Cosmo: «Il futuro è tornato» | Rolling Stone Italia
Interviste Musica

Cosmo: «Il futuro è tornato»

‘La terza estate dell’amore’ è un disco nato da una liberazione: dai confini di genere musicale, dai riti dell’industria, dall’isolamento della pandemia. È un disco in cui si torna a parlare di futuro. Ora l’obiettivo è farne un sentimento collettivo e trasformare i concerti in sabba. «Il prossimo non sarà un tour, sarà un degenero»

Foto: Chiara Lombardi

Non servono molti discorsi preliminari a introdurre questa lunghissima chiacchierata con Cosmo. Del resto, nemmeno lui ha approntato tante cerimonie e svolazzi introducendo al mondo e al suo pubblico La terza estate dell’amore: una diretta improvvisa e inaspettata (e molto metafisica) su YouTube; un manifesto pubblicato su Instagram; niente interviste, niente conferenze stampa, niente anteprime scintillanti. Del resto ora più che mai Marco Jacopo Bianchi vuole rompere tutta una serie di consuetudini, convenzioni, sicurezze. Con che conseguenze? «Mi sono stufato di stare zitto», ci dice a un certo punto. E in effetti è così: giudizi senza filtri e senza vie di mezzo, esattamente come anche il materiale nuovo è crudo come non mai e deciso come non mai nel perseguire una via che si allontana – sempre più radicalmente – dal pop come l’abbiamo finora conosciuto.

Bene. Album nuovo. Partirei da Io ballo: sai che ascoltandola mi sono venuti in mente i Future Sound of London? E te lo dico non come citazione da nerd, per uno sfoggio di cultura e nozionismo, ma perché quando uscivano i loro dischi migliori, metà anni ’90, comunicavano proprio un’idea di futuro a tutti noi che li seguivamo (vabbè, già dal nome). Ecco: la musica fatta in quella maniera, fatta cioè come la facevano loro e con tutto l’immaginario che ci costruivano attorno serviva a farti immaginare il futuro, a proiettarti verso di esso. Sbaglio o questa componente oggi è invece quasi assente?
È assolutamente così. Vedi, a me piace molto chi cerca di interpretare la realtà leggendo i segni della cultura pop: e se guardiamo alla musica, dove la poetica trap si è abbastanza impossessata di ciò che è pop, la narrazione del futuro oggi come oggi proprio non esiste. Quello che esiste invece è la narrazione di un presente difficile, desolato, in cui si è soli contro tutte le sfide e sì, soprattutto non c’è la visione di un futuro. Per me è stato il contrario, soprattutto da quando sulle nostre vite sono calati la pandemia, il Covid, i lockdown: mi è venuta una fortissima sete di futuro. Di affrontarne attivamente la costruzione. Non lo so: mi viene da dire che la musica della prima parte degli anni ’90 nasceva da un mondo in subbuglio, che stava ancora digerendo il crollo del Muro di Berlino. E ora? Ora che stiamo vivendo un evento ancora più traumatico e destabilizzante? Vediamo cosa nascerà adesso, come conseguenza della pandemia. Se guardo a me, sì, ti confermo: il futuro è tornato. È un pensiero fisso. Ma spero diventi presto un sentimento collettivo, non solo una cosa mia.

Tutto questo è un discorso che avevi chiaro in mente ancora prima di iniziare a lavorare all’album?
No. È emerso durante la lavorazione. Probabilmente proprio il fatto di essere stati così a lungo chiuso e segregato mi ha dato la spinta verso l’evasione, l’immaginazione. La verità è che se pensi solo al presente, non ti puoi salvare: ci vai sotto. Soccombi. Hai bisogno invece, ora come non mai, di immaginare un futuro. Un futuro in cui tu sia parte attiva, che sia ritagliato su di te – e può essere ritagliato su di te solo se sei tu a crearlo, a manipolarlo. E se non te lo danno, beh, devi rubarlo questo futuro. Devi arraffarlo, prima che altre forze te lo sottraggano.

Se uno la guardasse in maniera cinica e puramente mercantile verrebbe però da dire che tu il tuo futuro te lo stai quasi sabotando, uscendo con un disco come La terza estate dell’amore: un album abbastanza estremo, che scardina definitivamente la forma-canzone classica, poco incline a compromessi, esplicitamente viscerale e, come dire?, svergognato… Insomma, non il lavoro di uno che calcola bene i propri passi. E che pensa già a costruirsi il fondo pensione.
E invece, un album come questo la vedo come unica soluzione possibile per darmi un futuro.

