Conglomerandocene: intervista al cantautore d’avanguardia Fabrizio Testa | Rolling Stone Italia
Conglomerandocene
Interviste Musica

Conglomerandocene: intervista al cantautore d’avanguardia Fabrizio Testa

Nella nuova puntata della rubrica dello Sgargabonzi su Rolling Stone, il leader del progetto Il Lungo Addio racconta le sue influenze, l’amore per i film della New Hollywood, il suo legame con la Riviera Romagnola

Conglomerandocene: intervista al cantautore d’avanguardia Fabrizio Testa

Fabrizio Testa è un cantautore milanese e musicista d’avanguardia. Solista, componente d’un terzetto di bassi e titolare del progetto Il Lungo Addio, per il quale si aggira da anni lungo i litorali della Romagna cantando la solitudine e la disperazione rivierasche.

Ho conosciuto Fabrizio Testa per caso, nell’estate 2015. Venne organizzato un secret live in quel di Lido di Classe e ci saremmo esibiti a ruota. Da aficionado di quelle lande, ricordo che quando arrivò propose di andare a mangiare da Topo, un ristorante tipico della zona. Io non ci andai perché facevo la Tisanoreica. E uno dice: ma allora potevi prendere la carne. No, perché la carne nei ristoranti costa sempre un botto (si parla anche di 9 euro) e comunque mi fa troppo gola vedere gli altri che mangiano la pizza o i primi. Poi quando tornarono venni a sapere che la cena gli era stata offerta da quelli che avevano organizzato la serata. Se potessi tornare indietro ci sarei andato e avrei preso la grigliata mista.

Come Bobby Solo che si divideva fra carriera solista, dischi dei Robots e musicista per i film di Antonioni, pure tu curi progetti musicali molto diversi. Ti va di parlarcene?
Sì.

Parlacene pure.
Il progetto più longevo e logorante è sicuramente Il Lungo Addio, una sorta di esistenzialismo in musica. Purtroppo la stampa mi ha subito incasellato nel filone dei cantautori indie. Ma io non ho mai ascoltato i cantautori indie e neppure troppi cantautori italiani in generale. Le influenze del progetto sono da cercare altrove, forse nei romanzi di Hemingway. Io per rilassarmi ascolto i Weather Report. Insomma, cose molto lontane.

Il Lungo Addio racconta la solitudine del maschio contemporaneo che vaga tra le sue langhe mentali proiettate in uno spazio (come gli hotel o la spiaggia) alla ricerca di una cura per il dolore. Non c’è altro dietro. Nessun disagio tardo adolescenziale tipicamente e tragicamente italiano. Ma, come nei film di Marco Ferreri, un uomo solo al centro del nulla.

I Weather Report riescono a piacere anche a me che amo tutti altri generi, ma solo i dischi con Pastorius. Venendo agli album a tuo nome, questi sono invece molto diversi, un progetto quasi diametralmente opposto a quello de Il Lungo Addio. Un’opposizione che persiste anche all’interno della tua stessa discografia solista, viste le tante corde emotive e i variegati generi che tocchi.
Vero, sono una full immersion di tutti i generi più disparati che amo. Nei dischi, al contrario de Il Lungo Addio, non canto mai, suono e basta, sono gli altri a cantare. Questi album sono spesso realizzati con l’aiuto di molti ospiti prestigiosi. Addirittura in Morire (2012) c’è un coro di ben venticinque alpini registrato dal vivo.

Le liriche raccontano invece frammenti di sogni, incubi quotidiani, vaghi ricordi. In altri casi invece sono dischi completamente strumentali come Music for Adriatic Colonies (2014) che è una sorta di suite minimalista per pianoforte e synth. Se ascolti Rebus (2017) ci trovi dentro la scena di Canterbury e la Techno. L’ultimo Trout Rap Replica (2019) è un disco di Hip Hop realizzato tra Milano e Los Angeles. Insomma, si cambia di continuo come nella vita. Sempre alla ricerca di altro o appunto di se stessi.

Ma io amo i cambiamenti ed è probabile che questi due progetti si concluderanno definitivamente e se ne apriranno degli altri. Che ne so, magari un nuovo duo hip hop, oppure un disco con un nuovo moniker. Oppure semplicemente non farò più nulla.

Nelle tue canzoni c’è una materialità costante e stordente, quasi da beat generation. Marche, prodotti, nomi di località balneari, hotel e locali. Ogni canzone appare come un diorama. A te interessa più essere evocativo che concettuale. È una scelta calcolata?
Credo nei fantasmi e nell’evocazione dei morti. Come il cinema che ferma su pellicola le azioni perdute. Noi le possiamo rivedere per sempre ma l’attore ha già realizzato quel gesto, detto quella frase, e si è spostato su altro. Sognavo una vita austera come quella di Ingmar Bergman. Certo, si parla di un ritmo beat, come quando i giovani teddy boy ballavano indiavolati nelle cantine americane la musica di Charlie Parker. Tutte evocazioni senza calcoli, d’altronde ho iniziato a scrivere musica quando ho abbandonato l’Italia per la Francia senza nessuna ragione particolare.

