca tranquillamente. Mi fanno incazzare perché fanno valere il loro potere. Spero sempre di non avere a che fare con loro, ma purtroppo ogni tanto capita.

Un tuo famoso gesto di insofferenza al mondo dello spettacolo è già del ‘79, quando al Festivalbar ti sei rifiutato di cantare in playback restando seduto scalzo sul palco e mangiando una mela. E così ti hanno escluso dalla diffusione televisiva della Rai.
Non era il Festivalbar, ma una manifestazione organizzata da una rivista. E la Rai in quel caso non mi ha oscurato.

Quindi è un episodio mal riportato?
Ricordo che era uscito un mio 45 giri con il bollino del Festivalbar e sarei dovuto andare a esibirmi, ma sono stato io ad oppormi. Non volevo assolutamente andarci. C’erano tante cose che rifiutavo, prima di tutto l’andare in televisione.

Come mai?
Perché è un mezzo di propaganda di merda. Non voglio averci niente a che fare. E considero tutti quelli che ci vanno delle specie di microtossine, dei venduti! In questo mi ritrovo in linea con Pier Paolo Pasolini. Lui è stata una grande perdita. Guarda caso non si è mai saputo di preciso che cose fosse successo quella notte. Una grande perdita e non è stata l’unica. Allora il potere ammazzava, oggi è più discreto. Ma in tv non puoi essere contro la gestione del Covid perché o ti cacciano o ti ridicolizzano.

Non dev’essere stato facile per le etichette di allora gestire un artista come te.
Proprio perché alla CGD insistevano sulla promozione sono passato alla Ricordi. Il disco Faust’O andò anche piuttosto bene e quindi erano convinti che il successivo potesse arrivare in classifica. Avevo già in mente Love Story tutto basso, batteria e canto in inglese. Solo che volevo fosse un triplo album.

Una richiesta impegnativa…
Non hai idea di come reagì Alfredo Cerruti, grande produttore e voce degli Squallor. Eravamo molto amici, è stato un secondo padre per me. Mi chiese se avessi del materiale nuovo e così andai nel suo ufficio. Lui di solito metteva i dischi a tutto volume. Quando finiamo di ascoltare, il materiale gli piace, ma gli parlo dell’idea del triplo disco e lui: «Fausto, che cazzo ti viene in mente?». E mi spiega che non me lo avrebbero permesso. Così me ne sono andato, ho pagato anche una penale. In quel periodo avevo già deciso che non sarei mai più andato in televisione.

E sei approdato alla Target di Angelo Carrara.
Sono finito dalla padella alla brace. Una volta ad Angelo ho ribaltato la scrivania. Anche loro erano sempre lì a rompermi i coglioni. Non così tanto come prima, ma per me era già troppo.

Devono vendere, è il loro mestiere.
Ho capito, ma Angelo a un certo punto ha davvero esagerato. Voleva che diventassi come Povia. Come se non mi conoscesse… Ma Angelo era così, non ci si poteva mai fidare.

Come mai?
Ti racconto questa. Una volta gli ho portato un disco, Lost and Found e l’avevo avvisato che non poteva vedere la luce prima che io scrivessi i testi. Era tutto in un inglese un po’ buttato lì. Lui, però, che aveva sempre bisogno di soldi, si è messo d’accordo con Stefano Senardi della PolyGram che ci distribuiva e lo hanno fatto uscire lo stesso. Era colpa di Angelo, naturalmente. Infatti mi sono incazzato moltissimo, l’ho proprio preso per il collo…

Com’è andata a finire?
Che mi ritrovo pubblicato un disco di merda. Musicalmente per me è molto bello, solo che i testi sono qualcosa di ignobile. Su Carrara non si poteva contare in nulla. Gli volevo bene, solo che si era amici solo quando lo decideva lui. L’ho ospitato anche a casa mia in collina, in Brianza. Veniva spesso per “ripararsi”. Aveva un sacco di casini. In quella casa è stato fatto di tutto.