Sì, eh?
Sarà che ormai sono talmente immerso in quello che sto facendo, nelle idee, nelle sensazioni che provo… L’unica soluzione che vedo è condividerlo senza filtri. Farlo mi riempie di energia come nessun’altra cosa.

Foto: Chiara Lombardi

A occhio, sentendo Antipop, l’industria musicale di energia te ne dà invece sempre meno. È abbastanza un’invettiva quel brano lì, contro il sistema della discografia standard: “È musica / No fabbrica”.
Beh sì. Del fastidio c’è.

Manco piccolo, aggiungerei.
Decisamente. E questo prima di tutto per un semplice motivo, se vuoi anche molto egoistico: mi annoio ad ascoltare un sacco di musica che esce oggi in Italia. Tanto. Ascolto, skippo, mi stufo subito. Soprattutto le cose più pop. Guarda, trovo deprimente che nel momento in cui c’è finalmente una generazione nuova che si è impossessata delle classifiche – ed era ora – ciò che ha fatto è stato semplicemente sostituirsi a chi c’era prima, adottandone attitudini ed abitudini consolidate che, sinceramente, trovavo già mediocri. Il ricambio insomma c’è stato, sì, ma non nell’attitudine o nella mentalità: ed è abbastanza assurdo, un’occasione che stiamo perdendo che faccio fatica a spiegarmi. Continua ad esserci parecchia paura di non scontentare il pubblico, di non essere passati in radio, di innervosire i grandi network, cose così: come se tutto dipendesse da questo.

In effetti…
Oppure, c’è questa scelta esplicita di andare sempre incontro alle supposte capacità mentali del pubblico suddetto, «meglio che non mi metta ad osare, questa non la capiscono», partendo dal presupposto che automaticamente ci sia l’obbligo di fare scelte al ribasso, conservative, banali. Così come si parte dal presupposto che, visto che il pubblico è così, è stupido, allora è meglio essere semplici, veloci, immediati, chiari a prova di stupido, prevedibili per non spaventare nessuno. Tutto questo mi annoia tremendamente, ma davvero tremendamente (oltre al fatto che per me il pubblico non è per niente così stupido come lo dipingono). Io ho voglia di giocare, invece, ho voglia di rischiare: e vorrei che fossero molte di più le persone desiderose di farlo, nella nostra scena. Ce ne sono, eh; ma quando si parla di top seller, di gente che vende… boh, insomma. Parlavamo di Future Sound of London, di metà anni ’90: bene, erano anni in cui in molti casi finivano nel mainstream pure gruppi che proprio se ne fregavano di fare le cose secondo le convenzioni, gente che faceva carta straccia di ogni regola consolidata valida fino ad allora. Penso ai Prodigy, ai Chemical Brothers, agli Underworld… O andando indietro, penso ad esempio al post punk. Non a caso miei riferimenti continuano ad essere questi e, se ci pensi, sono tutti riferimenti in cui bene o male c’era sperimentazione, c’era bene o male un’idea di futuro, una voglia di proiettarsi in avanti, di tagliare i ponti col passato (e, se è per questo, anche col presente così com’era, diciamolo). Insomma: è questa serie di convinzioni che mi ha portato a creare una traccia in cui dico che no, non me ne frega nulla di fare una hit. Lo dico e lo penso davvero. Anche perché la realtà è che si possono fare hit in modi molti diversi, non necessariamente seguendo le solite regole.

Adesso peraltro sei un top seller pure tu: sei in quella categoria lì, per l’industria musicale.
Bella storia, no? (Scoppia a ridere) Infatti, è effettivamente così: non mi nascondo, e non me lo nascondo. Non vendo quanto altri però sì, vendo bene. Assolutamente. Ma ecco, questo è il punto: io vorrei vedere pure gente che vende anche ben più di me avere del coraggio. Oltremanica e oltreoceano ce l’hanno, pure nel mainstream: e da noi, invece? Da noi, nella scena pop italiana, c’è abbastanza un cagarsi sotto.

Mmm, bene, l’hai detto.
Oh, tanto ora lo so che userai questa frase come titolo dell’intervista… “Cosmo: nel pop italiano si cagano tutti sotto”…

Nah, i titoli non li faccio io.
Ah sì, vero!