A proposito di film, quali sono i tuoi riferimenti cinematografici oltre al già citato Ferreri? Nelle tue canzoni l’amore per il cinema è percepibile e materico. C’è un’aggressione visiva senza soluzione di continuità, quasi fulciana.
Il cinema, prima grande passione, sostanzialmente più della musica, ha aiutato il processo creativo dei miei progetti, soprattutto delle mie liriche. Adoro le pellicole della New Hollywood, come Cinque pezzi facili, Il Cacciatore, California Poker, Il re dei giardini di Marvin, Cruising, Lo spaventapasseri, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Il laureato, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Un uomo da marciapiede e naturalmente Il lungo addio. Ma mi piacciono anche i film di Bergman, di Rossellini, di Visconti, oppure i capolavori di Pupi Avati e Marco Ferreri. Un film dimenticato e originalissimo è Odissea Nuda di Franco Rossi con Enrico Maria Salerno. Sorta di fuga verso gli argini del mondo.

Anche tu, come me, sei un alloctono che ha sviluppato un legame di sangue con la Riviera Romagnola. Cosa ti lega così tanto ad essa? Va detto che tu sei di Milano, ma da un anno ti sei trasferito a Ravenna.
Ho vissuto per anni a Milano, per molti anni invece a Parigi. Adesso vivo a Ravenna. Probabilmente continuo a inseguire me stesso, come il personaggio di Jack Nicholson in Cinque pezzi facili, quando alla fine sale su un tir diretto in Canada, senza portafoglio e senza nemmeno il giubbotto per ripararsi dal freddo. La Romagna è un confine piatto e nebbioso d’inverno, umido e drammatico durante le stagioni calde. Ci ritrovo in loop una spensieratezza effimera e il gusto del sale sulla pelle dopo una nuotata al largo di Cesenatico. Nient’altro.

E i film che meglio raccontano la Riviera romagnola? A mio avviso non è che ce ne siano a bizzeffe. Anzi, i più la semplificano, la fraintendendo o semplicemente se ne fregano di considerarla più di un mero scenario.
Beh, qui si entra in un territorio ibrido. Perché vi sono pellicole drammatiche, desolanti, balorde e, in contrapposizione, altre molto più leggere o raffinate. Ma anche autentici trash movie. Ti butto qui un elenco senza distinzioni di genere; L’ombrellone, Estate violenta, Graffiante desiderio, Vai alla grande, Acapulco prima spiaggia a sinistra, La prima notte di quiete, Rimini Rimini, I vitelloni, La ragazza con la valigia, Zeder, Abbronzatissimi.

L’ombrellone è in effetti un film che amo molto anch’io, il mio preferito di Dino Risi insieme a Sono fotogenico. Un film amarissimo, dove lo sguardo di Risi è crudele solo per far affiorare l’umanità dei personaggi. Me lo ha riportato alla mente I Predatori di Pietro Castellitto, per me il più bel film italiano degli ultimi anni.
L’ombrellone è il primo instant movie sull’Italia del miracolo economico, pronta a farsi inglobare in un carnaio dantesco sulla spiaggia di Riccione, ritrovo una malinconia spregiudicata, un dramma spensierato, grazie ad una fotografia sublime che cattura senza fallo un’epoca irripetibile. E poi c’è sempre Enrico Maria Salerno, il mio attore italiano preferito. Una pellicola che fa pensare. Perché non si potrà più tornare indietro, ci toccherà sprofondare in quest’epoca dominata dal caos, nella quale anche le vacanze in riviera hanno assunto contorni apocalittici.

Nelle tue canzoni affiorano continue diapositive di una Romagna fuori stagione. Pare quasi un passaggio intermedio per portarla fuori dallo spazio-tempo (penso all’invenzione di un arcipelago Zadina), filtrarla per astrazioni, farla diventare un’altra cosa per cercare di avvicinarsi ad una sua possibile verità. Sono fuori strada?
Le diapositive che affiorano sono puro orrore, disgraziata solitudine. L’inverno romagnolo è avvolto nel fumo e nel disagio. Nebbie, pinete, sabbie mobili. Impossibile uscirne vivi. Quando si raggiungono alcuni spazi inesistenti (come l’arcipelago Zadina) in realtà è perché si è già morti da un pezzo. Non c’è spensieratezza, né fine intellettualismo. Solo la mediocrità della vita, in tutta la sua romantica sciatteria. Naturalmente affrontata indossando giacca e cravatta. Sin dal primo disco però non ho mai trattato solo la costa durante i mesi invernali. C’è tantissima solitudine estiva. Perché anche ad agosto effettivamente può fare molto freddo. Lo ripeto, amo gli argini del mondo.