In Brianza è dove sei sparito per otto anni alla ricerca di te stesso.
Lì sono nati dischi come Exit o L’erba. Poi effettivamente mi sono preso una lunga pausa. Milano non mi piace, in generale le città sono brutti posti per vivere. Non vedo l’ora di andarmene.

Ora stai lavorando a qualcosa?
A due dischi. Uno di canzoni e uno di musica elettronica. Da un lato porto avanti un genere di canzone diverso da quello che si sente in giro e continuo il mio percorso di crescita. Per la musica elettronica, invece, i riferimenti sono i laboratori di ricerca come Stanford e il MET. Ho lavorato su diversi tipi di sintesi e diciamo che sarà un lavoro serio di musica elettronica.

Come verranno distribuiti, tramite una etichetta o sui social?
Non ci ho ancora pensato.

In un mondo in cui tutti fremono per il successo, pubblicare, dimostrare di esistere tu te ne freghi e rifiuti la fama, non sai neanche se pubblicherai e non sembri per nulla soffrirne.
Ormai sono dieci anni che non pubblico un disco. Un po’ di fretta dovrei averla, solo che ho avuto dei problemi familiari, senza quelli forse sarei uscito prima. Inizialmente la produzione era piuttosto regolare, poi dopo Love Story sono passati sei-sette anni. Negli ani ’80 mi sono fermato perché sentivo l’esigenza di studiare. L’etnomusicologia, la musica contemporanea. Non capisco perché tanti non si fermino mai per studiare. Non mi garantisce di fare buona musica, ma almeno ci ho provato. Poi ho pubblicato Cambiano le cose, ci ho messo poco per L’erba e Exit, solo che in collina sono stato impegnato a sperimentare altre cose. Avevo il giardino pieno…

Di cosa?
Non solo di “erba”, che mi interessa relativamente. Di altro…

Adesso sono curioso.
Ho fatto esperienze con sostanze psichedeliche e allucinogene di diverso tipo, con varie erbe o funghi. Ci sono per esempio quelle che lavorano sull’udito. Una ti dà la possibilità di sentire lontanissimo. Una volta degli amici stavano arrivando in collina a trovarmi e io ho sentito cosa dicevano quando erano ancora a valle. Quando gli ho ripetuto esattamente le loro parole sono rimasti esterrefatti. Avevo amici a Edimburgo, in Sud America, negli Stati Uniti che mi mandavano diverse sementi che allora non erano controllate.

Sono esperienze utili anche per trovare l’ispirazione?
Non ho mai usato sostanze chimiche, non mi interessano. Soltanto funghi allucinogeni, Salvia divinorum, stramonio e funghi. Certe piante crescono da sole, altre sono più fragili. Ma non è sempre piacevole, ho fatto anche molti viaggi di merda (ride). Non so se aiutino a creare, agiscono per conto proprio e magari poi capisci che qualcosa è uscito da lì. Una canzone di Exit mi è arrivata da uno di questi viaggi. Era la notte di Natale, mi sono passati davanti migliaia di uomini… E nella registrazione si sente che ero sotto l’effetto dei funghi. Li andavamo a raccogliere in collina e poi ne cucinavamo dei calderoni interi. Sono come la psicanalisi, risolvi tante cose senza accorgertene. Sono degli scatti, dei click. Ti fai un viaggio, vedi cose, rifletti e solo dopo capisci. Non so se consigliare o sconsigliare queste esperienze, sono cose molto personali.

Sei un po’ il William Burroughs della musica italiana.
In quel senso mi sento affine, solo che non mi troverei a mio agio a paragonarmi a lui. Per me è un riferimento. Come William Carlos Williams. Vedo che tanta gente legge libri che non servono a niente, ma quando hai letto Joyce, Burroughs, Williams e Goethe cosa ti serve di più? Basta, puoi anche smettere. Terre occidentali di Burroughs è un capolavoro misconosciuto. Mi fa ridere che ancora oggi qualcuno usi il cut-up. Sono tutti lì a sgranocchiare le ossa di quello che hanno inventato altri, quando basterebbe mettersi a lavorare invece di cercare soltanto di apparire.

