Corrado Rustici, prog prima di te | Rolling Stone Italia
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Corrado Rustici, prog prima di te

Negli anni ’70 il produttore delle popstar suonava nei Cervello (che stanno per tornare) e nei Nova, frequentava il giro del Neapolitan power, faceva la fame pur di sfondare all’estero. Oggi la musica italiana lo butta giù. La nostra intervista

Corrado Rustici, prog prima di te

Corrado Rustici (il primo a sinistra) coi Cervello, 1973

Foto per gentile concessione di Corrado Rustici

Dici Corrado Rustici e pensi al produttore che ha lavorato con Zucchero, Ligabue, Elisa, Francesco De Gregori, Renato Zero, ma anche con Whitney Houston e Aretha Franklin. Rustici non è però cresciuto a pane e pop. Ha esordito con un gruppo prog chiamato Cervello col quale ha pubblicato un album 50 anni fa. Ha poi esplorato il jazz-rock e ha suonato con un gran numero di superstar, da Phil Collins a Pete Townshend. È una storia che parte dai vicoli di Napoli, passa per la Gran Bretagna e arriva negli Stati Uniti.

Sono passati 50 anni dall’esordio del tuo gruppo prog, il Cervello. Quali sono state le tue prime esperienze? Immagino che la presenza in casa di tuo fratello Danilo, chitarrista degli Osanna, abbia influito pesantemente.
Danilo, che era sei anni più grande di me, era un po’ il mio eroe, come capita spesso con i fratelli maggiori. Poi lui era un geniaccio, non aveva non solo capacità artistiche e musicali ma anche spunti intellettuali molto profondi. Per me è stata una grande influenza.

Quando aveva cominciato?
A anni metà anni ’60, quando aveva scoperto i Beatles, ogni cosa che ascoltava poi la passava a me. Quello era un periodo veramente irripetibile, un vero rinascimento della musica.

Che età avevi?
Otto o nove anni, però sentivo molto questo cambiamento. Seguivo Danilo e mi interessavo di tutto quello che faceva, specie quando cominciò a bazzicare in diversi gruppi e a un certo punto, insieme a Lino Vairetti, fondò gli Osanna. Ricordo ancora la sera che tornò a casa e mi disse che aveva messo su una band nella quale per la prima volta avrebbero suonato brani composti da loro, non più cover. Gli Osanna poi ebbero successo, furono uno dei gruppi più importanti di quel periodo insieme a PFM e Banco, io andavo in tour con loro, facevo il fonico, una volta addirittura mi capitò di sostituire Danilo in una data in Toscana perché si era beccato un’influenza devastante. Avevo già un po’ di barba, loro si truccavano e indossavano dei sai, quindi non si capiva che ero io e non mio fratello.

A quel punto tu già suonavi la chitarra?
Sì, da quando avevo 9 anni, fregavo quelle di Danilo (ride). Cominciai a fare anche io dei gruppi, poi in quel periodo a Napoli era presente praticamente tutto quello che diventerà il Neapolitan power.

Dove vi vedevate?
Al Vomero, c’erano due piazze con due bar dove ci riunivamo tutte le sere, con Pino Daniele, Enzo Avitabile, gli Osanna, James Senese, Tony Esposito… Rimanevamo lì ore a fare discorsi, fumare spinelli, parlare di musica. Questo fino a mezzanotte, poi andavamo nella sala prove di Pino, dove lui suonava con il suo gruppo Batracomiomachia. Lì facevamo jam fino alle 2 o le 3 del mattino, così tutte le sere. Cominciai a conoscere i musicisti con cui formammo a questo gruppo che chiamammo Cervello, con una formazione diversa da quella del disco, io ero il cantante. In seguito vedemmo un’altra band con un cantante che aveva una voce bellissima, si chiamava Gianluigi Di Franco e in breve fu lui a diventare il cantante principale del Cervello.

Come nacque Melos, il vostro unico album?
Portai tutta una serie di idee che avevo scritto e che sviluppammo tutti insieme per quasi un anno, con il proposito di essere quanto più diversi possibile dagli altri gruppi.

Infatti una delle vostre stranezze era il non avere tastiere, cosa incredibile per un gruppo prog.
Fu una scelta consapevole, cercavamo un sound che ci contraddistinguesse. Al posto delle tastiere usammo una pedaliera dei bassi che era appartenuta agli Osanna. Ricordo che ero in sala prove da solo e la feci passare in un riverbero Binson che usavano anche i Pink Floyd, creando un suono come di violoncello distorto. Poi lo feci sentire al gruppo e il bassista Antonio Spagnolo decise di accettare la sfida e cominciò a usarla. In questo eravamo influenzati dai Genesis il cui bassista usava proprio una pedaliera simile e nel frattempo suonava la chitarra.

