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Curtis Harding regala fiori immaginari

Viene da Atlanta, ma non somiglia ai rapper locali. Ama i classici soul e funk, e in 'If Words Were Flowers' diffonde messaggi positivi. «Attenti alle parole che usiamo, guai a diffondere negatività»

Foto: Matt Correia

È la vigilia del Ringraziamento e Curtis Harding sta tornando da Los Angeles ad Atlanta, la città in cui vive da parecchi anni, per festeggiare con la famiglia. «Sarà una cena molto semplice e intima, ma abbiamo tanto di cui essere grati, quest’anno: siamo ancora tutti qui e tutti insieme, nonostante quello che è successo nel mondo», dice con grande semplicità al telefono. Come molti altri musicisti, il lockdown lo ha vissuto in una situazione di straniamento totale. «Era tutto così silenzioso. Ad Atlanta di solito c’è sempre qualcosa in ballo, qualcuno che fa festa o casino da qualche parte, e invece non si sentiva nessun rumore. Avevo la sensazione di poter letteralmente ascoltare i miei pensieri. Credo che tutti condividessimo lo stesso terrore dell’ignoto, in quei giorni, e personalmente ho cercato di impiegare il mio tempo nella maniera più proficua possibile. Ho cercato di accettare e controllare le mie paure, anche se non sapevo chi di noi sarebbe sopravvissuto per vedere la fine di quest’incubo».

Gli anni precedenti alla pandemia erano stati parecchio frenetici, per Curtis. Nativo del Michigan ma residente in Georgia da quando era ragazzino, si può dire che sia predestinato alla musica: sua madre è una cantante gospel itinerante e lui stesso gli fa da corista fin da bambino, mentre la sorella, che rappa per divertimento, e lo introduce alla scena hip hop di Atlanta. «Frequentavo soprattutto il giro degli Outkast e della Dungeon Family», ricorda. «Senza l’aiuto di Andre 3000 non sarei mai riuscito a emergere come artista: era lui a farmi entrare nei club, a presentarmi la gente e a invitarmi in studio. Ho imparato moltissimo, e devo ringraziarlo».

Il suo primo lavoro vero nell’industria discografica è un ingaggio da corista per il debutto solista di CeeLo Green, altro cantante scoperto dagli Outkast e appena fuoriuscito dai Goodie Mob. Fonda anche un suo gruppo, i Proseed. Ma il panorama hip hop a Curtis Harding sta un po’ stretto. Non perché non gli piaccia, anzi: «Mi ispira ancora oggi, perché da queste parti è la musica che ti capita di sentire dappertutto. Nei bar, nei club, per strada, in radio, dalle finestre aperte dei vicini… C’è ancora molto roba interessante e influente, i ritmi e le progressioni armoniche di molta della nuova musica rap spaccano». I suoi interessi musicali sono più onnivori, però: in particolare adora Sly and the Family Stone, la multiforme e inetichettabile band che negli anni ’70 cambiò per sempre i concetti di musica bianca e musica nera. Non a caso, a un certo punto conosce Cole Alexander dei Black Lips e con lui fonda nel 2009 un supergruppo garage, i Night Sun, con cui suona nei locali underground della città.

È a quel punto che capisce che la sua missione sarà quella di sintetizzare tutta la musica che ha assorbito in un sound unico e personale: Soul Power, il suo esordio solista del 2014, non macina grandissimi numeri, ma fa innamorare la critica e il pubblico dal palato più esigente e ricercato, grazie a un sapiente mix di rock, psichedelia, R&B e rimandi all’hip hop lo-fi. E continuerà su questa strada fino al 2019, ovvero a 40 anni appena compiuti. Si sta preparando a pubblicare quello che dovrebbe essere il disco della maturità, quando all’improvviso scatta il lockdown. L’album è praticamente pronto, ma Curtis Harding capisce che ricominciare da capo potrebbe essere una buona idea, visto che tanto deve aspettare a pubblicarlo. «Non l’ho rifatto completamente, ma ho buttato via una buona metà del materiale», spiega. «Ho conservato solo una mezza dozzina di canzoni. Sentivo che, avendo più tempo a disposizione, sarebbe stato stupido non sfruttarlo per registrare di più. Le canzoni che ho scritto durante il lockdown mi suonavano più belle, scorrevano meglio. Così ho deciso di usare quelle». I brani che sono sopravvissuti alla strage sono forse i più classici e maturi: la title track If Words Were Flowers, Can’t Hide It, The One, Forever More, I Won’t Let You Down. Quelli del lockdown hanno un che di piacevolmente ludico e sperimentale.

Il titolo, che significa letteralmente “se le parole fossero fiori”, ricorda un po’ il motto anni ’70 “mettete dei fiori nei vostri cannoni”. « È una bellissima metafora, in effetti. Volevo esprimere lo stesso sentimento, anche se forse non esattamente lo stesso concetto», commenta. L’idea arriva da una frase che gli ripeteva sempre sua madre: «i fiori regalameli fintanto che sono ancora viva, anziché portarmeli al cimitero». «Era una specie di mantra, e anche mia nonna lo diceva sempre a lei. È un classico motto che tutti i genitori neri ripetono ai figli, immagino», dice Curtis. «Ma il titolo dell’album è anche un invito a stare attenti alle proprie parole, a esserne responsabili, a essere sicuri di scegliere quelle giuste quando parliamo con gli altri. Bisognerebbe stare attenti a non diffondere troppa negatività nel mondo». Senz’altro lui le parole le ha dosate parecchio, tant’è che la title track di fatto contiene una sola frase, rarefatta all’interno di un arrangiamento denso e debordante: “If words were flowers / I’d give them all to you / They carry power / So proud and beautiful”. Se le parole fossero fiori, le donerei tutte a te; portano con sé un potere, così orgogliose e belle. «Puoi essere molto articolato e prolisso, usare paroloni altisonanti e rari, ma non esprimere nessun significato. E a volte basta una frase per dire tutto», chiosa.

Curtis Harding considera i suoi dischi come un corpus unico, ragion per cui ha molto apprezzato la scelta di Adele di chiedere a Spotify di rimuovere il tasto shuffle. «Personalmente preferisco anch’io che l’album venga ascoltato dall’inizio alla fine, così come l’ho pensato», spiega. Ci ha messo parecchio impegno perché uscisse così come lo voleva, ma nel lockdown non ha pensato solo alla musica, ci tiene a sottolineare. «Ho panificato molto, come tutti!», scherza. «Soprattutto un sacco di banana bread, ma mi sono messo anche a fare pizze in un forno a legna che avevo in cortile e ho sperimentato ricette che non avevo mai provato. Ho letto tanto, ho guardato film, ho avuto molto tempo per me stesso e per scoprire nuovi hobby. Ad esempio, la degustazione di vini biologici. Ho cominciato ad assaggiarne parecchi mentre scrivevo: accendevo le candele e mi versavo un bicchiere o due per creare l’atmosfera. È diventato una specie di rituale».

Adesso che è venuto il momento di uscire dal suo bozzolo, si prepara a tornare in tour nel 2022, prima negli Stati Uniti e poi in Europa. «Non vedo l’ora, anche perché penso che la gente sarà ancora più motivata ad andare ai concerti e ad ascoltare davvero la musica che viene suonata sul palco, dopo così tanto tempo senza. Spero solo che tutti stiano attenti alla propria salute e che non chiudano tutto di nuovo», ride. Un po’ nervosamente. Un po’ come tutti noi.

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