Perché non lo fanno secondo te?
Io mi chiedo spesso perché fanno musica. Potevano lavorare come operai e in alcuni casi avrebbero guadagnato qualcosa di più…

Si può vivere anche senza ammiccamenti al mercato?
Ma sì, non sono l’unico. Non siamo in tanti, certo, però c’è chi ha cerato di uscirne. Come Rino Gaetano, in modo più disincantato. Lui lo apprezzavo. Oppure mi piace il percorso di Flavio Giurato.

Sui social c’è una foto che gira di te insieme a Vasco Rossi ed Eugenio Finardi.
Era il maggio del 1983 a Bari per la trasmissione televisiva di Rai 2 Azzurro dove partecipavo con Ch’an Cha Cha.

Eri a un passo dal successo.
Un po’ l’ho provato, ma è durato poco che mi riconoscessero per strada.

Non eri pronto a nessun compromesso per avere successo?
No, in assoluto mai! Come diceva Borruoghs, devi costruirti un buon nome, devi proteggerlo, così come il tuo lavoro. E non avere il desiderio di ammucchiare denaro. Può essere scomodo a un certo punto averne poco, ma non è quello l’importante nella vita.

Hai mai pensato: se avessi detto sì quella volta, forse con quei soldi avrei potuto vivere più comodamente?
Qualche volta ci ho pensato, ma se tornassi indietro sono certo che rifarei le stesse scelte. Non sopportavo più quella gente improvvisata che bazzica il mondo dello spettacolo.

Per esempio?
Caterina Caselli alla CGD, non ha mai capito che avrebbe dovuto frequentare altri circuiti. Mi metteva in quelli buoni per Drupi. Ma in quel periodo stavano già nascendo altre strade. Lei non ha compreso ciò che aveva per le mani. Era convinta di poter entrare nel mainstream con certi artisti come me, come Pierangelo Bertoli, gli Area o Mauro Pagani.

C’era qualcuno con cui sei rimasto in buoni rapporti?
Con Enrico Ruggeri anni fa giocavamo a casa mia con i primi videogame. È tanto che non ci sentiamo. È molto bravo a scrivere i testi. Le musiche sono un po’ rétro, ma è uno valido. In Italia non c’è molto che apprezzi. A parte la truffa di De André… l’unico che ho riscoperto è Lucio Dalla. Grande personaggio e grande artista, ha scritto davvero delle bellissime canzoni. Un genio!

Perché consideri Fabrizio De André una truffa?
Perché era un borghese fascista camuffato da anarchico. Non mi ha mai convinto per niente. A parte in alcune canzoni, come La domenica delle salme. I testi in generale erano delle stupidate e musicalmente non è mai valso niente. Quando ha provato a fare un disco più “musicale” come Creuza de mä si è perso, perché lui non ne sapeva assolutamente nulla. Io conosco chi ci ha lavorato veramente a quel disco e i suoni erano ormai passati da anni dopo che era uscito Remain in Light dei Talking Heads. Le sonorità etniche in Remain in Light sono gestite sapientemente. In Creuza de mä fanno veramente pena.

C’è chi considera Fabrizio De André un poeta…
È un altro che arriva dalla scuola di Georges Brassens. De André era uno di famiglia ricca che si spacciava per anarchico. Ridicolo! Non sapeva scrivere canzoni e musicalmente non valeva nulla. Neanche Brassens musicalmente era granché, solo che lui scriveva cose esagerate, perché era un poeta vero. Se De André è un poeta, allora Ungaretti è un deficiente? Ci hanno provato anche con me a definirmi poeta, ma li ho mandati a cagare. Ma sai che Luvi De André, la figlia, mi chiamò per collaborare?