Era un suono assai particolare il vostro, da chi eravate influenzati?
Avevamo sassofoni elettrificati, il flauto, io suonavo anche il vibrafono. C’erano elementi classici, jazz, echi di Van Der Graaf Generator, Gentle Giant, Genesis, ELP, Mahavishnu Orchestra, atmosfere bucoliche… Pazzesco quello che stava succedendo in quel periodo, veramente un rinascimento dove ognuno era diverso e anzi più eri diverso più avevi successo.

Come arrivaste al vostro unico disco Melos?
Quando ci sentimmo pronti chiesi a Danilo di venirci a sentire, lui rimase entusiasta e insieme con Elio D’Anna, il flautista-sassofonista degli Osanna, decisero di produrci e presentare il gruppo alla Ricordi, il cui capo venne a sentirci in sala prove e ci ingaggiò. Da lì uscirono fuori dei problemi, tipo che io, che ero autore di quasi tutte le musiche, e Gianluigi, che aveva scritto i testi, non eravamo iscritti alla Siae. Quindi usammo dei prestanome che tutt’ora si prendano i diritti di quei brani, dopo qualcosa come 18 ristampe del nostro disco.

Ho visto delle foto dal vivo, indossavate abiti particolari.
Io avevo un elmo greco, mi dipingevo gli occhi come un egiziano, mettevo un diadema, gli stivaloni e una gonna lunga di velluto nero.

Cosa è successo dopo Melos?
Abbiamo fatto diversi festival, ma il clima si è fatto sempre più difficile, la musica gratis, i casini ai concerti, era un momento difficile che poi avrebbe favorito il mio trasferimento in Inghilterra. Poi l’interesse per il prog stava scemando, quella che era la musica pop, popolare, lo diventò sempre meno.

Il pop all’epoca erano i Led Zeppelin, i cantanti alla Gianni Morandi erano musica leggera.
O anche Orietta Berti che per me era l’anticristo (ride). La musica pop di allora era veramente diversa da ciò che poi è diventata, ovvero mero intrattenimento, svago, con un valore preponderante dell’immagine, l’apparire che conta più dell’essere. C’era anche una preparazione diversa da parte del pubblico, tanta musica nuova, originale, non copie di copie come si sentono adesso, era l’opposto. Purtroppo quel momento durò poco, degenerò, i concerti divennero comizi politici, si perse l’attenzione per la musica.

Dopo il Cervello hai fatto il grande salto e sei andato a vedere come stavano le cose oltremanica.
Volevo capire come facevano i mostri sacri che venivano dall’Inghilterra a essere tali, andare alla fonte. Sono stato fortunato, però ti devi esporre, fare il salto, anche con grandi sacrifici perché quando siamo partiti abbiamo fatto veramente la fame.

NOVA-Blink-01-Tailor Made, Part 1 & Part 2-Jazz Rock, Fusion-{1975}

Sei partito con tuo fratello una volta formati i Nova, giusto?
Sì, anche con Elio D’Anna, Luciano Milanese e Franco Lo Previte. Cominciammo l’avventura facendo un sacco di debiti, io ne feci uno per un milione e mezzo che dovevo restituire entro otto mesi. Poi andammo allo sbaraglio a cercare un contratto, perché ci sentivamo forti, carichi. Purtroppo per due, tre mesi, provammo e facemmo audizioni presso diverse case discografiche ma non successe nulla, non ci voleva nessuno, finirono i soldi e il gruppo se ne tornò in Italia. Tutti tranne me, io rimasi in questa casa a Londra, da solo. Avevo 20 nni, ero senza una lira e ricordo che erano rimasti degli spaghetti e del ketchup. Finiti quelli prendevo le lumache dal giardino e le mangiavo, senza ovviamente spurgarle. Ho mangiato solo lumache per una settimana, ma non mi è passato neanche per la mente di tornare, ero convinto che ce l’avremo fatta.

Non sbagliavi.
Sì, il nostro manager di allora un giorno ci convocò a casa sua, con me che non ci vedevo dalla fame. Lui aprì una valigetta e ci consegnò pacchi di soldi annunciandoci che l’Arista ci avrebbe fatto un contratto, saremo stati i primi artisti di questa nuova label insieme agli scozzesi Bay City Rollers. Da qui comincia la storia inglese dei Nova, con dischi, tour, conoscenze.