Però in effetti è un’ottima frase: fossi il titolista io sì che la userei. Dopo mando la nota in redazione, oh sì.
Che bastardo… (ride)

Ma visto che ci penserà il titolista a tirare fuori il titolo sensazionalistico, io posso farti invece una domanda un po’ da nerd: sbaglio o in questo album c’è una competenza proprio tecnica, nei suoni, che prima non avevi?
Soprattutto su un certo tipo di elettronica, vero?

Già. Prendi una traccia come Fresca: a livello di scrittura potrebbe benissimo fare parte di Disordine, un album con ormai un po’ di anni alle spalle e che non era ancora pienamente dancefloor oriented come Cosmotronic. Ma a livello di suoni e anche di scelte stilistiche, così come di tanti piccoli particolari, è invece di un livello che prima non avresti mai raggiunto, nemmeno volendolo.
Perché ho spezzato un po’ di argini sonori. Ho sfondato delle pareti. Fresca ce l’avevo in mano, all’inizio, e a un certo punto mi sono detto: ok, ora la giriamo tutta. E allora nel momento in cui entra una roba che sembra quasi Prince ci aggiungo però sopra dei suoni d’ambiente un po’ assurdi… Cose così, capisci? Mi sono divertito da morire a fare tutte le tracce di questo album, tutte! Quando in Fresca ho messo quello stacco brusco che a un certo prende possesso della traccia, mutandola, ho proprio gioito. È bellissimo giocare con la musica: e questa una consapevolezza che in troppi stanno perdendo. Poi se il mercato vuole capire, capirà. Ma ti dirò, io sono ormai dell’idea che il mercato non sia un buon parametro da seguire. Ti frega.

Foto: Chiara Lombardi

Ok, ma in generale è stato solo gioia e divertimento fare questo album, o…?
Verso la fine, quando il disco era praticamente fatto e finito, ho vissuto dei momenti in cui mi faceva tutto schifo. Cose tipo «questo disco è una merda» oppure «ho sbagliato tutto». Ma penso sia normale, no? Durante la registrazione, invece, mai. Mi sono proprio divertito a farlo. Ho ballato un casino. Ho ballato praticamente a ogni lavorazione di traccia, come un pazzo. Una grande festa.

Parlando di festa, uno dei vertici nel disco in tal senso è Fuori. Traccia abbastanza esplicita nel rendere il, diciamo così, boost che ci può essere in una serata. Devo però dire che spesso questo boost, almeno per quanto mi riguarda, da un certo momento in poi può essere sospeso tra euforia a paranoia… Quella fase strana in cui insomma sì, ti stai divertendo da morire, ma sei quasi spaventato da questo tuo divertirti, inizi a percepire che forse è tutto troppo e sta per arrivare invece la botta contraria.
Ah no, io sono sempre euforico. Il momento paranoia non arriva mai. Arriva il calo di tensione a un certo punto, quello sì; ma la paranoia mai, quella è proprio una cosa che per fortuna non mi appartiene.

Però la storia della club culture – e anzi, proprio la sua vita vissuta – è piena di momenti in cui devi gestire la scesa…
Vero.

E gestirla non è sempre facile.
Gestirla fa parte del gioco, semplicemente. E riesci a gestirla al meglio se attorno a te c’è la musica giusta: l’hai notato?

Vero.
Se c’è la musica giusta, anche il momento di paranoia diventa in qualche modo catartico, magico. Ti faccio un esempio molto personale: ci sono stati frangenti nelle feste di Ivreatronic in cui, quando suonava Foresta, entravo veramente in uno stato di trance: non era più una festa, era un sabba. E quando la serata si trasforma in sabba, quello è il miglior accompagnamento possibile per la scesa. Che è anche un viaggio verso l’inferno, certo, ma in qualche maniera lo senti come necessario, benefico. E poi comunque arriva ad un certo punto l’ambient, e cura tutto…

O ti risvegli il giorno dopo intorpidito e con la voce tutta impastata. Esattamente come avviene nella tracklist del disco, dove dopo Fuori c’è Gundala.
Già.

