L’intervista di Rolling Stone a Courtney Barnett: come cantare del (quasi) nulla | Rolling Stone Italia
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L’intervista di Rolling Stone a Courtney Barnett: come cantare del (quasi) nulla

Ama (e canta) la poesia delle cose di tutti i giorni, così questa 26enne australiana ex commessa ed ex barista è diventata la cantautrice del momento

Courtney Barnett, credit Mia Mala McDonald

Courtney Barnett, credit Mia Mala McDonald

Courtney Barnett è stravaccata su una sedia, mangia patatine al formaggio per colazione e cazzeggia con la sua band. Parla dei diversi significati della parola cunt nel mondo. «In America significa “stronzo”, se la dici la gente reagisce molto male», dice Courtney, 27 anni, australiana. «È vero», conferma il suo bassista, una specie di cavernicolo con gli occhi da pazzo soprannominato Bones. «Una volta, durante un concerto negli Stati Uniti, tutti hanno pensato che avessi detto che la band che aveva aperto per noi fosse “un gruppo di stronzi”. È che da noi in Australia cunt vuol dire “fighissimi”. Errore gravissimo».

Sono le 9 del mattino e Courtney Barnett indossa gli stessi vestiti di ieri: jeans neri bucati sotto al ginocchio, Dr. Martens distrutte e una giacca che ha tenuto su ininterrottamente da quando un rappresentante della Levi’s gliel’ha regalata l’anno scorso. «Non ho molti vestiti», spiega. Attaccata alla tasca della giacca c’è una spilla dell’associazione animalista Amici del possum di Leadbeater, che lotta per la difesa di questo marsupiale australiano. Bones racconta un’altra oscenità da tour: qualcuno a Philadelphia gli ha gridato un insulto che nessuno ha capito, ma che aveva a che fare con una piovra, e lui ha mimato dal palco una masturbazione a otto tentacoli. Me la ripete per farmi capire. Courtney ride, tira su un po’ di rimasugli arancioni di patatine dal sacchetto e se li mette in bocca.

Questa è la vita di una delle star emergenti più seducenti, una delle migliori nello scrivere di riflessioni annoiate in bilico perfetto tra profondità e banalità sopra basi di sfacciato garage rock. Il suo mondo è generalmente piccolo, le sue canzoni parlano di bere vino nel salotto di casa di un amico, descrivono le crepe nell’intonaco di un muro con la precisione e profondità interpretativa di una chiromante o raccontano il viaggio in treno sulla linea dei pendolari da Melbourne al sobborgo di Epping. Eppure, per qualche strana ragione, questo suo piccolo mondo sembra grandissimo. Nel 2013 Courtney Barnett ha raccolto tutte le canzoni che aveva registrato e ha pubblicato un EP intitolato The Double EP: A Sea of Split Peas, che ha avuto ottime recensioni e l’ha portata prima in televisione al Tonight Show di Jimmy Fallon e poi sul palco del Coachella. C’era anche la sua prima hit, Avant Gardener, una canzone psichedelica da 1,2 milioni di visualizzazioni su YouTube, in cui ha raccontato con rime molto divertenti e qualche riferimento a Pulp Ficton la storia vera di un suo tentativo di dedicarsi al giardinaggio che è finito con una crisi di asma, un attacco di panico e una corsa al Pronto Soccorso. Immersi nell’atmosfera stonata di questo pezzo, però, ci sono argomenti seri, come la frustrazione delle ambizioni e il terrore che provi quando hai la sensazione di buttare via la tua vita.

In questo momento Courtney è nella control room della radio di Santa Monica KCRW, ospite del popolare programma del mattino Morning Becomes Eclectic, che l’ha invitata per svegliare gli ascoltatori con qualche canzone dal suo fantastico album di debutto Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I Just Sit.
«È un vero delirio», mi dice. È atterrata ieri da Sydney ed è stata portata subito nello studio del programma televisivo di Ellen DeGeneres per partecipare a una puntata in cui l’ospite principale era Michelle Obama. «Ci hanno perquisito, hanno rovistato nei bagagli, l’Fbi ha controllato la nostra fedina penale e tutti i nostri precedenti». Quando parla, Courtney sembra sempre piacevolmente stordita. È sedata almeno quanto Bones è rumoroso. Il che, ammette, fa di lei la più improbabile delle rockstar: «Il mio lavoro ideale sarebbe stato al reparto pacchi nel sotterraneo dell’ufficio postale, oppure a riempire gli scaffali del supermercato di notte, quando è chiuso». In realtà, ha un carisma speciale che riesce ad attivare quando vuole.

A 20 anni vendeva Nike e adidas in un negozio di scarpe a Melbourne: «Ero piuttosto brava a scegliere cosa dire in base a chi avevo davanti. Se erano scortesi e pieni di soldi, gli dicevo quello che volevano sentirsi dire. Ma a quelli normali, che mi parlavano di cosa avrebbero fatto nel weekend e sembravano persone perbene, dicevo: “Non spendere 300 dollari per queste cazzo di scarpe, tanto prima o poi le dovrai buttare”». Le dicono che è ora di andare in onda. Courtney raggiunge Bones e il batterista Dave Mudie accorda la chitarra e prova i suoi nove pedali degli effetti. Quando suona chiude gli occhi o guarda verso il basso. A volte si attacca con le labbra al microfono, come se ci si appoggiasse con tutto il suo peso.