Dimmene alcune.
Ti dico l’antefatto: ero in studio che registravo un assolo per il disco Vimana ed ero tutto infervorato pensando «Cazzo, pensa se ci fosse il mio idolo John McLaughlin a vedermi». Oh, apro gli occhi e chi trovo dall’altra parte del vetro che agita le braccia e mi incita? Non ci potevo credere, era lui. Entro in regia pietrificato e lui «Corrado, vieni qua», mi fa sedere a fianco e tra le altre cose mi dice «Per ogni artista europeo è importante andare in America». Quella frase mi rimase impressa e ci pensai a lungo perché in effetti gli Stati Uniti erano il mio sogno, era lì che si era sviluppato il jazz, il jazz-rock e molta musica che amavo. Poi John mi portò nello studio accanto e mi presentò Jeff Beck e George Martin che stavano registrando un album. Figurati, George Martin per me era un eroe, l’ho ringraziato per i grandi servigi resi all’umanità (ride).

C’è anche Phil Collins in un album dei Nova, mi racconti?
Phil lo avevo già conosciuto perché gli Osanna durante il tour di Palepoli fecero tre serate con i Genesis. Mi ricordo una volta a Genova, in questo teatro che si chiamava Alcione, i Genesis facevano le prove nel pomeriggio e io li ascoltavo seduto in galleria mentre suonavano gli abbozzi di quello che sarebbe diventato Foxtrot. Da lì siamo diventati amici. Poi Phil faceva parte del gruppo jazz rock dei Brand X e il loro produttore era lo stesso che lavorò al nostro Vimana, fu lui a invitarlo alle sessioni per il disco, nel quale suonò le percussioni. Abbiamo avuto un sacco di collaborazioni con artisti internazionali, cosa che non so se sarebbe stata possibile rimanendo a Napoli.

Però nella tua città in quel periodo c’era grande fermento.
Certo, con Pino Daniele, i Napoli Centrale e tanti altri, una bella scena ma oramai io ero altrove. Ricordo una volta che tornai a Napoli e andai a Ischia, un giorno mi sentii chiamare «Corrado, Corrado!», era Pino, stava sugli scogli e mi diceva che aveva una bottiglia di vino, di andare da lui. Mi disse (imita la voce di Pino Daniele, nda) «Te ne vai con gli americani, bravo, voglio fare anche io una cosa così», e infatti anche lui poi ha collaborato con tanti grandi. Con Pino siamo rimasti buoni amici negli anni, lui voleva fare un album con me ma purtroppo non c’è stato il tempo.

Dopo tutta questa miriade di esperienze come hai deciso di diventare produttore e approdare al pop?
Successe che a un certo punto i Nova si trasferirono in America perché Vimana entrò in classifica ed eravamo abbastanza quotati, cominciammo a fare dei tour e un giorno fui chiamato da Narada Michael Walden che mi invitò da lui a San Francisco a suonare. Io accettai, presi la chitarra e passammo tre giorni insieme nei quali lui mi confidò che avrebbe voluto mettere su un team di produzioni e che mi avrebbe voluto con lui. Mollai la band e andai da lui. Un altro azzardo perché furono quattro anni di ulteriori sacrifici, in più non ero negli Stati Uniti legalmente, mi era scaduto il visto, e non potevo tornare in Italia perché non avevo fatto il militare, ero renitente alla leva, non sono potuto andare nemmeno quando morì mio padre. Con Narada però mettemmo su questo team, poi lui ebbe successo da solo e io lo accompagnai in diversi tour con Rufus, Chaka Khan, Rick James, tantissimi artisti della musica soul/r&b. Da lì il team si ampliò con Randy Jackson, Walter Afanasieff e David Sancious, con i quali producemmo le prime grandi hit di Whitney Houston, di Aretha Frankin, George Benson, Herbie Hancock.

Mi gira la testa.
(Ride) Quei lavori furono la mia tesi di laurea, da lì imparai tutti i segreti della produzione, mi completai come musicista e imparai a fare mio il lessico musicale americano.

E dopo tutta questa America come torna in ballo l’Italia?
Una volta che ero tornato per una vacanza fui coinvolto dal mio vecchio compagno di band Elio D’Anna per registrare dei brani di un ragazzo che aveva scoperto. Io non ne avevo assolutamente voglia, ero arrivato al top in America che ci tornavo a fare a lavorare in Italia? Elio però fu insistente e riuscì a convincermi. Così chiamai i miei amici musicisti come Randy Jackson e gli altri e ci mettemmo al lavoro per il progetto di questo ragazzo che altri non era se non Zucchero Fornaciari, di cui arrangiai tutto l’album in sette giorni. Poi tornai negli Stati Uniti e nel frattempo Zucchero esplose. Il resto è storia, come si suol dire.