Possiamo dire che la Romagna nascosta e fatta di scene tagliate al montaggio ti rappresenta di più rispetto a quella della mondanità? E diciamolo!
La mondanità non ha valore. Tutti sono ossessionati dal fatto di conoscere gente. I vialoni deserti, le mareggiate, un gatto che attraversa la strada. Questi sì che sono flashback dello spirito. Il resto non conta.

Ho capito che ti piacciono le domande stile Alta Fedeltà, quelle che ti portano a sciorinare elenchi: i cinque dischi che porteresti in spiaggia da ascoltare mentre ti gusti un bel ghiacciolo La Bomba al pompelmo rosa?
Immagino la spiaggia solitaria delle sette del mattino. Magari verso inizio maggio. Il sole che ruggisce, le onde, il vento, i primi surfisti. Le colonnine del salvataggio ancora in letargo. Un’immensa spiaggia libera senza ancora i maledetti ombrelloni.

Dennis Wilson: Pacific Ocean Blue
Randy Newman: Trouble in Paradise
Crosby Stills & Nash: CSN
Tim Buckley: Happy Sad
Bruce Springsteen: Greetings from Asbury Park N.J.

Di Randy Newman ti consiglio la canzone Dayton, Ohio 1983 – non so se la conosci – per me uno dei pezzi più toccanti di sempre. Ma torniamo a noi: piatto e gelato preferito, rigorosamente confezionato.
Spaghetti alla bottarga e il mitico cornetto Zeus dell’Algida, ormai fuori produzione.

E invece Gelati Menne o Centrale del Latte?
Preferirei non rispondere a questa domanda.

Anni fa hai percorso a piedi in solitario il tratto che va da Ravenna a Rimini. Come cambia il paesaggio e come il tuo stato d’animo lungo quei quasi 60 km?
C’è un tale che vive a Savio di Ravenna: un amico, un santo, un camminatore vero. Fan dei miei progetti musicali, ci stimiamo a vicenda. Dopo alcune uscite insieme a lui, ho voluto affrontare quella che al momento è la mia unica marcia solitaria ufficiale. Camminare, alla maniera di Celati, come nelle foto di Ghirri. Scavalcare solitudini e desideri. Sentirsi angeli e macellai. Patire il marcio risultato di una rivoluzione rivolta solo a sé stessi.Il panorama, soprattutto costiero, è meraviglioso. Pinete, lungomari, hotel, baie, ferry-boat, porto canali, edicole, piadinari, palazzi, grattacieli. La cosa più interessante è che il nord è invaso dalle pinete e dai poli chimici, il sud dagli hotel e dal cemento. Ci troviamo nel più classico dei plastici; nell’Italia congelata in indefinibile epoca. Sono rapito dalla bellezza effimera, dalle vacanze italiane mai più ripetute, dal corso del tempo, dai falsi movimenti. Tutto pur di evitare la morte!

Ed eccoci arrivati a quella che trovo sia l’unica domanda possibile: qual è tuo rapporto con la morte? Non entro nel dettaglio, ma trovo che la Riviera Romagnola rappresenti anche una riflessione sulla morte.
Per molti morire è raggiungere un premio partita. Scartare il corpo per arrivare finalmente al di là di tutto. Sergio Quinzio, uno dei teologi più originali del ventesimo secolo, ha atteso con l’ultimo brandello di fede rimasta l’arrivo dell’apocalisse promessa da Dio e con essa la resurrezione dei morti, che avrebbe dovuto restituirgli l’amata moglie scomparsa. Ma alla fine non è successo nulla e lui ha aspettato invano.
Se quindi non esistono premi partita o la promessa di un ritorno, l’unica cosa che rimane in gola è l’urlo di pietra e cenere del non essere più, del non esserci più. Cosa diavolo possiamo fare?

Magari farci ibernare, in attesa che un novello Paolo Zeder scopra come ridare vita ai morti. Oppure, visto che non ci hanno fornito un Oltremorte, costruirne uno da qua.
Forse il ritiro monacale può essere una soluzione. Altrimenti bisogna tentare una vita rocambolesca prima di scomparire definitivamente nel buio.

Che canzone vorresti al tuo funerale? Io non ho dubbi: Kiss Me dei Sixpence None The Richer.
Immagino il mio feretro al tramonto, che viene calato giù nel porto canale di Cesenatico, con la gente attorno che piange e ride, in presenza del sindaco. Quale canzone scegliere? Song to the Siren di Tim Buckley per esempio si adatta perfettamente all’occasione. Ma forse è molto meglio It’s Over di Roy Orbison, un commiato perfetto.

Altre notizie su:  Fabrizio Testa Conglomerandocene