Su quale progetto?
Mi cercò perché gestiva un giovane cantante e aveva bisogno dei testi. Furono molto gentili, ascoltai le musiche di quel ragazzo e poi mi chiesi: «E io cosa c’entro con questo?». Sono i classici errori dei discografici, associare cose che non c’entrano nulla l’una con l’altra. Le dissi che non ero interessato e ci rimase un po’ male.

Immagino che sulla falsariga di De André tu non apprezzi neppure Guccini…
Ma no, per piacere! Questi che sono sempre attaccati alla sinistra, come Bertoli. Non mi è mai piaciuto schierarmi, non lo farò mai. Destra, sinistra, perché farsi prendere per il culo così?

Diversi artisti ti prendono come riferimento in particolare per la new wave o il rock in italiano, da Emidio Clementi (Massimo Volume) a Federico Fiumani (Diaframma) e fino a Andrea Chimenti (Moda).
Perché sono nati dopo. L’imprinting musicale ce l’hai a 14 anni. Loro sono particolarmente innamorati della new wave, ma io ho cambiato subito strada. Prima verso la no wave di New York e poi su una mia via personale alla musica. Il periodo new wave ha solo rafforzato le mie convinzioni.

Anche i Litfiba delle origini erano considerati new wave.
Quello è un gruppo fintissimo! Soprattutto Piero Pelù. Ricordo quando cantò la canzone contro la guerra nel Kosovo, Il mio nome è mai più, con Jovanotti e Luciano Ligabue. Spero che non si permettano proprio mai più di fare una cosa del genere, perché alla prossima gli vado proprio addosso. Sono stati veramente una vergogna!

Non ami la musica impegnata su temi sociali?
Se uno ci mette impegno per scrivere musica e testi è un conto, ma non se sfrutta certi temi. Come ti ho detto, in questo senso apprezzo Flavio Giurato, oppure Alberto Radius. Ce ne sono diversi che lavorano con serietà e impegno. In quel caso furono indegni.

Ho letto che consideri i discografici dei gran somari.
E lo confermo! Ai tempi sapevano anche leggere e capire qualcosa. Non sempre e non tutti. Di sicuro non oggi, che sono degli ignoranti totali. Guardano solo chi ha più visualizzazioni. I discografici li assumono come i manager della Bmw. Non hanno niente a che fare con la musica.

Quando ti vedremo live?
Sono un po’ pigro sui concerti. Non mi dispiacciono, ma ho più voglia di creare musica.

Un aspetto interessante della tua produzione, a parte l’album Lost and Found per i motivi che hai spiegato prima, è che ha sempre visto l’uso dell’inglese. Da cosa nasce questa esigenza?
A parte il disco uscito a mia insaputa, è la lingua che conosco meglio oltre l’italiano. È una esigenza relativa ai testi. Quando scrivo non vorrei toccare nemmeno una sillaba, perché rischi di rovinare la melodia. Allora a volte ricorro all’inglese. Una lingua semplice, monosillabica. Poi questa formula è stata ripresa da Franco Battiato con scarsi risultati…

Non dirmi che sei critico anche verso Battiato…
Non lo conosco e non ho mai sentito niente di suo…

Non ci credo…
Ma dai, si è fatto addirittura passare per allievo di Stockhausen e non lo è mai stato.

Battiato raccontava di un loro incontro.
Stockhausen in quel periodo era in Italia per un workshop e in tanti hanno partecipato, compreso Battiato. Poi, come si fa anche oggi, si chiedeva una foto ricordo. Da quello scatto ha messo in giro la balla che è stato allievo di Stockhausen, ma non avrebbe mai apprezzato la sua musica.

Hai conosciuto Battiato?
Purtroppo sì… L’ho sempre trovato molto finto, falso e anche decisamente rompicoglioni.