È stato intenzionale?
Per la prima volta la tracklist dell’album non l’ho fatta io. Emiliano (Colasanti, di 42 Records, nda) me ne ha proposta una e non sono riuscito più a cambiarla. E sì, è bella la cosa di accostare l’euforia totale a un momento invece molto più intimo, come alla fine accade. Io di mio non c’avevo pensato: perché sono tracce fatte in momenti molto diversi, Fuori è una delle prime cose a cui ho lavorato e Gundala invece una delle ultime. Gundala comunque a modo suo è una traccia molto romantica. Con dei momenti di apparente malinconia, ma romantica.

Tra l’altro, parlando in generale dei testi de La terza estate dell’amore, mi pare che rispetto al passato – anche quello più recente ed evoluto verso l’elettronica da dancefloor, vedi Cosmotronic – hai lavorato molto di più per frammenti, per singole immagini e flash. Un po’ come storicamente fa Karl Hyde degli Underworld.
Mi fa piacere che noti questa cosa. Se nel fare la parte sonora dell’album mi sono divertito parecchio, trovare la giusta quadra per i testi è stato invece parecchio più complesso e faticoso. Anche per le linee melodiche, sì. Cantavo cose molto semplici, ma nel farlo sentivo che in qualche modo c’era una singola parola che non andava bene, o una inflessione non corretta. Risultato? Passavo il tempo a rifare e rifinire mille volte la stessa frase, anche se era molto breve e semplice. Così tanto che a un certo punto mi sono detto: boh, non so, forse sto impazzendo completamente? Fare le voci mi ha portato via tantissimo tempo. Ho buttato la stragrande maggioranza del materiale e l’ho fatto sempre e solo per dei piccoli dettagli, cose che probabilmente sentivo solo io, ma che per me comunque erano decisive. Avevo chiaro in testa un obiettivo: cercare di superarmi e di farlo togliendomi del tutto il lirismo tipicamente italiano che in origine comunque era anche un po’ mio andando invece più verso la psichedelia. Non so se ci sono riuscito. Ma di sicuro, in questo disco non trovi quasi mai giri armonici.

E certo. Per questo ti dicevo che questo disco è, potenzialmente, un perfetto modo per sabotare il tuo futuro e il tuo fondo pensione.
È tutto molto più monotono, ripetitivo, univoco, lineare, come del resto lo è la musica elettronica da ballo. Spesso il cantato è incastrato su una sola nota. Ma proprio per questo ci ho lavorato parecchio sopra. E sui testi, beh, i testi volevo che fossero sì significativi, ma il meno didascalici e pesanti possibile… Ho lavorato molto per immagini, per piccoli slogan: poi sta a te ricostruirli ed arricchirli secondo la tua sensibilità.

Foto: Chiara Lombardi

Ti stai insomma allontanando da Battisti, che era un tuo vecchio amore. La carriera solista di Cosmo, staccato dai Drink to Me, inizia infatti con delle cover sue.
Ma mi sto avvicinando a Pasquale Panella. Quindi sempre dalle parti di Battisti siamo, no?

Giusto!
In Fresca c’è un passaggio che è un riferimento più che esplicito: “Che palle la spesa / Torniamo a caso”. Più panellismo di così…

Ah sì.
A rigor di logica doveva essere, come ovvio, “torniamo a casa”, ma in realtà quello che stavo pensando era: che noia dover andare a fare la spesa, è molto più divertente andare in giro a caso, camminando senza una meta, ed è una cosa che faccio spesso, anche nella mia città, ad Ivrea. “Torniamo a caso” mi arrivava proprio fortissimo. E l’ho usato.

Insomma, ti stai fidando sempre più delle tue intuizioni.
Sì, vero. Sarà il fatto che un minimo di riscontro dal pubblico l’ho avuto, in questi anni… Ecco, questo è il punto, cazzo.

Cioè?
Ho avuto il riscontro dal pubblico, no? Proprio per questo a maggior ragione dovrei ora poter prendermi delle licenze e fidarmi delle mie intuizioni, senza stare lì a farmi problemi e a fare calcoli. Invece, vedo molti miei colleghi intrappolati nel «caspita, finalmente ho fatto un po’ di successo, ora devo stare attento a non perderlo». Io invece voglio il salto nel buio. Chiaro: la paranoia se ti riesca o meno non può non venire. Ma una cosa è certa: mi posso guardare ogni giorno allo specchio. E non è poco.