Con Elisa e Ligabue. Foto per gentile concessione di Corrado Rustici

Cosa ti rende più orgoglioso del tuo lavoro di produttore?
Sintetizzando, credo sia l’avere importato un certo sound che prima non c’era, credo di avere contribuito a fare in modo che la musica italiana potesse mutare, sia a livello di produzione che di linguaggio, farsi più internazionale.

Come hai traslato il tuo retroterra prog e jazz-rock nel momento in cui hai lavorato a produzioni pop?
Credo di avere accesso a una serie ampia di vocaboli musicali. Ho sempre contaminato, ho sempre cercato di portare un qualcosa in più per arricchire quello che secondo me poteva diventare un discorso popolare, ma colto. Nelle mie produzioni ci sono sempre degli elementi “sovversivi” che rendono i brani interessanti. Poi c’è tutto un discorso di frequenze, di armonie particolari, di suoni. C’è una grande ricerca e attenzione su ogni dettaglio, nulla è lasciato al caso per far sì che i brani non stanchino mai. Ne parlerò diffusamente in una serie di libri che sto scrivendo.

Ah, racconta.
Sto lavorando su tre libri che mi stanno un po’ massacrando, una cosa è la musica un altra scrivere un libro che non ti da quell’effetto emotivo immediato. Il primo riguarda la produzione, il secondo la chitarra e il terzo è un’autobiografia. È un progetto massiccio, spero di fare qualcosa di utile perché fare un libro che parla di cose solo tecniche mi sembra un po’ inutile, ce ne sono milioni dappertutto. Voglio offrire il mio punto di vista, raccontare la mia esperienza sia in studio che come musicista e produttore, comunicare la mia visione.

Altre cose in ballo?
Tante: un progetto per ora top secret, un cofanetto con le registrazioni dei Nova, compresi provini e inediti, una ristampa/rivisitazione del mio album solo Deconstruction of a Postmodern Musician e infine un nuovo disco del Cervello. È una notizia che ti do in anteprima, stiamo lavorando al nostro secondo album che sarà basato su composizioni dell’epoca che non avevamo mai registrato, il tutto in un cofanetto che includerà anche un live inedito del 1973.

Evidentemente l’esperienza della reunion per il live in Giappone del 2017 ha dato i suoi frutti.
Ah, quella è stata un’esperienza incredibile. Siamo stati invitati dal direttore di una label giapponese il cui sogno era vederci dal vivo. A me sulle prime è sembrata una cosa impossibile, alcuni del gruppo non ci sono più e con gli altri non ci vedevamo da anni. Lui però ha insistito e così ci siamo rivisti e abbiamo rimesso mano a canzoni i cui arrangiamenti erano robe folli, io ero proprio un pazzo furioso quando le ho composte (ride), e pensa che avevo 16 anni. Poi nel tempo il mio modo di suonare la chitarra è cambiato totalmente. Però ce l’abbiamo fatta ed è stata una bellissima esperienza.

Come vedi il panorama musicale attuale?
Me ne sono tirato fuori dieci anni fa, ho fiutato l’aria, ho capito dove stavamo andando a parare e ho lasciato perdere. Sono tuttora molto felice di questa decisione di non partecipare alla risacca, non mi appartiene, ho già dato tanto e credo che non ci sia bisogno fare cose solo per sentirsi coinvolti in una scena con la quale non mi identifico. Ora faccio solo cose che spero e credo siano utili culturalmente, socialmente e musicalmente. Voglio progetti che possano rimanere.

È difficile in Italia creare qualcosa che abbia rilevanza commerciale e artistica allo stesso tempo?
Sì, è molto difficile. A parte gli anni del prog, quando era in grado di sfornare prodotti di rilevanza internazionale, vedi la PFM, l’Italia è sempre stata, e ancora lo è, il terzo mondo musicale. Quello che è popolare all’estero, che è riconosciuto come italiano, è Bocelli perché segue la tradizione operistica per la quale siamo famosi, oppure O sole mio, il bel canto napoletano, ’a pizza (ride), siamo ancora a quei livelli.

E allora come ti spieghi il successo dei Måneskin?
Da quel poco che ho visto, non so a cosa possa servire. Serve a loro, ma non alla musica italiana. Non credo che i gruppi americani si mettano a studiare i Måneskin per fare come loro, semmai il contrario, è questa la differenza. Cosa è che loro portano di italiano? Sono persone del mondo dell’intrattenimento che hanno trovato una chiave per diventare popolari, ma i filoni sono sempre gli stessi, guardiamo sempre agli Stati Uniti oppure all’Inghilterra, ma loro non guardano mai a noi. Ti immagini Adele che prende spunto da un nostro artista?

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