Questo personalmente. E musicalmente?
Quando è uscito con l’album Gilgamesh l’ha preso in quel posto… perché la critica musicale, quella vera, l’ha letteralmente stroncato. Ma lui è anche quello di Un disco per l’estate, ne ha fatte di tutti i colori per avere successo. Si è sempre improvvisato. Come con Gurdjieff, un cialtrone che ha preso un po’ di Oriente e Occidente e li ha messi insieme. William Burroughs ha parlato degli adepti di Gurdjieff descrivendoli come una setta fascista improntata al potere sugli altri. E Burroughs ha sempre ragione, ricordatelo. Come quando si è infiltrato in Scientology… Gurdjieff aveva creato una setta come quella Alejandro Jodorowsky, sono degli emeriti coglioni.

Non salvi proprio nulla della discografia di Battiato?
Diciamola tutta. Battiato ha scritto qualche bella canzonetta. Ma il fatto che fosse così famoso è l’esempio lampante che la sua musica contasse poco. È stato bastonato dalla critica della “musica seria” con Gilgamesh e poi è andato al ribasso. Ti racconto un aneddoto divertente. Una volta Battiato era da Caterina Caselli e sua madre, che lo aveva accompagnato, era in sala d’attesa. A un tratto vide delle ciliegie su un tavolo e ne mise in bocca una. Peccato che fossero di vetro…

Fausto Rossi al Caracol di Pisa. Foto: Dania Gennai

Hai guardato l’ultimo Sanremo?
No, per me è una delle istituzioni di abbattere. Come tutte, ma quella in particolare.

Lo scorso anno Sanremo ha lanciato i Måneskin che hanno conquistato il mondo.
Li ho ascoltati, non sanno scrivere testi e non sanno suonare. Sono giovanissimi, ma potrei portare mille enfant prodige che suonano meglio di loro, solo che non hanno coscienza di quello che suonano. Hanno mai ascoltato Keith Richards? Gli bastano due note, quelle giuste, per fare un concerto. Come Eric Clapton, Jeff Beck, Santana. Bisogna saper suonare! Quando schiacci una nota deve dare emozione. I Måneskin sono un prodotto della casa discografica. Poi non hanno come padrino Manuel Agnelli?

È stato il loro coach a X Factor e li ha tenuti a battesimo.
Mi è bastato ascoltare la versione di Hey Bulldog dei Beatles eseguita dagli Afterhours per capire tutto. Una vera merda. Lui che canta in un inglese che non esiste, i musicisti che non sanno suonare.

In Italia hai già stroncato quasi tutti. A livello internazionale chi apprezzi?
Ultimamente ho rivisto in tv un omaggio a John Lennon. In platea c’erano anche McCartney e Ringo Star. In tanti si esibivano e Annie Lennox ha fatto una interpretazione magistrale. Un bel momento però sale sul palco un certo Ed Sheeran, un vero ignorante.

È uno che ha battuto ogni record di vendite.
Va bene, ma non sa suonare la chitarra. Si sentiva il rumore delle corde che non schiacciava bene. Mi sono andato ad ascoltare alcune sue cose e ha dei testi per bambini con musiche per anziani. Tanto che quando hanno inquadrato McCartney scuoteva la testa. Non capisco davvero come faccia ad avere miliardi di visualizzazioni e a vendere milioni di copie. Al confronto con lui i Litfiba sono dei geni. Basterebbe Donovan per sotterrarlo, e non voglio neanche citare Dylan. Se un amico mi vuole far incazzare basta che mi faccia sentire Ed Sheeran.

Hai qualche rimpianto a livello artistico?
Altro che, più di uno. Una volta una persona aveva portato a una etichetta britannica il mio album J’accuse e dopo averlo ascoltato erano pronti a pubblicarlo a certe condizioni. In realtà erano delle figate! Avrei dovuto riscriverlo in inglese, con musicisti inglesi e pubblicarlo come album inglese. Solo che questo personaggio ha chiesto una percentuale senza dirmi nulla, loro lo hanno mandato a quel paese e non hanno più voluto saperne niente. L’ho saputo molto tempo dopo. E non è l’unica…

Già che ci siamo…
Caterina Caselli mi aveva detto che il disco L’erba era stato fatto sentire da amici comuni a David Byrne, che aveva fondato da poco una nuova etichetta, e sembrava interessato. Solo che l’intermediario, quando è tornato Italia, appena sceso dall’aereo è stato arrestato per Mani Pulite.