Però preparati che La musica illegale può diventare una specie di canzone dei 99 Posse in versione 2.0, la classica roba sloganiera da sparare nei cortei…
(Scoppia a ridere) È fantastico, perché nel momento in cui io e te stiamo parlando nessuno ha ancora sentito nulla e, insomma, non possiamo sapere quale sarà la vita di ogni singola traccia, come sarà accolta. Sì, questa cosa che dici l’ho pensata anche io, però… Sai, quando faccio una canzone all’inizio non penso mai dove andrà a finire. La musica illegale era in prima battuta un pezzo molto rallentato, un po’ come le cose che fanno Foresta e Hugo Sanchez. Poi ho iniziato a metterci sopra dei cantati quasi trap. Poi mi sono detto: ma sì, mettiamoci sopra nel ritornello una cosa che sembri quasi El Meneito… (ride). Insomma, ho fatto un gran mischione. Però sì, potrebbe diventare davvero quello che dici tu. Ma se accadrà, non sarà più una cosa sotto il mio controllo.

Che poi tu l’esperienza dei cortei con tanto di carri e sound system l’hai già fatta al Pride di Milano…
Eh gìà.

E ti è piaciuto un sacco.
Eccome.

La cover de ‘La terza estate dell’amore’

E La terza estate dell’amore mi pare proprio un disco concepito per essere fruito quasi più in situazioni del genere che in un normale concerto.
Ah, io lo sto dicendo già a tutte le persone che lavorano con me: il prossimo non sarà un tour, sarà un degenero! Anche i pezzi vecchi: li voglio tutti riarrangiare per portarli ad una dimensione da rave. Voglio questa apertura. Questa energia. E voglio anche che ci sia una componente da sabba, come dicevamo prima. Sì, voglio tutto questo. Ciò che invece non voglio è restare ancorato al concetto tradizionale di concerto o di cantante… Sono cose che voglio proprio spazzare via. E sarà figo, credimi: la gente si farà un viaggio incredibile, dall’inizio alla fine. Nello scorso tour questa componente un po’ c’era, ma era una cosa a sé, una parentesi, qualcosa di separato da tutto il resto. Il momento-rave insomma c’era, ma era appunto solo un momento, esplicitamente evidenziato e staccato dal resto. Ora invece voglio che tutto il live sia un flusso spontaneo, avvolgente, un qualcosa dove non capisci quando una canzone inizia e quando finisce…

Magari dovrai anche farci stare dentro delle cose bizzarre. Penso a La cattedrale, traccia dove c’è la cosa più uncool del mondo, oggi come oggi: un assolo di chitarra acustica. Ma ti pare?!
Sì! Chitarra classica! Con le corde di nylon! (Ride) L’assolo l’ha fatto Maurizio Brunod, un jazzista di Ivrea molto bravo con qualche anno più di me. Un giorno era venuto a trovarmi in studio e ad un certo punto gli faccio: «Ok dai, prova a farmi un assolo qui». L’ho registrato, ma l’idea originaria era di prenderne solo dei frammenti, destrutturarli, processarli digitalmente… E invece no. L’ho messo tutto. Così com’era. Manco fosse un disco di Pino Daniele nel suo ultimo periodo (ride).

E nel fare una cosa così assurda hai goduto.
Di brutto! Quando ho fatto il sentire il pezzo ad altri, penso ad esempio a uno bravo come il dj/producer Fabrizio Mammarella, la prima reazione è stata «Ma noooo, ma che è ‘sta cosa, ma stiamo scherzando». Poi però, a fine traccia: «Sai che invece non ci stava male?».

A proposito di dj/producer: vista la natura molto danceflooriana ed elettronica de La terza estate ce ne sono alcuni che nello specifico ti hanno ispirato più di altri?
Ultimamente sono molto affascinato dalla parabola di A Guy Called Gerald. Un artista che conoscevo ovviamente per Voodoo Ray, la sua traccia più famosa…

Un inno acid house epocale. Uscito ormai più di trent’anni fa.
Già, lui di quel genere è un pioniere assoluto. Ma quando ho approfondito il suo intero percorso la sua figura mi ha davvero rapito: a partire dal fatto che ha suonato pure negli 808 State…

Ne era membro originario! Nel loro primissimo album lui c’è. Poi si sono separati, e anche non benissimo a dirla tutta.
Quell’album tra l’altro non si trova su Spotify, sono andato a cercarmelo in CD. Trovo quel materiale davvero sexy, musicalmente. Ma poi dopo ha avuto anche una svolta drum’n’bass molto particolare, e poi ancora si è messo a fare una electro cupa… Insomma, un bel modo di essere in continua evoluzione, no? Poi, se devo citare un altro nome, non posso non fare quello di Alessio Natalizia.