Nel nuovo disco, una delle sfide che si è posta è stata quella di scrivere del mondo là fuori e di parlare di qualcosa di più grande delle sue disavventure in giardino. In un pezzo, Dead Fox, è arrivata a mettere in relazione gli animali investiti per strada, l’ambientalismo, l’industrializzazione dell’agricoltura e l’alienazione del capitalismo moderno. La canta e sorride a ogni impercettibile errore, alle note mancate e alle storpiature, che in realtà sono perfettamente in linea con la sua estetica sgangherata, e che contrastano con il senso di rabbia e tristezza che sta dietro ai suoi testi. «Cosa c’è di così divertente?», le chiede la conduttrice. Lei si guarda intorno e sorride nervosamente: «Tutto». In Australia, Courtney vive con la sua fidanzata, la cantautrice Jen Cloher, con la quale sta da quattro anni. È una relazione creativa: lei e Jen gestiscono una piccola etichetta indipendente chiamata Milk! Records (Courtney l’ha fondata in camera da letto) e a volte vanno in tour insieme. Courtney ha continuato a lavorare come barista al Northcote Social Club – un posto dove lei e i suoi amici suonano spesso – anche quando la sua carriera è decollata. Alla fine ha smesso, anche se con la riluttanza di chi sa bene quanto è brutto essere senza soldi e ha sempre paura che possa succedere di nuovo. È nata a Pittwater, una città sul mare a un’ora da Sydney. Sua madre era una ballerina e suo padre è un designer grafico: «È un posto di surfisti, ma noi vivevamo fuori città, in una casa circondata da alberi enormi. Io e mio fratello andavamo in bicicletta, giocavamo a basket, ai videogiochi e alla guerra nella foresta». Da ragazzina ha studiato danza, ha giocato a tennis e ha cominciato a suonare la chitarra influenzata da Jimi Hendrix, Kurt Cobain e Smoke on the Water.

«Mi ricordo che a 12 anni ho scritto una canzone intitolata You che parlava degli sguardi, dei capelli e di tutto quello che ci si può aspettare da una canzone d’amore. Ho avuto dei fidanzati, mi piacevano i ragazzi. Poi mi sono resa conto che quei sentimenti erano solo cose di cui avevo letto». Al liceo, «ero quella che suonava la chitarra e leggeva un sacco di libri». A un anno dal diploma, ha avuto la sua prima fidanzata: «Non l’abbiamo detto a nessuno, perché avevamo paura dell’opinione degli altri a scuola. Quando l’hanno scoperto è stato strano, ma alla fine sono stata fortunata, perché mi hanno accettato tutti». Ai genitori «non ho detto niente per un anno, finché quella relazione non è finita. Ero molto spaventata, ma loro mi hanno detto: “Lo sapevamo già”». Aveva il desiderio di gettare lo sguardo sulle cose semplici per renderle speciali. Perciò si è iscritta all’Università della Tasmania con l’idea di diventare fotografa. Dopo due anni, però, ha mollato tutto per la musica. Si è trasferita a Melbourne, ha sofferto di depressione, ha preso anche dei farmaci. Cosa la rendeva infelice? «Non c’è mai un vero motivo», dice, «è sempre una questione di prospettiva. Non mi piace parlarne, però in generale non uscivo mai di casa. Ero disoccupata, è diventata una spirale discendente in cui una cosa si tirava dietro l’altra. E io semplicemente non ci capivo più niente».

Il suo cervello, dice, è come una macchina che non riesce a spegnere. Ha provato con la meditazione, su suggerimento di Cloher, ma non ha funzionato: «Mi sono ritrovata frustrata e arrabbiata, perché non riuscivo a smettere di pensare. E in teoria la meditazione dovrebbe liberarti la testa dai pensieri». Alla fine, con il tempo, ha imparato ad accettare i suoi pensieri, invece che tentare di reprimerli. Ha cominciato a riempire diari di disegni ed elucubrazioni mentali, poi li ha riletti cercando materiale per le canzoni. Ha messo ordine in quel flusso di parole e poi le ha adattate al suono della chitarra: «Il punto fondamentale è che posso rendere più chiare tutte le mie idee, le emozioni e le questioni irrisolte. Quando affronti la depressione è molto facile provare a distrarti o prendere medicine per alleviarla. Ma io credo che sia importante sentire la sensazione di dolore».

Finita l’esibizione in tv, Courtney, Bones e Mudie vanno in una galleria d’arte di Los Angeles dove sono esposti i disegni a inchiostro e penna che Courtney ha fatto per la copertina di Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I Just Sit. «Sono una rappresentazione del titolo, ma anche un ricordo di infanzia. Mio padre collezionava vecchie sedie e mobili vintage. Diceva di volerli rimettere a posto, ma poi finivano sempre in giro per casa inutilizzati».

I roadie stanno allestendo un palco dove stasera Courtney farà un concerto per 200 fan, un po’ di amici e qualche vip tipo Moby: «Ho pensato che fosse più carino fare un concerto che comprare un cartellone pubblicitario in metropolitana», mi spiega. Prima del soundcheck andiamo in un bar dietro l’angolo, dove lei ordina un Michelada, un cocktail messicano. Mi racconta di quanto era felice quando Avant Gardener è diventato un tormentone, anche se non ha nulla che assomigli a un ritornello tradizionale: «Mi sento come se avessi fatto uno scherzo a tutti». A volte scrivere è un vero esercizio: «Mi chiedo: “Sono in grado di scrivere una canzone su questo drink?”. È una sfida». Beviamo qualcosa e torniamo alla galleria. Attraversiamo un incrocio, lei guarda dalla parte sbagliata e viene quasi investita da un camion. Ride e riprende il filo del discorso. I suoi disegni sono un assortimento sgraziato di sedie con brevi didascalie (tipo: “Sedia che ha bisogno di un rivestimento nuovo”): «Mi piaceva l’idea di essere circondata da tutte queste bellissime cose rotte».

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