Questa si può chiamare anche sfiga.
Hai visto che fortuna? Altre volte ci ho messo del mio.

Per esempio, quando?
Con Ornella Vanoni è stata una bella occasione mancata. Veniva spesso in studio alla CGD suo figlio quando registravo. Si metteva in un angolo e ascoltava. Un giorno mi chiama direttamente lei: «Ciao, sono Ornella e avevo pensato a te per un testo di una mia canzone». Accidenti, la apprezzavo e la consideravo come una delle più brave. Poi ha aggiunto: «Mi piacerebbe un testo sull’insonnia». Evidentemente ne soffriva in quel periodo. E a me è uscita questa risposta stupidissima: «Scusami, ma io non soffro di insonnia…». Dall’altra parte della cornetta il gelo… Ci siamo salutati e non l’ho più risentita. Ma ne avrei una lunga sfilza di occasioni mancate.

L’ultima, sennò poi sembra una intervista solo di rimpianti.
Quando mi contattò Rosalinda Celentano che aveva scritto una musica molto bella e pensato a me per il testo. L’ho scritto volentieri e poi siamo andati in sala prove. La canzone nel complesso era venuta bene e avrebbe dovuto portarla a Sanremo. Ma dalla produzione si sono messi di traverso dicendo che il pezzo non aveva mai momenti di pausa e quindi volevano riarrangiarlo. Lei si è opposta e così non è andata al Festival. Alla fine il testo l’ho messo nel mio album Cambiano le cose. Rosalinda è un bel tipo, una volta mi ha anche fatto una proposta…

Adesso puoi dirla essendo passati trent’anni.
Uscendo dallo studio mi ha detto: «Senti, ma perché non ci fidanziamo?». Io ho fatto il finto tonto: «Ci fidanziamo?». Una risata e siamo andati oltre. Certo, diventare parente di Adriano Celentano mi avrebbe aiutato… Rosalinda è una persona molto intelligente, ha una mente vivace.

Se non sbaglio non hai figli. È stata una scelta?
Alla fine sì, è stata una scelta. Non avevo tempo. Da una parte mi dispiace, dall’altra va bene così. Vedo tutti questi musicisti con la fede al dito e mi sembrano come i calciatori. Non vedono l’ora altro che di guadagnare più soldi. Non ve ne farete niente, tra dieci anni il vostro nome sarà cancellato!

Come pensi di essere ricordato artisticamente?
Non ci penso. Può essere che qualcosa di mio rimarrà nel tempo, ma la musica cambia molto velocemente. Il fatto è che in altri Paesi sono più avanti dell’Italia. Non tanto per la canzone, quanto nella sperimentazione. Come possiamo essere ancora così ignoranti? Sicuramente perché l’informazione è quello che è. All’estero c’è spazio per l’intrattenimento, ma se vai a un concerto di musica sperimentale trovi tanto pubblico. È come nel metal o nel reggae, c’è più spirito di appartenenza e più cultura. Qui al massimo ci vanno dieci persone.

E umanamente come vorresti essere ricordato?
Come uno che ha fatto di tutto per portare avanti ciò che amava e senza costrizioni.

In passato hai detto: «A volte vorrei uscire da questo mondo e l’unico modo mi sembra la morte. Spero che arrivi il più in là possibile e che sia eccitante». Lo pensi ancora?
Adesso me la immagino come un momento di solitudine. Dove puoi essere attorniato da alcuni amici, ma in fondo è una condizione solo tua. Da allora ho letto e imparato tante cose, come l’idea del reincarnarsi. Non ne sono convinto, ma è una possibilità. Sono sicuro di una cosa, però: che il ritrovarsi ancora qui su questa Terra sarebbe un po’ deludente. Meglio sulla Luna.

Iscriviti