Ovvero Not Waving.
Già. So che il suo ultimo disco è piaciuto da morire anche a te, giusto?

Caspita, sì. È bellissimo. È già uno dei miei dischi dell’anno.
Alessio è uno da cui cerco sempre di imparare. E ogni volta che mi sembra di aver imparato, beh, lui nel frattempo è già andato oltre, tornando ad essere dieci anni avanti a me… Lui è una fonte di ispirazione continua, davvero. Oltre ad essere un grandissimo amico, e un vero esempio di rettitudine e integrità artistica. Dopo la parentesi un po’ più canonica coi Disco Drive ha virato tutto verso una completa libertà espressiva, verso la sperimentazione senza confini, facendo cose bellissime. Ecco, non dico che Cosmo diventerà come Not Waving, ma piano piano mi piacerebbe farlo deragliare sempre di più verso quelle traiettorie lì…

Magari per farlo dovresti andare via dall’Italia, esattamente come ha fatto Alessio.
La mia scommessa, lo sai, è riuscire a fare le cose qui. Io, e non solo io. Tutta Ivreatronic per me è una storia importante. E non è solo questione di fare dei dischi ma proprio di creare una scena, un ecosistema.

Foto: Chiara Lombardi

Ah ecco, a proposito di Ivreatronic: l’esperimento della svolta brusca in direzioni ambient com’è andato? Inizialmente eravate un movimento/label che dava vita essenzialmente a release da dancefloor, poi all’improvviso questa cosa del trittico di uscite ambient (la tua, quella di Foresta, quella di Enrico Ascoli) a nome Nuova Sauna Possibile.
I vinili sono in stampa. Siamo in ritardo rispetto ai programmi originari, un ritardo enorme, ma non dipende appunto da noi. La prima accoglienza comunque è stata ottima: il mio disco, il primo ad uscire, è andato subito sold out. Sono molto contento che a Ivreatronic si sia aggiunto questo colore, perché la vedo sempre più come una realtà che travalica i generi e le convenzioni. A un certo punto abbiamo capito che non aveva senso fosse solo una etichetta da club.

Ma quanto è diverso questo tuo esperimento ambient, autoprodotto e promosso solo col passaparola, rispetto al disco ufficiale, rispetto cioè a La terza estate dell’amore che è il lavoro annunciato, promosso, in uscita su una major, con tanto di ufficio stampa e quant’altro? I due sono usciti in realtà a poca distanza l’uno dall’altro…
Il lavoro uscito per Nuova Sauna Possibile è, per certi versi, una nota a margine rispetto a una delle anime possibili de La terza estate dell’amore: è come prendere Gundala e Noi da quest’ultimo tirandone fuori una costola e, da questo, sviluppare un disco ambient. Ambient che io ho ascoltato veramente parecchio, come genere musicale, soprattutto a inizio pandemia; poi però un giorno mi sono detto: «cazzo dai, non posso stare a casa a rimbambirmi tutto il giorno ascoltando questa musica…» (scoppia a ridere).

Già. Ora poi il circo riprende e…
Bravo! Il circo! Hai detto bene!

Eh, quello un po’ è.
Vogliamo lo show, vogliamo il circo (scandisce sarcastico).

Ti tocca, almeno un po’. Ti piaccia o meno. A partire da questa chiacchierata che ci stiamo facendo, eh. Che è solo un momento di una lunga, infinita serie di appuntamenti promozionali che ti aspettano. E poi ci saranno le presentazioni in giro, e poi il tour, e… Sei pronto?
Non sono ancora pronto, no. Ma non vedo l’ora di iniziare a lavorare a costruire lo spettacolo per il prossimo tour. Ecco, qua fammi dire una cosa a cui tengo tanto.

Vai.
Col mio manager e con la mia agenzia di booking, Dna Concerti, ci eravamo già mossi per tempo: con le date previste per autunno 2021 avevamo proposto a determinate regioni di usarci proprio per testare un protocollo di sicurezza, con test rapidi all’ingresso e quant’altro, di modo da evitare richieste di distanziamento all’interno, o pubblico che deve stare seduto – sarebbe un controsenso, per il tipo di spettacolo che vogliamo fare. Nel frattempo questo tipo di test lo si sta già facendo in tutta Europa – vedi Spagna, Olanda, Gran Bretagna – e finalmente il 5 giugno ho visto che ci saranno pure due appuntamenti-pilota in discoteca qui in Italia; considerarlo allora una sperimentazione ancora ad autunno dovrebbe essere ormai obsoleto, siamo tutti d’accordo vero? Eppure vedo che l’argomento ancora non è affrontato. È ancora tabù, in tutte le dichiarazioni ufficiali. Com’è possibile? È come se le nostre pratiche culturali fossero completamente delegittimate, non avessero ragione d’esistere. Per chi ragiona su riaperture e protocolli a livello istituzionale, ballo e concerti in piedi sono ancora invisibili, innominati. Attenzione: non sto dicendo «aprite, basta limitazioni, vogliamo fare quello che ci pare». No, zero. Sto invece dicendo: com’è possibile che i ristoranti abbiano un protocollo? Com’è possibile che non esistano ancora delle date almeno indicative di riapertura per club e concerti in piedi, magari legate a degli indicatori precisi? Non siamo degni manco di questo? E ti dirò di più: tutto questo discorso si poteva applicare già la scorsa estate. Estate in cui si poteva semplicemente dire «O ci sono i test rapidi all’ingresso, o la serata non si può fare. Se ci sono, procedete pure»; e invece no, non si è fatto nulla. E oltre a non fare nulla, si è permesso di aprire due settimane ad agosto ma solo per poi poter avere il capro espiatorio per quando i contagi sono tornati a salire, ad ottobre. Insomma: io vedo proprio un preciso schema di delegittimazione istituzionale di tutto ciò che è ballo, di tutto ciò che è in qualche modo festa. E questo nonostante il fatto che, se c’è la volontà, test ed esperimenti si possono evidentemente fare già da mesi. Spagna, Olanda, Gran Bretagna lo dimostrano.

Pensi che ci sia un disegno preciso dall’alto o…?
Ma no, non penso proprio che ci sia un disegno preciso, un complotto dall’alto. Tutto questo è semplicemente il frutto di una ideologia strisciante che, in qualche modo, c’è da sempre. Questa chiusura verso il ballo è una posizione ideologica, non ha molto di razionale. Del resto cosa vuoi che ne capisca un ministro come Speranza? E non è un attacco alla persona, attenzione, non sono qua a insultarlo o a sbeffeggiarlo: lui fa quello che può, o meglio, quello che si sente di poter fare. Ma: per la sua storia, per le sue frequentazioni, per il suo vissuto, per gli studi che ha fatto, che tipo di comprensione può avere nei confronti di certe dimensioni di società e di aggregazione? Ci sono persone – non parlo di Speranza, parlo in generale – che per il tipo di ideologia che hanno assorbito negli anni e anche per l’ideologia intrinseca delle strutture in cui si cala la loro azione quotidiana non sono semplicemente in grado di capire chi siamo e cosa facciamo. Non è nemmeno colpa loro, eh, è proprio un sistema che funziona così. Non cerco colpe individuali.

Un discorso da leader. Leader di una rivoluzione più umanistica che politica, forse.
Voglio essere una persona che dice sempre quello che pensa. Io non credo che con la mia musica io possa cambiare alcunché. Non credo di poter cambiare nulla, con essa. Davvero. Ma mi sono stufato di stare zitto, ecco. Quanto assurdo è che ad oggi è come se gli eventi in piedi e col ballo non esistessero, nella prospettiva di vita delle persone? Non ci siamo in nessun protocollo. Lì dove invece per altri settori ed altre modalità ci sono road map ben precise. Perché? Com’è possibile? È come se si stesse facendo del razzismo culturale e musicale: certe cose non si possono fare, anzi, non si devono nemmeno considerare, stop. Visto allora che per quest’estate molto probabilmente per forza di cose dovrò stare fermo, mi piacerebbe almeno fare delle presentazioni de La terza estate dell’amore in cui si parli molto, ci si confronti, si metta in luce anche l’aspetto politico del disco. Perché l’aspetto della festa è anche politico.

Insomma: vota Cosmo.
Vota Cosmo vota Cosmo vota Cosmo vota Cosmo… (imitando la voce di Totò nel film Gli onorevoli).

Esatto. Prima o poi ti candidi, quindi: confermi?
Confermo, confermo. Un giorno, farò il sindaco di Ivrea.

Leggi altro